Armando Diaz, un napoletano dimenticato

Armando Diaz, un napoletano dimenticato
di Gigi Di Fiore

Nell’orgia di anniversari, la vittoria nella Prima guerra mondiale è stata ricordata negli ultimi due anni con decine di libri, programmi televisivi e incontri. Rimozione quasi assoluta, invece, per i 90 anni dalla morte di chi fu l’artefice di quella vittoria, guidando l’esercito italiano nelle battaglie del Piave, del Grappa e di Vittorio Veneto: il generale Armando Diaz. Morì a Roma, il 29 febbraio del 1928. Novanta anni fa, appunto.

Un napoletano, Diaz, di origini spagnole. Un napoletano di via Correra al Cavone, che allora, nel 1861 quando nacque, si chiamava via Cavone Sant’Efrem nuovo. Riservato, di poche parole, per niente egocentrico, Diaz fu un ufficiale scrupoloso, preciso, poco ciarliero, per nulla sbruffone. Un napoletano, insomma, che concedeva poco ai luoghi comuni sulle sue origini.

Su Diaz, non tantissimo è stato scritto. Un libro, pubblicato da poco da Raffaele Riccio, professore di storia di origini cilentane che insegna a Bologna, nella collana delle Edizioni dell’Ippogrifo, fa giustizia al generale napoletano. “Armando Diaz, il generale e l’uomo” (350 pagine, 18 euro) è il titolo e offre un quadro illuminante della figura di un nostro concittadino poco conosciuto, soprattutto dai giovani. Nel suo documentato e rigoroso saggio, Riccio contrappone Diaz, che fu comandante dell’esercito italiano dal 1917 alla vittoria nel 1918, a chi lo aveva preceduto: il piemontese Luigi Cadorna.

Due tipi diversi. Cadorna trattò i soldati solo come carne da macello, con cinico rigore e pienezza di sé. Diaz introdusse nella gestione militare umanità, dialogo, comprensione, rispetto. E vinse. I due incarnarono le fazioni contrapposte degli ufficiali italiani di quel periodo, dove ancora dominavano i piemontesi, come Cadorna o Pietro Badoglio, sugli altri. Sui “napoletani” ebbe da ridire Raffaele Cadorna, il padre di Luigi (l’ufficiale della breccia di Porta Pia a Roma nel 1870), quando fu messo in pensione. Attribuì la sua rimozione per motivi di età alle gelosie della prevalente fazione “napoletana”.

Bugie, così come pesò sulla poca celebrità e lo scarso ricordo di Diaz le denigrazioni successive nei suoi confronti dei generali che gli erano stati al fianco, come Badoglio, o il ligure Enrico Caviglia. Pesò anche la sua iniziale adesione al primo governo presieduto da Benito Mussolini, dove fu ministro della Guerra.

Eppure, era stato un militare ferito nella guerra italo-libica del 1912, ferito nella Prima guerra mondiale, osannato nella tradizionale parata di New York il primo novembre del 1921, quando incontro anche un capo pellerossa. Dopo l’esperienza ministeriale, si ritirò nella sua Napoli. La città gli regalò una villa al Vomero: villa Presenzano, circondata da tantissimo verde al confine con la Floridiana.

“Non mi faccio illusioni su me stesso, ma ho avuto modo di equilibrare la forza e gli ingegni altrui, di far regnare la calma tra i miei generali e la fiducia tra le mie truppe” fu la frase che sintetizzava il carattere di un uomo. Diaz è morto per problemi cardiaci a 67 anni. E’ sepolto a Roma, nella chiesa di Santa Maria degli Angeli e dei Monti. Lontano dalla sua città, ma almeno nella capitale di un’Italia che non lo ha mai ricordato come avrebbe dovuto. E’ il destino di tanti uomini del sud, che pure sono stati protagonisti della nostra storia.
Sabato 31 Marzo 2018, 12:41
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