𝐋𝐞 𝐨𝐭𝐭𝐨 “𝐢” 𝐜𝐡𝐞 𝐚𝐟𝐟𝐨𝐬𝐬𝐚𝐧𝐨 𝐥𝐚 𝐬𝐜𝐮𝐨𝐥𝐚
Ma in quale altrove si è cacciata la scuola, sparita dai radar pubblici e dall’interesse generale? Come se la passano le scuole, al di là dei piccoli episodi civetta che ogni tanto rimbalzano nell’informazione globale, tra ramadam, gendermania, bullismo e mobilitazioni?
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Le otto “i” che affossano la scuola
di Marcello Veneziani
04 Aprile 2024
Ma in quale altrove si è cacciata la scuola, sparita dai radar pubblici e dall’interesse generale? Come se la passano le scuole, al di là dei piccoli episodi civetta che ogni tanto rimbalzano nell’informazione globale, tra ramadam, gendermania, bullismo e mobilitazioni? Ora che riprendono le lezioni dopo la pausa pasquale – retaggio vacanziero di una festività religiosa sempre più intrusa nella scuola laica, accogliente e un po’ filoislamica – vien voglia di chiedersi quale sia oggi lo spirito prevalente nella scuola. E non solo della scuola italiana. Vale a dire quale sia l’orientamento di fondo, al di là dei singoli episodi a tinte forti.
Leggevo qualche giorno fa un libro-intervista sulla scuola col sociologo francese Christian Laval a cura di una docente spagnola, Juana Sorondo, che tradotto suona come Regimi di verità nell’educazione. Laval non da oggi denuncia il cambio del paradigma educativo nella scuola, pervasa dal neoliberismo e da una sorta di infeudamento della scuola alle logiche produttive ed efficentiste del capitalismo. E auspica il passaggio dalla “nuova scuola capitalista”, definita anche “scuola di mercato”, d’impronta individualista, a una scuola veramente pubblica, fondata su un’educazione democratica, veramente inclusiva, collettiva e transnazionale. Che poi sarebbe in forme nuove un ritorno alla scuola “impegnata” venuta fuori dal ’68. L’analisi, naturalmente, è più articolata di questa sintesi forzata, ma riassume bene le due forze in campo che si contendono la scuola, una volta liquidata “la scuola tradizionale”: la logica individualista e mercantile del privato e l’ideologia inclusiva e multietnica neo-egualitaria.
L’esito più frequente di questo conflitto tra due modelli scolastici è stato l’accumulazione e la sovrapposizione tra i due canoni. Per rendervi meglio l’idea, mi riferirò alla scuola italiana.
Più di vent’anni fa, per “ammodernare” la scuola, il governo Berlusconi, col ministro della pubblica istruzione Letizia Moratti, lanciò la famosa campagna sulle tre “i” che era la versione italiana di un progetto scolastico di marca atlantica. La scuola, allora si diceva, deve aprirsi alla società e al mondo del lavoro e delle aziende, aggiornarsi rispetto alla vecchia scuola nazionale, umanista e tradizionale, scrollarsi della polvere del passato; dunque ha bisogno di più Internet, più Impresa, più Inglese, le tre I. Il peccato originale di quella riforma era che i ragazzi apprendono lo spirito d’impresa, la lingua inglese, e l’uso delle tecnologia direttamente per conto loro, senza la mediazione di un docente. Ovvero apprendono assai più e molto meglio nella vita reale e nei rapporti sociali che nella versione tardiva e ingolfata della scuola pubblica e del suo personale. La riforma fu enunciata, appena accennata, ma rimase l’unica traccia di quella scuola “neoliberista” che denuncia Laval a livello eurooccidentale. E non potendo immettere logiche liberiste nella scuola pubblica italiana, di fatto si tradusse in una spinta a preferire la scuola privata rispetto alla scuola pubblica.
Quell’impronta che Laval chiama neocapitalista sulla scuola pubblica, non fu mai rimossa e cancellata, soprattutto nelle scuole nord-europee, ma a quei canoni liberisti si sovrappose l’impronta della scuola “egualitaria”, inclusiva, multietnica, fluida, sorvegliata dall’ideologia woke, alimentata da un battagliero collettivo di docenti “democratici”, come si chiamarono dopo il ’68. Che non sono certo tutta la scuola, ma sono quelli che si fanno sentire di più, fanno partito, gruppo e pressione, e colonizzano in particolare le materia umanistiche, delineando alla fine lo spirito della scuola in rapporto al mondo esterno e allo spirito del tempo. In questa luce doppiamente eroici appaiono i docenti che non soccombono a questa egemonia, si sottraggono offrendo modelli alternativi; percorrono altre vie, spesso in solitudine e con la riprovazione e l’ostilità dei colleghi di cui sopra.
Ma cosa è venuto fuori dalla scuola-impresa del modello neoliberista ibridata alla scuola inclusiva del modello egualitario? Nacque per così dire la scuola delle otto i: oltre le prime tre, le altre parole chiave con la I sono Inclusione, Islamizzazione, Immigrazione, Internazionalizzazione, il tutto avvolto in una ideologia gender, femminista, polisessuale e transessuale, curiosamente bigotta e permissiva allo stesso tempo.
Come è stato possibile il pasticcio tra la scuola concepita nella logica dell’impresa con la scuola intesa come una palestra di Integrazione Globale? L’incontro è stato possibile perché è stato individuato un nemico comune: la scuola umanistica della tradizione, della cultura nazionale e della civiltà cristiano-europea, la scuola a loro dire patriottarda, familista, cristianeggiante, autoritaria, considerata un po’ sessista, un po’ classista e un po’ razzista. E nel nome della modernizzazione e dell’aderenza al presente, del modello transnazionale e globale, hanno trovato un punto di partenza comune: svecchiare, attualizzare, sradicare, aprirsi al nuovo, al globale e al diverso, seppur diversamente interpretato. La scuola riflette peraltro quel che è accaduto in altri ambiti della società: il connubio tra capitalismo e progressismo radical, tra liberismo economico e bigottismo etico-ideologico, tra individualismo e immigrazione. A voler semplificare: destra economica e sinistra ideologica, neo-consumismo e neocomunismo.
Lo sfascio vistoso della scuola contemporanea naturalmente non deriva solo da questa ideologia sottotraccia che la percorre, o dalle responsabilità del corpo docente. C’è da una parte il venir meno della famiglia e dall’altra il modello invasivo tecno-social che ha mutato antropologicamente i giovani rispetto alle generazioni precedenti. In più c’è la crisi demografica. Un tempo l’antagonista della scuola era la tv, e lo è stato per quasi mezzo secolo, dagli anni sessanta in poi. Oggi le nuove generazioni possono definirsi post-televisive, perché il loro video di riferimento è lo smartphone, o altri media equivalenti, comunque video interattivi, non generalisti. L’esito di quel connubio è sotto gli occhi di tutti, la scuola è diventata una periferia ombrosa della società e non il laboratorio centrale del futuro. Ha perduto il passato – ha reciso i ponti con la civiltà, la tradizione, la storia e la cultura umanistica – senza guadagnare l’avvenire.