“Amo gli italiani ma ne stimo pochi”
Intervista tratta da Montanelli e il suo Giornale: Un quotidiano nato da una rivolta e da una sfida (L’Universale, 2020), libro a cura di Federico Bini.
L’Italia e gli italiani, il fascismo “che nasce come eresia nazionale del socialismo e muore a Salò come eresia sociale del nazionalismo”. D’Annunzio, l’egemonia gramsciana, Umberto Eco ed Eugenio Scalfari; il marxismo, all’origine del mito, il rapporto tra mito e leggenda, il tramonto di un mondo, l’Occidente, tra nichilismo e relativismo: “Si percepisce il senso di una fine ma non di un inizio”. Lo Stato nazionale, gli Imperdonabili e Leopardi: “È stato considerato come poeta, pur grandissimo, ma è stato poco considerato come pensatore”. C’è speranza anche dinanzi alla fine del mondo? “Sì, credo che la disperazione possa essere fruttuosa, possa essere bella e perfino proficua, più della speranza e meglio dell’illusione. Leopardi non si spinse fino a questo punto, ma ne gettò le premesse, forse inconsapevolmente”.
Quest’Italia le piace? E quali vizi e virtù identifica – oggi come ieri – negli italiani?
No, quest’Italia non mi piace, amo l’Italia ma detesto molti suoi tratti caratteriali. Amo gli italiani, ma non li reputo migliori degli altri popoli e diffido sempre del livello medio dei popoli. Il primato morale e civile dell’Italia di Gioberti mi pare una generosa utopia. Se un primato può vantare l’Italia non è né morale né civile, forse culturale, forse estetico, forse intellettuale, ma nulla che attenga all’etica, al senso civico, alla morale pubblica e privata.
Cosa è rimasto – dal 1861- dello spirito rinascimentale?
L’individualismo, una certa dose di creatività e lo scarso senso politico, civile, comunitario di quel periodo. Senza i geni e i capolavori di quel tempo.
La rivoluzione socialista in Italia fu evitata dal fascismo? (Fu il fascismo la vera rivoluzione socialista?) Certo, il fascismo fu una rivoluzione preventiva o una controrivoluzione preventiva come si disse. Fu una rivoluzione conservatrice, in cui alcuni tratti del socialismo si coniugarono ad altri tratti del nazionalismo. Ne La rivoluzione conservatrice in Italia scrissi che il fascismo nasce come eresia nazionale del socialismo e muore a Salò come eresia sociale del nazionalismo.
Che tipo di fascismo sarebbe stato se al posto di Mussolini vi fosse stato D’Annunzio?
Non sarebbe stato possibile, non sarebbe stato fascismo, non sarebbe durato a lungo. D’Annunzio era un poeta e un impolitico, impossibile pensare davvero che avrebbe potuto realizzare una rivoluzione vincente e duratura. Sarebbe finita come a Fiume, un’impresa eroica, erotica, letteraria avvincente ma di breve durata, poi sconfitta dai cannoni della realtà.
In che modo il gramscismo ha egemonizzato l’arte, la cultura, la scuola, il cinema, la letteratura italiana? Si può ancora parlare ad oggi di egemonia gramsciana?
Il progetto gramsciano mescolava la teoria di Marx e l’esperienza sovietica all’idealismo militante italiano, all’opera di Gentile e poi di Bottai. Era la conquista del consenso politico e civile tramite la cultura e la sua egemonia. Un progetto che in parte realizzò Togliatti nel dopoguerra. Ma la vera egemonia pervasiva avvenne dopo il ’68, combinando la contestazione al gramscismo e propagandosi dalla cultura universitaria, dalle case editrici ai giornali, alla tv, ai mass media.
Alla luce degli ultimi risultati politici, che fine ha fatto l’intellighenzia di sinistra?
Sussiste come casta intellettuale, come cupola di potere culturale, anche se non esprime idee, opere, rielaborazioni critiche originali ma solo sistemi di cooptazione e di esclusione. Una mafia ideologica, oserei dire.
Oltre a Gramsci, quali altri scrittori, giornalisti o filosofi hanno inciso maggiormente nel “vasto” mondo della sinistra? (Eugenio Scalfari e Umberto Eco).
Sicuramente Eco è stato il Gramsci degli anni Settanta, l’ideologo della sinistra radical-progressista, neoilluminista e antifascista; e Scalfari è stato sul piano giornalistico l’inventore e l’imprenditore di una sinistra post-rivoluzionaria, che passa dal comunismo allo spirito radical e neo-borghese.
Il marxismo ha tentato – nel corso nel tempo – di emanciparsi dall’ambito filosofico verso quello scientifico?
Sin da Marx ha tentato di presentarsi come una teoria scientifica, non ideologica, e ha cercato sostegno nell’economia, nel darvinismo e nelle scienze. Ha denunciato la mistificazione ideologica del mondo borghese e capitalistico ma per prenderne il posto con un impianto ideologico travestito di scientismo.
Quale rapporto c’è tra la caduta del sistema tolemaico-aristotelico e la progressiva sconfitta dell’aristocrazia europea? Vi è davvero una carica rivoluzionaria o una prefigurazione di un mutamento sociale nell’abbandono di un modello di cosmo chiuso e centralizzato?
Potrebbe essere, ma per rifrazione, indirettamente, tramite una serie di concause. Certo, l’irruzione dell’illimitato ha generato una serie di cortocircuiti, e ha attivato l’idea di liberazione, di emancipazione, di distruzione creatrice. Nel contempo ha delegittimato ogni superiorità nel nome di un assoluto relativismo egualitario. Ha mutato il destino in volontà, la natura in desiderio, l’io penso in noi facciamo.
