A Roma aspettano ancora il sindaco

𝐀 𝐑𝐨𝐦𝐚 𝐚𝐬𝐩𝐞𝐭𝐭𝐚𝐧𝐨 𝐚𝐧𝐜𝐨𝐫𝐚 𝐢𝐥 𝐬𝐢𝐧𝐝𝐚𝐜𝐨
Dopo circa nove mesi di gravidanza, la lupa di Roma non ha ancora partorito il sindaco.

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A Roma aspettano ancora il sindaco

Dopo circa nove mesi di gravidanza, la lupa di Roma non ha ancora partorito il sindaco. Si sente ancora per le strade odor di Raggi, la Virginia che riuscì miracolosamente a far rimpiangere ai cittadini di ogni colore tutti i sindaci precedenti, fino a Numa Pompilio. Se la memoria non ci inganna, dopo di lei nello scorso ottobre fu eletto qualcuno che evidentemente non si è mai presentato al Campidoglio, o è ancora in cammino, verrà a piedi in pellegrinaggio. Allo stato delle cose risulta non pervenuto. O forse è già scappato.
Dicono che si chiamasse Roberto Gualtieri, era stato ministro delle finanze in un governo demogrillino, suonava la chitarra e aveva lavorato all’istituto Gramsci. Non era affatto uno stupido e molti pensarono, pure a destra, che anche lui sarebbe andato bene a Roma pur di liberarsi dalla peste grillina e dalla sindaca Raggi che invece è ricordata con affetto da cinghiali, topi e gabbiani. Voi non sapete cos’era diventata Roma al tempo della Regina Virginia; un porcaio, immondizia dappertutto, animali ovunque, disservizi che non vi dico. Poi finalmente andò via e ora, dopo nove mesi di deraggizzazione, Roma si presenta invece così: un porcaio, immondizia dappertutto, animali ovunque, disservizi che non vi dico. I primi giorni si diceva: dategli il tempo di insediarsi. Dopo i primi mesi con fatica si sussurrava: ma è difficile risanare quella cloaca che è diventata Roma, non è facile superare i postumi della sbornia grillina. Ora si dice: ma il nuovo sindaco era solo una fake news inventata dai giornali?

Una voce di sollievo e di speranza era circolata nei mesi scorsi quando il sullodato Gualtieri aveva finalmente annunciato un termovalorizzatore per salvare Roma dall’Immondizia. Bell’idea su cui i grillini avevano posto un veto assoluto: la salvaguardia dello sporco è per loro un valore non negoziabile. Ma a parte quel boato, quella diceria dell’untuoso, parafrasando un titolo famoso di Gesualdo Bufalino, non si era mosso nulla.
Quel che è più raccapricciante sono i raccoglitori d’immondizia: un tempo c’erano delle austere armature di ghisa che sembravano reduci dalle guerre puniche o contro i barbari, ma reggevano all’urto della sporcizia e non mostravano i loro contenuti ributtanti. Poi arrivò il timore attentati, il covid e non so che altra piaga biblica, e la Raggi o chi per lei – te possino – pensò di sostituirli con una leggiadra busta di plastica mossa dal vento e attaccata a una ciambella di metallo: quando è semi-vuota ondeggia come i capelli di Laura secondo la descrizione di Petrarca, “a l’aura sparsi”. E quando è rigonfia di rifiuti mostra tutte le porcherie che contiene, come un’ecografia del fetido; fino a che non si stacca dal cerchio di plastica, o non viene bucata dal becco di un gabbiano, dal morso di un roditore, dall’unghia di un cinghiale, e allora si riversa per terra e sparge schifo.
E sono pure rari. Se hai da cestinare qualsiasi cosa, devi portartela con te in giro per il centro almeno per mezz’ora e non ti devi distrarre dalla ricerca spasmodica di uno di questi cesti trasparenti e cagionevoli. Sono rarità, poi magari dopo un chilometro ne vedi tre tutt’insieme, fanno comitiva come i vigili.
A Roma ci vivo sempre meno anche se risulto residente. E ogni volta che arrivo, conto le ore per la fuga. Gli unici rapporti con l’istituzione sono le multe, le sanzioni per qualsiasi colpa o per il peccato originale di abitare a Roma. Il cittadino tipo di questa città, quello che si trova più a suo agio, è l’homeless, il barbone. Forse per un malinteso senso evangelico la città è pensata a loro misura più che a misura dei cittadini con casa, auto, lavoro. La città eterna si è fatta lei stessa homeless, barbona, rovista nei suoi rifiuti, s’è incinghialita, intopata e ingabbianita. Se vi capita poi di vivere in centro sappiate che non c’è scampo: Roma ha cancellato l’urbanità, la storia, la tradizione, le magnifiche chiese e le vestigia della romanità ed è solo un tavolino infinito, una stomachevole mangeria h24, uno stridore di posate, bicchieri e bottiglie per le strade. E’ come una festa del palio sotto la Torre del Mangia che dura però tutto l’anno, una festa patronale permanente, senza patrono ma con banchetti. Se passate a prima mattina tra le scorie e le rovine della sera precedente, sembra che ci sia stata una battaglia tra cartaginesi e ucraini, lanzichenecchi e nigeriani. I più seri sono gli spacciatori, il resto mangia.
Magari è divertente venire una volta a visitare questo intestino crasso che si è fatto urbe, fare le file per pranzo/cenare pure alle sei di pomeriggio, spararsi una birra e scegliere il coro a cui aggregarsi, perché ogni strada è una curva sud. Ma per chi ci vive, o vorrebbe tentare di vivere, o per chi, come me, a volte ritorna, Roma ti mette una nostalgia indicibile: quella di qualunque altro posto. La nostalgia di essere altrove, pure in una bolgia dell’inferno; ma non qui, non tra queste pance ambulanti, tra questi chiassosi eruttanti, è più facile sentire un discorso sensato e compiuto da un ungulato piuttosto che dai romanoidi.
E qui il dubbio ti assale: che un sindaco in realtà non possa nulla di fronte a ciò, la città va per conto suo, nessuno può più fermarla o mutarla, salvo l’uso del napalm o di arsenali nucleari. I sindaci sono solo piccole calcomanie sul Campidoglio, puramente ornamentali, fuochi fatui, video-mapping, ombre proiettate sui muri; non guidano la città ma fungono come i sacchetti d’immondizia al vento, all’inizio sventolano, poi cedono al peso dei rifiuti. D’accordo, ma allora perché fingere di candidarsi e poi di insediarsi, perché la sceneggiata del voto, la costosa menata delle elezioni? Su arrendetevi, uscite con le mani alzate dal Campidoglio. Alle votazioni non ci torniamo più, salvo che il prossimo candidato sindaco si chiami Nerone.

La Verità, 3 luglio 2022