Tratto da: Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti di Francesco de Bourcard – 1866 (pag.67 -70)
IL GIOCO DELLA MORA
Non vi ha eccellente trattato che non cominci da una perfetta definizione: la definizione è la base di tutto l’edificio scientifico, è “Lo fondamento che natura pone”.
Che cosa è il giuoco della mora?
Il giuoco della mora é un giuoco che si fa colle dita. I due giocatori sporgono l’un verso l’altro una mano per ciascheduno, ripiegandone o allungandone quel numero di dita che lor piace; al medesimo tempo che sporgon così la mano, dicono un numero, cercando d’indovinare il numero che viensi a formare dalla somma delle dita aperte della propria mano e di quelle della mano dell’avversario.
Esempio: Io avanzo la mano con tre dita spiegate e due chiuse; l’avversario l’avanza con quattro aperte e uno ripiegato: se io dirti 7, avrò indovinato; se in mia vece lo dirà l’avversario, avrà indovinato esso; se nessuno dei due indovina, si segue come se nulla fosse avvenuto.
Ogni volta che s’indovina, si segna il punto con le dita dell’altra mano; e la partita si pattuisce a un dato numero di diti, alle volte a un solo, rare volte al di là di dieci.
In questo, come in tutti i giuochi, non ha parte il solo caso; molto può l’abilità, ed io cercherò di farvene comprendere alcunchè. .
Non parlerò delle regole elementari, poichè sarebbe un concepir trista idea dell’ingegno de’miei lettori. Com’é possibile che aprendo un sol dito della mano si possa pronunziare il numero 7,o l’8, o il 9? A questo modo si vorrebbe pretendere che colui col quale si giuoca avesse 6, 7, 8 o più dita in una sola mano. E pure, quantunque sembrino queste inutili avvertenze, vi sono certi principianti che vi si lasciano cogliere, eccitando le risa degli astanti provetti.
Ma vi ha qualche sottigliezza che solo conoscono i vecchi giocatori. Se la vostra mano segna il numero 3, per esempio, avrete maggior probabilità di vincere profferendo un numero pari (4, 6 o 8), che non ne avreste profferendo un numero dispari (5 o 7), poichè le combinazioni pari che potrete formare colle vostre tre dita e con quelle che mostrerà l’avversario son tre, e le dispari son due.
I più consumati fan pur capitale della facilità che vi è di passare da una data apertura di mano ad un’altra, e viceversa. Così dall’apertura di tre dita si passa facilmente a quella di cinque o di due, e difficilmente a quella di quattro.
La fraseologia del giuoco è pur cosa da conoscersi. Chi dicesse dieci in luogo di dir tutte, si attirerebbe le fischiate. Chi ha bisogno di un sol punto, o per meglio dire di un sol dito per vincere, invece di contare il numero de’punti da lui vinti, dee dir chiarella ; allo stesso modo che i giocatori all’écarté dicono fuor di marche invece di dir quattro.
Questo giuoco fassi non solo in due, ma in quattro, in sei, in otto, cc. Allora divisi i giocatori in due drappelli l’un contro l’altro armato, uno di ciascuna schiera da principio alla giostra, e come soldato ferito si ritira ogni volta che perde un dito, subentrandogli uno de’compagni. A questo modo si è visto sovente un solo campione rimaner padrone del canapo e sconfiggere l’un dopo l’altro tutti gli avversari senza aver bisogno dell’aiuto di alcuno dei suoi compagni. Così negli antichi tornei il mantenitore sosteneva lo scontro di buon numero di cavalieri.
Ma i cavalieri del torneo della mora non pugnan per la donna de’loro pensieri o per onore dello scudo. Il premio de’ vincitori è una carafa di asprino, di maraniello, di gragnano, presentata ai giostranti da un cantiniere, o tutto al più dalla sua paffuta e tarchiata metà, che in questo caso empie le parti della regina degli amori. Per tergere il sudore di tal pugna il vino è l’asciugatoio più conveniente, nè si è visto mai che altro che vino si giuochi al tocco o alla mora.
