COMPASSIONE
Una riflessione etimologica contro la gerarchia del dolore
Qualche mese fa una persona che amavo e stimavo molto mi disse: “La compassione non serve a niente”. Da allora ho iniziato, quasi come rituale quotidiano, a soffermarmi sulle parole; ma non, come avevo fatto fino a quel momento, per la loro bellezza e malleabilità poetica, bensì come viatico di significati profondi, reali, concreti. Parlo dello studio sulle origini delle parole, l’etimologìa.
Come spesso mi accade, sono partito subito da mie idee spontanee, piuttosto che informarmi a priori sulle maggiori autorità nel campo. Studiare mi piace, ma a volte, a mio avviso, ci vuole più uno stupido coraggio, piuttosto che una deferente e razionale accettazione delle cose.
L’etimologia garantisce la maggiore comprensione di un termine? Puoi capire più nel profondo una parola se trovi il suo étimo? E conoscerlo, poi, a cosa può servire? Il mio approccio è stato subito pratico: conoscere l’etimologia di una parola, arrivare alla sua radice più antica, significa scoprire la sua identità, il suo senso, la sua carne viva. Se vivi una parola, la tratti anche con maggior rispetto, con amore, e impari anche a usarla con parsimonia.
Mi sono poi documentato sulla questione, e sulla scarsa attendibilità scientifica di cui gode questa disciplina, anzi, saussurianamente parlando, questa pràtica, che potremmo definire come “ogni forma di ragionamento in materia di origine delle parole”[1]. L’etimologia risale al passato delle parole finché non trova qualche cosa che le spieghi; anche se poi la descrizione non è metodica, poiché non si svolge in nessuna direzione determinata[2]. Per ciò lo studio etimologico affascina, ma solo per qualche minuto, e poi decade. Perché non presenta, apparentemente, nessuno sviluppo “utile”.
Come si può rendere questa “pratica etimologica” utile nel sociale, nella vita quotidiana?
La settimana scorsa, di ritorno da una missione Notude, ho fatto amicizia con una ragazza di Milano. Parlavo delle mie poesie alla mia collega Doris, e due occhi azzurri e vispi davanti a me hanno iniziato a sorridere, prima ancora della bocca e del viso. C’è stato un momento, quel secondo in cui decidi, senza imporlo, che la tua vita può anche alzarsi il volume da sola, tracimare come l’aurora dal mare, andare oltre i confini del cranio, i poggiatesta dell’egoismo. Quando insomma ti “lasci vivere”, se mi è concesso trasmutare questa bellissima espressione di Sartre[3] (e, non dimentichiamolo, anche di Silvio D’Arzo[4]).
È iniziato un dialogo, uno scambio di impressioni, sensazioni, sentimenti. Quando si ha davanti qualcuno sul treno, si ha sempre remore a parlare di sé. Paura che gli altri possano giudicarti, fraintenderti, possano incuriosirsi e iniziare a farti domande, quando magari non hai alcuna voglia di socializzare, perché sei semplicemente stanco e quello che vedi davanti a te è solo una bella doccia di fine giornata. È umano. Ma stavolta ci siamo lasciati vivere.
Noi due studenti di Genova, che danno il proprio contributo in idee, e stanno solo da poco vedendo qualche timido frutto dei loro studi; lei artista di danza-teatro, specializzata in gestione di eventi culturali. Ci ha stupito la sua spontaneità, la sua grande voglia di esprimersi, senza volgarità, ma neppure senza preconcetti o freni inutili. Soprattutto, ho apprezzato il suo discorso riguardante un divieto che ci viene imposto troppo spesso, ovvero il divieto di sbagliare. Non abbiamo più spazio per fare errori, per “errare”, vagare quindi, metaforicamente, ma (cosa ancora più grave) anche concretamente! Infatti non si va più in giro, si rimane seduti a un bar, soli in mezzo agli altri, congestionati davanti a un social network. Paralizzati dall’impossibilità di commettere errori. Risultato: nessuno alla fine fa niente, per paura di sbagliare. O di fare qualcosa di “troppo banale”.
