𝐁𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐏𝐚𝐬𝐪𝐮𝐚, 𝐨𝐥𝐭𝐫𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐛𝐮𝐨𝐧𝐚
Felici come una Pasqua, si diceva una volta. Perché in effetti Pasqua è sempre stata un’esplosione di vita naturale e soprannaturale, civile ed alimentare. Esplode la vita da un Sepolcro, con la Resurrezione di Cristo, ma esplode la vita anche da un inverno e i vestiti si annunciano leggeri, come i modi di vivere; la natura fiorisce e il mare annuisce, mentre nei paesi riesplode lo struscio, da quello sacro, perché le processioni pasquali inaugurano la stagione delle feste di strada, a quello profano perché il passeggio torna al centro della vita di provincia e non solo. E a casa trionfano ciambelle e scarcelle, cartellate, benedetti e tielle, per dirla col lessico paesano. È un quadro pasquale fuori dal tempo, che riposa nei fondali della memoria di chi ha superato la soglia dell’anzianità o di chi si è attardato nei paesi che più lentamente hanno dismesso le loro tradizioni. La Pasqua presente è apolide e vacanziera, pasqua di viaggio o di vita ordinaria; si è logorato il significato speciale di Pasqua. Anche se talvolta risale dentro di noi la nostalgia della Pasqua d’infanzia, una specie di desiderio di tornare alla nostra originaria Isola di Pasqua.
Ricordo da bambino cos’era la settimana santa, non s’andava al cinema il giovedì e venerdì santo perché il film significava divertimento e invece questi erano giorni di lutto; e si vedevano donne vestite di nero piangere al passaggio di Cristo e della Madonna. Il dolore si leggeva nei volti di tanti nel pellegrinaggio dei Sepolcri e se un filo di gioia si intravedeva sotto l’aspetto dolente, era solo il presagio della Pasqua ventura, la certezza risorgente del Lieto Fine. Che ne è della Pasqua antica di cui ho gloriosi ricordi, sicuramente condivisi da molti di voi?
Il giorno di Pasqua si mangiava anche l’agnello di pasta reale che aveva lo stendardo tra le zampe e la faccia mansueta di mia zia Carolina. Era un peccato tagliarlo e infatti si esitava a farlo; ma una volta affettato, finiva presto e qualcuno si leccava persino lo stendardo. Oltre la controfigura di pasta reale dominava la tavola pasquale l’Agnello al forno. Gli agnelli, allora, non avevano l’aria depressa dei vitel tonnè. Erano abbacchi, non abbacchiati come in epoca vegetariana e animalista.
A Pasqua con quell’aria sorniona di primavera, i corpi si lasciavano rivedere dal sole e dalla gente, liberati finalmente dalle vesti invernali. Il risveglio della campagna si avvertiva fin dentro le narici della città. Il bello della Pasqua era che a differenza delle altre domeniche non annunciava la mestizia leopardiana del lunedì (“diman tristezza e noia recheran l’ore”). Perché alla domenica di Pasqua seguiva il Lunedì dell’Angelo, da noi detto del Pantano. la Santa Pasqua si faceva puttanella con la Pasquetta. Ah, la vezzosa Pasquetta, in campagna o al mare; la Pasquetta pomiciona e civettuola, tra camicette gonfie, corpi scoperti e prime voluttà che annunciavano l’estate. Il sole che torna sulla pelle, il contatto con la terra, per i più arditi il primo bagno a mare, tra grida disumane ed eccitazione goliardico-vascolare. La Pasqua era il risveglio della vita e della natura; la resurrezione si leggeva pure sugli alberi, tra i prati, nel sole e nell’aria.