Questo giuoco era noto agli antichi? Sissignori. Essi dicevano micare nel senso precisamente identico dell’italiano fare alla mora, e con quel vocabolo esprimevano la velocità dell’alzare le dita, la celerità nel replicare i colpi senza intermissione di tempo. Non saprei dirvi se i Greci pur l’usassero, ma la cosa è probabile assai. Certo è che se l’ebbero i Latini dovettero averlo gli Etruschi, poichè essendo la civiltà latina figlia dell’etrusca, ed essendo il giuoco della mora parte integrante della civiltà, dovette dalla madre Etruria tramandarsi alla figliuola. Se questo argomento non v’entra, dimandatene gli archeologi e gli etnografi, e gli uni vi troveranno bassirilievi o vasi figurati rappresentanti giocatori di mora, gli altri troveranno fra le cinquanta parole etrusche che conosciamo qualcheduna che si rassomigli all’italiano mora, o al napoletano e spagnuolo morra, o al francese mourre, o all’inglese mora.
E qui nasce spontanea una considerazione: Spagna, Italia,Francia, Inghilterra, tutte hanno questo giuoco; dunque un popolo che invase queste quattro contrade, che tutte le abitò un giorno, dovette esserne l’inventore. Avete che rispondere?
Se nulla potete addurre in contrario, eccovi i Celti maestri alla miglior parte di Europa del giuoco della mora; ed eccovi nella loro lingua la tanto desiderata etimologia: poiché moran vuol dire mucchio, cumulo, ammasso (e in quel giuoco si somman le dita in un sol cumulo), e meur vuol dire dito!
Dopo tanto sforzo di erudizione lasciate che mi riposi un poco; chè così vi riposerete anche voi, lettori carissimi. E poi con maggior lena ripigliamo la nostra dissertazione che va prendendo l’aspetto di una memoria letta all’Istituto Archeologico di Roma o alla nostra Accademia Ercolanese.
Avevano i Romani un curioso modo di dire: essi chiamavano degno che si giuochi con lui alla mora nelle tenebre chiunque fosse incapace di tradir la buona fede: Cicerone,Petronio e S.Agostino se ne servono.Ed in vero duando allo scuro si fa tal giuoco, bisogna alle persone che giuocano prestar fede intorno al numero delle dita che levano. Ciò mi fa rammentare del modo come giuocano fra noi i ciechi,che certo non hanno la buona fede di quei semplicioni di antichi romani. Essi dopo aver alzato le dita e gridato il numero che dee indovinarne la somma, abbrancano la mano dell’avversario per verificare col tatto quello che non pub verificar la vista. Infinite volte ho visto così giocar nelle cantine che accerchiano la collina di S. Martino gl’invalidi difensori della patria che nei campi di Marte di Venere o di Bacco perderono il ben della vista. Ora invano li cerchereste colà: essi passarono ad abitare in mezzo alle ricottelle e alle peregrinanti quaglie là dove Massa si specchia
nel golfo di Napoli.
Il giuoco della mora ha molta somiglianza coi segreti. Questi in sul principio sono affidati ad un solo orecchio, e poi a voce bassa a un secondo, e poi gradatamente la propagazione se ne fa più romorosa come nel celebre crescendo del Barbiere, finché si strombettano pubblicamente e li sentono anche i sordi. Così è della mora: s’incomincia a piana voce e col possibil silenzio, e si finisce gridando come energumeni con quanto se ne ha in gola.
A ciò taluni poser rimedio, facendo ad ogni intervallo cantare una strofetta di nessun significato chiamata la pintaura: a questo modo il canto impediva che le teste e le gole si riscaldassero, poiché la sua missione è d i raddolcire gli animi ed ingentilirli. Ma i giocatori trovaron che quel canto intermedio ritardava di molto il giuoco, e come tutte le cose buone la pintaura uscì di moda.
EMMANUELE ROCCO.