Quel gioco complesso dietro la “napoletanità”

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Quel gioco complesso dietro la “napoletanità”
Opinionista:
Aldo de Francesco

In questi ultimi tempi, si stanno moltiplicando libri, opere e saggi su Napoli, aventi tutti nel titolo il suo nome che, a sentire Leo Longanesi, indimenticabile maestro dell’editoria e del giornalismo, è di rigore porlo. Anzi s’impone per “tirare il libro su”. Indipendentemente da questo effetto trainante, non trascurabile e però discutibile, nel momento in cui la città arranca in un guado paludoso, è sempre un gran bene parlarne. Lavori del genere dovrebbero avere corsie preferenziali per raggiungere subito il pubblico e far riflettere su talune mitologie identitarie, usate come utili diversivi più per distogliere da talune irrisolte problematiche che per fare da stimolo civile a meglio affrontarle. Argomenti su cui si soffermano con nuovi e originali apporti critici, non v’era da dubitarne, i recenti libri degli eccellenti giornalisti Gigi Di Fiore e Marco Demarco. Che, mai però come stavolta, al di là dei suggerimenti longanesiani illuminati e “scivolosi”, non potevano sottrarsi a una titolazione obbligata per l’attualità pregnante dei temi trattati. Di rigore per i contenuti, più che per il mercato. Il primo, con “Napoletanità dai Borbone a Pino Daniele: viaggio nell’animo di un popolo (Utet)”; il secondo, con “Naploitation , la tradizione e l’innovazione” (Guida), indicativi già di un preciso indirizzo. Ora, senza addentrarci in una recensione multipla, seppur invitante ma fermandoci al succo essenziale dei rispettivi discorsi, il messaggio nuovo, forte diretto alla città da queste due opere, distinte e però convergenti, che qui si vuole sottolineare, è di un reciproco assoluto auspicio di chiarezza sul complesso gioco della “napoletanità” . Per Di Fiore di pacato “sdegno” per la centralità decisionale perduta da Napoli, condannata a raccontare se stessa in maniera idealizzata in una sorta di vicolo cieco senza storia né progettualità. Con un riferimento molto significativo alla disaffezione, dal dopoguerra ad oggi, di molti artisti, tra cui Pino Daniele, che si sono assegnati addirittura un “esilio postumo” – d’essere seppelliti altrove – per un disappunto verso il declino inesorabile di ruoli e di valori del proprio luogo natio. Per Demarco invece il discorso è di netto e schietto “revisionismo”, un termine datato – che può anche infastidirlo, e ce ne scusiamo – ma che rende però appieno la misura del suo rammarico per non aver potuto apprezzare, come pur meritavano, taluni eventi o personaggi, “marginalizzati” da pregiudizi ideologici. E qui l’elenco dei pentimenti, dei rinfacci e degli abbagli è lungo e dettagliato nelle rivisitazioni e riletture di talune stagioni politiche e culturali su cui non è mai troppo tardi riflettere. Di Fiore e Demarco vanno in fondo nella direzione auspicata anni fa da Raffaele La Capria nel bisogno di capire e far capire: “trovare la connessione tra cose che appaino disparate e più sempre contraddittorie ”nella nostra città. Un motivo in più per connettersi a quella “napoletanità” – straordinario mix di inventiva, capacità genetica nel sapere affrontare ogni ostacolo e, sperabilmente, di misurato orgoglio – quale condizione nuova per riscoprire, mettere a profitto la vera forza autopropulsiva di una civiltà. Napoli deve convincersi che una identità, la napoletanità, croce e delizia, è tanto più solida, ricca e produttiva quanto più la si vive come motore di “finalità collettive”, che qui continuano a latitare. Quanto sarebbe preziosa se non servisse più da “paravento”, dietro cui si è soliti nascondere il peggio: una metafora sempre attuale, molto approfondita dalla Serao nel “Ventre di Napoli”.
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