Alla luce del mito. Il mondo odierno è demitizzato o pieno di piccoli miti secondari?
È demitizzato in alto e abitato in basso da tanti surrogati di miti, idoli, totem e tabù, nuovi racconti leggendari, nuove fiction, storytelling favolosi. A conferma che i miti scacciati dalla porta rientrano dalla finestra, e sono comunque inestimabili.
Un bene materiale, pensiamo ad un social, ad un telefono, può farsi mito?
Si tratta di mitoidi o surrogati di miti, o meglio di strumenti che producono, veicolano, moltiplicano la nuova mitologia contemporanea.
Quale legame intercorre tra mito e leggenda?
Il mito è una storia paradigmatica che non è né falsa né vera, eternamente ricorrente, esemplare e anche educativa. La leggenda è un racconto che prescinde totalmente dal rapporto con la vita, la storia e la realtà, che può essere pura fiction.
Quando lei – a pagina 47 – parla di “stato gassoso”, ha un vago ricordo della “nebulosa” dell’ultima pagina della Coscienza di Zeno come metafora di un’umanità che si lascia evaporare fino ad annullarsi in quanto tale?
No, non ho pensato a Svevo in quel momento, ma mi riferivo alla modernità liquida di Bauman, sostenendo che la liquidità è solo una condizione transitoria tra il solido e l’aeriforme, lo stato gassoso, appunto.
Tramonti. Un mondo finisce e un altro non inizia?
Viviamo ancora nella dissoluzione del mondo precedente, tra i suoi rottami, le sue agonie, i suoi residui più o meno tossici. La peculiarità del nostro tempo è proprio quella: si percepisce il senso di una fine ma non di un inizio, prevale l’odiernità, ovvero una modernità appiattita sull’odierno, sul presente.
Quanto il nichilismo e relativismo hanno inciso nel declino dell’Occidente?
Sono la sostanza del suo declino e al tempo stesso la riduzione alla sua inconsistenza. L’Occidente declina perché ha perso i suoi dei, il suo scopo, la sua realtà, e non concepisce la verità se non come il mio punto di vista, soggettivo e provvisorio. Lì c’è tutto il declino dell’Occidente dal punto di vista dei principi. Poi ci sono gli eventi storici, la crisi della civiltà nella vita quotidiana e tutto il resto.
Dal Principe di Machiavelli alla celebre frase di Giolitti, “rappresento lo Stato, partecipo passato del verbo essere”, passando per la Rivoluzione Francese, la restaurazione e la breccia di Porta Pia fino all’avvento dell’Ue. Come è cambiato e si è evoluto lo Stato nazionale?
Lo Stato nazionale, con tutti i suoi limiti e le sue arretratezze, resta ancora l’ultimo argine all’avvento del global sconfinato, il punto in cui ha ancora senso la politica, la sovranità, la comunità, lo Stato. La sua parabola è nel suo arco discendente, come il suo acme fu tra il formarsi degli Stati nazionali e il propagarsi del nazionalismo.
Oggi il suo riscatto ha il nome di sovranismo. Può convivere la libertà con lo Stato moderno?
Se non convive muore lo Stato e muore la libertà che ha bisogno di confini per non perdersi o non rovesciarsi nel suo contrario. La libertà esiste solo in relazione dialettica con l’autorità, con la realtà, col senso del limite; altrimenti oscilla tra anarchia e dispotismo. E lo stato che rifiuta la libertà, getta la premessa per il suo rovesciamento.
Chi sono i suoi Imperdonabili? E in quale dei cento Lei si riconosce di più?
Gli imperdonabili sono cento autori, tra pensatori, scrittori, giornalisti, poeti che furono in conflitto col loro tempo o col potere dominante. Non riesco a stabilire priorità assolute, ho rose di preferenze che non nascondo ma non riuscirei a indicarne uno, o una terna, in cui mi riconosca più di tutti.
Giacomo Leopardi. Pensa che sia stato sottovalutato come filosofo?
Sì, è stato considerato come poeta, pur grandissimo, ma è stato poco considerato come pensatore. Solo pochi come Gentile ieri e Severino oggi, lo ritengono un filosofo. Eppure Lo Zibaldone offre un quadro di una lucidità e di una profondità filosofica senza precedenti; solo che trattandosi di un poeta, dai molteplici interessi, e avendo trattato i pensieri fuori da ogni sistema, è stato considerato con diffidenza dai suoi più modesti colleghi, magari accademici di professione ma filosofi di routine, puri impiegati di concetto.
La ginestra che cresce dalla lava del vulcano. C’è speranza anche dinanzi alla fine del mondo?
Si, credo che la disperazione possa essere fruttuosa, possa essere bella e perfino proficua, più della speranza e meglio dell’illusione. Leopardi non si spinse fino a questo punto ma ne gettò le premesse, forse inconsapevolmente. C’è sempre l’aspettativa che qualcosa di inatteso venga, c’è sempre il fattore sorpresa, c’è l’eterogenesi dei fini che rovescia le intenzioni e le premesse negli esiti, c’è lo spirito beffardo della storia che mi tempo chiamavamo provvidenza, c’è un residuo di fiducia negli uomini, nel fato e perfino negli dei. E una specie di fiducia trascendentale che fiammeggia nonostante tutto, e malgrado Leopardi stesso…
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