CASIMIRO TEJA- La mente a questo nome rievoca quei tempi lontani, i primi anni di libero pensiero e di libera stampa, quando sui fogli di Torino si conmbattevano le più solenni e le più feconde battaglie del sorgente regime, e il sentimento popolare si educava e si avviava a divenire vera opinione pubblica, illuminata e cosciente, organo essenziale dell’ordinamento costituzionale, altissima funzione e sindacato supremo. Nel giornalistno politico intraprendevano le lotte, che dovevano poi continuare nelle aule del Parlamento e nei Consigli della Corona, uomini che si chiamavano Cesare Balbo, Camillo Cavour, Michelangelo Castelli, Ercole Ricottí, Carlo Boncompagni, Pier Carlo Boggio, Lorenzo Valerio, Giuseppe Cornero, Giovanni Lanza…… I giornali avevano nome Risorgimento, Concordia, Opinione….
Ma il linguaggio serio e severo di tali fogli rivolgevasi piuttosto alla classe colta, già matura nel pensiero, già pronta all’azione, che non alle masse, cui bisognava affinare e preparare al compito novo, e scuotere con alcunchè di più sensibile che la semplice parola non fosse. Questa fu la missione dei giornali umoristici a disegni, cui aperse luminosatnente la via il Fischietto, creazione dell’alessandrino Carlo A. Valle, passato dalle visioni solenni della poesia epica agli arguti giochi della poesia satirica. E nel Fischietto, in cui scrivevano allora Desiderato Chiaves, Vittorio Bersezio, Giovanni Piacentini, G. A. Cesana, nel Fischietto entrò a collaborare, per invito del caricaturista Virginio, Casimiro Teja, tuttora scolaro dell’Accademia Albertina.
Casimiro Teja era nato il 12 giugno 1830, da Giuseppe Teja e da Vittoria Cerrino. Rimasto in tenera età orbo del padre, Teja, che avevano destinato alla marina, si dedicò invece tutto all’arte, entrando a tredici anni all’Accademia Albertina.
Per il disegno, e specialmente per la caricatura, aveva egli dimostrato una vocazione precocissima, fin dai banchi delle prime scuole, pei quali egli faceva co¬rere i suoi primi schizzi a penna, mettendovi in burletta i maestri, che lo ripagavano con larga copia di pensi.
All’Accademia egli potè coltivare le sue attitudini senza perciò venirne condotto a dedicarsi alla pittura. Non era quella scuola (scrive il Chirtani che vi fu condiscepolo del Teja) peggiore delle Accademie contemporanee, ma nemmeno migliore: senonchè l’insegnamento andava avanti anarchicamente, senza bussola d’idee, sia pur confuse. Vi si insegnava il disegno dei barocchi, quello dei classici del primo impero, quello tormentato dei romantici, e sopratutto il disegno della insipienza grafica. I migliori scolari, se poteano, andavano a cercare altri istradamenti all’estero, o, restando, cercavano di orientarsi da sè in quel buio pesto. Così fu che Teja, sbattuto da Ajace a Barbarossa, e dal Gladiatore ad Atala a Chactas, votò per la caricatura.
Per la caricatura il Teja era veramente nato, e lo dimostrò fin da quando nel 1855, pubblicò sul Fischietto i suoi primi disegni. Era in lui, infatti, una squisita facoltà di vibrare all’unisono con il sentimento popolare, di avvertirne le passioni, le correnti, le sfumature, di cogliere nella vita reale, nella vita quotidiana, il motivo più attuale, e di riprodurlo con un’arguzia di concetto e con una limpidità di tratti tali da fornire il miglior commento alla cronaca ed alla storia del tempo suo. Ciò appariva così evidente che il Piacentini ed il Cesana, per dare agio al Teja di meglio spiegare le sue singolarissime doti, si indussero a creare il Pasquino, che non tardò ad impersonarsi tutto quanto nel Teja.
Son oltre quarant’anni di vita che Teja dedicò al Pasquio, dando una nuova larghissima popolarità al romano campione dell’umorismo, il cui torso dall’angolo di Palazzo Braschi aveva per tanto tempo simboleggiato la satira che sferza, castiga, corregge. Ed in questa sua ingente e complessa opera seppe egli mostrarsi caricaturista veramente universale. « Teja – ricorriamo volentieri, ancora una volta, alle già citate pagine che il Chirtani fraternamente dedicava al Teja nel 1886 – Teja tocca a tutto e tutto trasforma : la storia e il fatterello, la moda e la politica, l’etnografia, la buffonata e la lirica.
