‘La lezione del Coronavirus è che le aree interne non sono un problema ma una salvezza’
A colloquio con il poeta e paesologo irpino, oggi consigliere per il Sud e la coesione sociale
di Elisabetta Galgani – 23/04/2020
Franco Arminio
Poeta, scrittore, regista. E poi ancora “paesologo”. Franco Arminio dagli anni 90 si è sempre occupato dei problemi delle aree interne in Italia, dei paesi dell’Appennino, dal suo osservatorio privilegiato a Bisaccia, in provincia di Avellino, in Irpinia. Da sempre è stato promotore di battaglie sociali e si è impegnato con Fabrizio Barca nella redazione della Strategia nazionale delle aree interne. A gennaio doveva partire con il ministro per il sud e la coesione sociale Giuseppe Provenzano, perché è divenuto suo consigliere. Purtroppo per l’emergenza coronavirus il viaggio è stato bloccato. “Lo abbiamo capito con il coronavirus: le aree poco urbanizzate sono una salvezza, non sono un problema perché anche in caso di tragedie climatiche, di innalzamento di livello del mare, con coste a rischio, avere un paese a 1.000 metri, in buone condizioni, con un ospedale, con trasporti pubblici efficienti, è una grande opportunità. Con lo smartworking si può andare a vivere in un paesino abruzzese invece che continuare a stare a Roma.
Quello che accade in questi giorni dovrebbe essere un monito, altrimenti a che cosa serve queste tragedie? Noi dobbiamo fare tesoro di quello che sta accadendo e le aree interne sono una fortuna dell’Italia. Anche per ragioni culturali ogni paese a suo modo è una Capitale e quindi molti paesi sono sopravvissuti. Noi abbiamo ancora tanti centri, un grande patrimonio, l’unica nazione al mondo che ha un patrimonio così grande ed è un delitto far morire questi paesi. Sicuramente il modello urbano tutto legato al supermercato, in cui le persone sono abituate a disporre dei servizi senza mai chiedersi da dove vengono, è un po’ più fragile rispetto al modello montano, dove il vecchio contadino doveva cavarsela sempre da solo. Anche il rapporto con la morte è più forte e paradossalmente questo aiuta, l’unica cosa certa è che la vita è sempre in pericolo”.
Anni fa c’è stata la legge sui piccoli comuni, oggi la Strategia nazionale per le aree interne. Quali sono gli strumenti legislativi che secondo te possono promuovere queste zone?
Uno dei motivi per cui la Strategia non funziona è che la copertura politica è insufficiente. In Italia nazione di paesi e di montagne, c’è poca attenzione per i paesi e per le montagne. Basti pensare che la legge sui piccoli comuni voluta da Realacci ancora non ha i decreti attuativi. C’è un’insufficiente consapevolezza: esiste un patrimonio che non riguarda solo i paesi ma riguarda tutta l’Italia che va a deperire. Se in un paese hai mille edifici inutilizzati, questi edifici sono una ricchezza, se vanno in malora, significa impoverire tutto il Paese. Inoltre se non sostieni questi paesi, non li metti in condizione di lavorare diventano una spesa per lo Stato. A parte la Strategia ci vogliono degli investimenti molto grandi, basti pensare che cosa si sarebbe potuto fare con i soldi della Tav. Senza parlare del Mose. Ci sono tutte queste grandi opere che vengono considerate strategiche ma che non lo sono e destinerei questi soldi proprio ai ragazzi. Pagherei le idee ai giovani, qualcosa del genere ha fatto Vendola in Puglia anni fa…
Lo spopolamento delle aree il primo nemico di questi luoghi.
Lo spopolamento è un processo molto lento, non ha picchi, non viene percepito. E’ un virus silenzioso ma che uccide comunque: uccide i luoghi, chiude gli spazi, i servizi, compresi gli ospedali. A Bisaccia sono stato alla guida nel comitato di lotta per impedire la chiusura dell’ospedale, intorno al 2010. Sono stati anni in cui c’è stata da parte delle Regioni un’operazione di smantellamento. Oggi l’unico centro ospedaliero della provincia è Avellino e ha un carico di lavoro eccessivo. Nei prossimi anni si dovrà rimettere mano al sistema sanitario nazionale proprio alla luce di quello che sta accadendo in questi giorni.