I suoi dubbi, i suoi sentimenti e risentimenti, non rimbombavano in modo confuso e grottesco ma rimbalzavano dolcemente tra noi tre, giovani sconosciuti sul treno, tra la smorfia di un vecchio, il sorriso distratto di una madre, l’imbarazzo dei più. L’indifferenza degli altri. È stato bello anche scoprire noi stessi così vivaci e comunicativi, così sperimentanti, “esperienziali”, e (perché no?) sinceri nel proporci senza dissimulazioni a lei, alla gente, sul treno, in un contesto che dovrebbe essere quanto di più piacevole, conviviale, condiviso. I nostri problemi e i suoi, uniti in un’armonia di serietà, autoironia, scherzo, effluvio di emozioni non patetico, quella giusta provocazione che non è fine a se stessa. Una buona “comunicazione”.
E compassione, certo, perché abbiamo condiviso una passione, un patire, messo in comune un nostro pàthos, un dolore, una passione, un forte batticuore. Quindi chi dice che la compassione è inutile è solo perché, forse, ha ancora dentro di sé il riduttivo e anacronistico concetto di compassione cristiana, e oltre tutto quello di accezione più bieca e posticcia: ossia provare pena per i cosiddetti “più sfortunati”, commiserazione buonista, che si limita alle parole. Disprezza ma non compra (e tantomeno regala!). Penare per chi è in pena, dunque. Ne risulta la riflessione: “Ma perché io, che sto bene, devo star male solo perché un altro sta male? È inutile. È meglio che almeno io stia bene, se lui sta male. Due persone che stanno male non servono a nessuno”[5].
È qui il tranello linguistico. “Servono”? Ma a chi servono? A un gerarca immaginario? Al fantasma freudiano di un padre autoritario che ti vuole fedele ed efficiente? O forse servi proprio tu, e servi proprio alla persona che sta male. Magari il tuo stare bene serve a chi sta male, e la compassione è un atto con cui tu rinunci a una parte del tuo benessere, per stare un po’ male, ed entrare in contatto con chi, a sua volta, sta male. Parlare assieme la lingua del dolore. Compatire, condividere i dolori, non significa sguazzare diabolicamente nel nero più nero del nero (in termini profani “mal comune mezzo gaudio”) o lamentarsi con chi si lamenta per sentire meno, egoisticamente, il proprio dolore; vuol dire invece capire che nel dolore ci siamo tutti, che è bello mettere in comune il proprio pàthos (dolore, ma anche passione), per imparare ad aver rispetto del dolore altrui, anche di quei dolori che sembrano capricci, e che però nella percezione di chi li prova sono grandi, e magari realmente pericolosi, in potèntia.
Così, invece di disprezzare alla cièca, e credersi i più addolorati della terra, novelli martiri, vittime privilegiate del mondo, autorizzati a minimizzare gli “immaginari” mali degli altri, non sarebbe male imparare ad apprezzare ogni sfumatura del patire. Ché solo dalla compassione, dalla comprensione, dalla pazienza, arrivano i risultati migliori, e mai dal disprezzo.
Concludo: prima di spregiare, bandire un concetto o un’emozione, imbavagliare un sentimento, consideriamo per un attimo la parola che lo esprime, e incuriosiamoci sulla sua origine. Nella peggiore delle ipotesi, se non avremo risolto un affare diplomatico internazionale, avremo almeno lumeggiato un problema da un’altra prospettiva, scoperto di più su una parola. Avremo imparato qualcosa di nuovo.
Silvio Magnolo
[1]Parenti 2012.
[2]Cfr. Saussure 1968.
[3]Vedi La Nausea.
[4]Vedi Casa d’altri.
[5]Trascrivo qui una riflessione realmente propostami.