E’ inoltre superiore a molti per la straordinaria varietà e abbondanza di tipi, cose e composizioni. Realista e fantastico a seconda delle circostanze, manifesta eziandio una felicità singolare nell’innesto della erudizione sulla caricatura e nel trasportare con risibili traslati i fatti moderni nella storia egizia, greca e romana o nella mitologia. Non è mai ripugnante nelle sue creazioni : anche quando fa dei mostri ci mette un granello di bontà che li rende tollerabili. I tipi, le mosse, i contrasti delle espressioni, i lineamenti buffi, il costume ridicolo, ecco gli elementi che adopera, egli mai si serve delle deformità della figura umana, e così è anche il suo disegno: Teja non ha certo peregrine qualità di scienza grafica come ne hanno gli antichi e alcuni artisti moderni che Carteret cita nella sua opera sulla caricatura, ma a poco a poco ha sviluppato un segno che ha le qualità più richieste agli effetti che deve produrre la caricatura. Anzitutto una facilità e una correttezza di mano che concorre a render gradevoli le composizioni, come concorrono a rendere stucchevoli quelle di alcuni artisti, più di lui sapienti nel disegno, la fatica evidente, lo sforzo non del tutto riuscito, la durezza delle linee e degli effetti ed un certo impaccio arcaico come di professore che diventa goffo a voler fare lo spiritoso. Un’altra sua qualità, anzi il corollario della prima, è la grande chiarezza che ben di rado manca alle sue invenzioni ed al suo segno, una chiarezza assoluta e della quale si può riscontrare l’estensione paragonando nello stesso Pasquino le sue ad altre più dotte e magistrali caricature ; queste riescono malagevoli, l’occhio vi cerca le immagini confuse e la mente stenta ad afferrare il pensiero; in quelle invece di Teja l’occhio decifra di colpo, la mente afferra all’istante l’idea e la comicità scoppia di primo scatto, con irresistibile effetto ».
Nelle quarantadue annate del Pasquino, cui il Teja consacrò tutto sè stesso finchè la morte lo colse – la mattina del 20 ottobre 1897 – si trova rispecchiata intera la vita nazionale, prima del Piemonte, poi dell’Italia. Tutte le nostre vicende, liete ed amare : gli errori, le colpe, le follìe, le speranze, gli augurii, i dolori: i nostri uomini politici, nei loro mutamenti fisici e morali, nella parabola varia della loro carriera; una vera storia del nostro popolo, documentata nelle sue forme esterne, in quanto poteva prestarsi al riso.
Quante volte, nel suo lungo cammino, Teja fustigò con ironia spietata, incalzante,demolitrice, politici e politicastri ! Quante campagne, piene di coraggio, di ardimento, di tenacia, combattute per un’idea politica, per l’alto amore della patria, per l’irremovibile culto del vero ! Eppure Teja non lascia nemici, non lascia rancori, perchè il rancore non conobbe, e non conobbe l’odio. Regola della sua vita e della sua arte fu quella ch’egli tracciò nella sua ultima volontà dettata pochi anni prima di morire, nel 1892: tenersi « lontano dalle personalità plateali e dalle scurrilità ». Ciò spiega come gli avversari ch’egli bollò nel Pasquino potessero, per adoperare la frase del De Amicis, stringergli la mano. E la prova migliore la si ebbe in una memoranda sera, quando, nella gran sala déll’Albergo d’Europa, amici ed ammiratori, il 27 gennaio 1886, offersero a Casimiro Teja un banchetto per celebrare il trentennio dal primo numero del Pasquino. Non mai Torino vide tanto consenso di presenti, tanta adesione di assenti, in ogni forma più geniale del pensiero e dell’attività umana. Fu un trionfo, vorremmo quasi dire un’apoteosi, se una così solenne parola non paresse troppo discordare con la semplicità bonaria che fu propria del Teja.
Molte altre cose rimarrebbero da dire su Casimiro Teja. Di lui dovrebbe ricordarsi l’affetto per la sua Torino, che con gli amici del Bogo si adoperò a destare dal torpore seguito alla Convenzione di settembre: e l’amore per i viaggi : e gli entusiasmi per la montagna… Soprattutto sarebbe da narrare come, oltrechè un vivido arguto ingegno, oltrechè una felice matita, fosse egli anche un ottimo cuore, un caro e desiderato compagno. Ma di ciò niuno può meglio discorrere che Edmondo De Amicis, legato al Teja da così intima dimestichezza: onde rimandiamo i lettori al profilo che in occasione di quelle feste trentennarie il De Amicis scrisse del Teja sull’Illustrazione italiana.
Noi chiudiamo queste righe inchinandoci ancora una volta alla memoria di Casimiro Teja. Morto a 67 anni, dopo otto e più lustri di lavoro indefesso, rimasto fino all’ultimo sulla breccia, egli ci lascia un utile ammaestramento ed un esempio insigne di ciò che sia la missione civile del giornalismo, in tutti i campi, in quello della politica come in quello dell’arte. Chi scrive queste linee, e si onora di essere modesto gregario in quella schiera di pubblicisti piemontesi che vantò fra i suoi capi Casimiro Teja, ha provato un austero compiacimento proseguendo attraverso le pagine del Pasquino — compulsate per attingervi lume alle note illustrative – lo svolgersi ed il vario atteggiarsi di un alto ideale, il costante raggiare di una vivida luce. Possano coloro, che sfoglieranno questo volume, non trovarvi soltanto il diletto che l’Arte procura, ma, apprendervi altresì ad amare sempre più la Patria, che fu l’amore perenne del Teja e la fonte prima delle sue ispirazioni!
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1860-