Gli ultimi riconoscimenti dell’Unesco sembrano premiare le aree interne. La transumanza come patrimonio dell’umanità, o anche i muretti a secco. Ma non sembra che il turismo di massa sia una chiave di sviluppo delle aree interne.
Lo spopolamento e l’urbanizzazione selvaggia sono finalmente percepiti come un problemi mondiale, anche in Cina se ne saranno accorti. Non è che tu porti 20 milioni di persone dalla campagna in città e ottieni progresso: si tratta di un progresso effimero, esposto a rischi imponderabili. Questo sciame virale che ormai è in atto da qualche anno, non sappiamo come si svilupperà: se si trasformerà, se si moltiplicherà… La distribuzione della popolazione in questo modo è comunque pericolosa: è meglio che le persone siano distribuite in modo omogeneo nei territori.
Non sembra che il turismo di massa sia una chiave di sviluppo delle aree interne.
Il turismo di massa non arriverà mai in questi luoghi: la loro bellezza è dovuta anche alla penuria di turismo. Bisogna però favorire le forme di residenza provvisorie: ad esempio un pensionato che sta 6 mesi a Milano, 6 mesi nei paesi del Sud. Oppure turisti stranieri che rimangono per un mese con dei corsi di formazione, a fare l’olio o il pane. Immaginare questi paesi come luoghi di residenza più che come approdo di turismo, e poi puntare sulle persone che si trasferiscono: come i giovani che si trasferiscono nei paesi ma con il telelavoro sono collegati al resto del mondo. Non è portare quei luoghi a diventare come Siena o come Venezia ma lasciarli e come sono. Bisogna preservare “una modernità plurale”, dove c’è Milano ma anche Bisacce. Il paese è anche un luogo pericoloso: bisogna sottrarlo ai paesani, può essere luogo della grettezza, della conservazione. Bisogna arieggiare il paese. Io parlo spesso di “comunità ruscello”, non “comunità pozzanghera”, ovvero un paese che si apre al confronto con altre persone, creando una nuova comunità.
Qual è secondo te la vera ricchezza delle aree interne come si riesce a raccontarla in modo autentico? Conosci esperienze, oltre al festival di Aliano, che la valorizzano?
Il silenzio, il contatto con la natura il buon cibo, la disponibilità di paesaggio sono peculiarità delle aree interne. Lo spopolamento si è rivelato una fortuna per il coronavirus, la disponibilità di terra e di spazi vuoti è una risorsa. Il festival di Aliano è una bella esperienza, è positiva a livello di marketing territoriale: il problema è che Aliano dopo il festival non ha meccanismi suoi di sviluppo. Non sono quindi i festival a innescare un cambio di economia: serve lavoro, anche attività industriale, ma verde, dedicata alla trasformazione dei prodotti agricoli. Da questo punto di vista, non ci sono grandi esperienze modello. Ci sono sindaci bravi come quello di Melpignano, che hanno creato la cooperativa di comunità e hanno messo gli impianti solari sui tetti, hanno ideato il festival della taranta… Ma un territorio che abbia sconfitto lo spopolamento, abbia creato un modello di sviluppo locale e sostenibile, un paese in cui gli abitanti sono anche contenti io non saprei indicarlo. Questa è la sconfitta di tutti quelli che hanno lavorato in questi anni su questi temi.
Qual è il messaggio per i lettori di Nuova Ecologia?
Quale che sia l’esito, speriamo meno tragico possibile, si tratta di continuare a invocare, a testimoniare a favore di un modello ambientalista, perché l’unica idea praticabile. Non si può non essere ambientalisti. Non è un lusso, è un delirio e un lusso avere un’altra visione. Speriamo che le fila di ambientalista si accrescano e che questa tragica vicenda porti linfa, perché il mondo si salva solo così. Non siamo più in condizione di discutere tra una visione o l’altra: il mondo deve dismettere questa arroganza, al meccanismo di produzione-consumo, il pianeta come cava per estrarre ciò che ci serve. Noi siamo ospiti di questo pianeta tra gli altri, e fare un passo indietro. Se facciamo un passo indietro magari siamo meno esposti, il virus magari non ci trova. Se continuiamo così, saremo travolti dalla nostra stessa ingordigia.
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