Boccaccio a Napoli

Boccaccio a Napoli

Quella di Boccaccio a Napoli è la storia di chi seppe trovare da solo la propria strada.

Lo splendore della Napoli Angioina non trova solo grandi testimonianze nell’arte e nell’architettura. Lavorarono nella capitale artisti del calibro di Giotto, Lello da Orvieto, Simone Martini, Pacio e Giovanni Bertini, architetti come Pierre d’Angicourt e Jean de Toul, ma i fermenti culturali della corte angioina di Napoli catalizzarono anche l’attenzione di letterati, grammatici, filosofi, poeti, novellieri, matematici. Tra di essi, uno trovò proprio in città la sua vocazione naturale: Giovanni Boccaccio.

Boccaccio fu a Napoli dal 1327, appena quattordicenne, fino al 1341 (anno in cui arriverà in città Petrarca per sottoporsi all’esame di Roberto d’Angiò al fine della sua laurea di poeta). Prima giovane apprendista presso la filiale della Banca Bardi, poi studente di diritto canonico, ebbe il privilegio di frequentare la corte degli Angiò, fu avvinto dai chiaroscuri di Napoli e conobbe l’amore per una bella Fiammetta, quella Maria o Giovanna d’Aquino, forse figlia naturale del re Roberto il Saggio, incontrata a San Lorenzo Maggiore il Sabato Santo del 1336.

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Elegia di Madonna Fiammetta, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Urb. Lat. 1170. Fonte foto: dalla rete

Quest’incontro stravolse la sua vita e tutta la produzione letteraria ne dà testimonianza: nel Filocolo Fimmetta accoglie a Napoli il giovane Florio, in viaggio verso l’Oriente in cerca di Biancofiore, nell’Elegia di Madonna Fiammetta la giovine ragiona d’un amore finito nel segno della trasposizione letteraria, in Amorosa Visione, incontra la bella Fiammetta nel giardino di un castello ed inizia un percorso per conquistare il suo cuore. E’ soprattutto nella quinta novella della seconda giornata del Decamerone che incontriamo la Napoli del Trecento. “Fu, secondo che io giò intesi, in Perugina un giovane, il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di quelli, messisi in borsa cinquecento fiorin d’oro, non essendo mai più fuor di casa stato, con altri mercatanti là se n’andò; dove giunto una domenica sera in sul vespro…”. Così Fiammetta ci parla di Andreuccio che viene a Napoli da Perugia.

La novella di Andreuccio di Perugia è stata ben studiata da Benedetto Croce. Questo giovane mercante si reca a Napoli con l’intenzione di comperare dei cavalli con cinquecento fiorini. Viene invece derubato con l’inganno da una vecchia donna e sua figlia che si fingono sue parenti. Il giovane, costretto a girovagare senza soldi, incontra altri due ladruncoli che lo costringono a rubare l’anello di un vescovo defunto in un sepolcro. Dopo una serie di disavventure, il protagonista diventa scaltro, riesce a sfuggire ai ladri e ritorna a casa con un ricco bottino di gioielli. I tormenti, gli incontri, le speranze e le beffe si susseguono incalzanti nel disegno boccaccesco ritraendo a pieno spaccati della vita nei bassifondi della Napoli Angioina.

Quello che emerge è anzitutto il legame intenso tra Boccaccio e Napoli in un gioco dolce ed assieme cialtrone che fece sfociare il rapporto col padre in aspre liti: mal tollerando la mercatura e il diritto canonico cui l’aveva destinato la volontà paterna, fu iscritto a Giurisprudenza, ma anziché studiare diritto canonico, preferì seguire le lezioni poetiche che il suo maestro, Cino da Pistoia, impartiva fuori dall’ambiente universitario. Scoprì gli studi letterari, l’amore per la scrittura ed il suo innato ingegno poetico. Presso la Biblioteca Reale conobbe i romanzi cavallereschi ed i classici latini, frequentò gli intellettuali confluiti a Napoli da più parti d’Italia come il bibliotecario Paolo da Perugia, il monaco calabrese Barlaam esperto di letteratura greca, il matematico Paolo dell’Abbaco, l’astronomo Andalò del Negro, lo storico Paolino Veneto ed apprese i canoni dello stilnovismo. Soprattutto, si immerse nella vita mondana della città.

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Napoli è un vortice di voci, colori, profumi e suoni. Boccaccio non descrive la città dal punto di vista urbanistico o architettonico ma solo attraverso significativi spaccati delle abitudini e delle atmosfere dei suoi quartieri. E tutto sembra non essere cambiato. Ci immergiamo nella visione spaziale e temporale di Boccaccio come protagonisti di un viaggio tra le dimensioni: l’Arcivescovo Minutolo, morto il 24 ottobre del 1301, è ancora oggi inumato nella parete destra della Cappella Minutolo nel Duomo di Napoli, esiste ancora la Ruga, ovvero la Rua Catalana, in cui Andreuccio si avventura, sicuramente esisteva anche un Malpertugio alla Marina, in zona Via Depretis. Addirittura gli studiosi hanno scoperto che una donna siciliana di nome Flora abitava davvero a Napoli nel 1341, forse la Fiordaliso della novella, e che davvero visse a Napoli anche un siciliano di nome Francesco Buttafuoco, forse lo Scarabone Buttafuoco ruffiano della donna. Persino un Andrea da Perugia è stato individuato come corriere per conto di un d’Aquino a Napoli nel 1313 da Benedetto Croce.

Boccaccio però è pure autore della prima testimonianza della lingua napoletana nel documento noto come “Epistola napoletana”. Tutto è scritto in un napoletano che suona singolare ai nostri giorni, solo il preambolo è in toscano.

La lettera, firmata con lo pseudonimo Jannetta di Parisse, è indirizzata a Franceschino dei Bardi, residente a Gaeta, ed informa il destinatario di esser divenuto padre di un maschietto, partorito a Napoli dalla sua amante Machinti: “Facìmmote, adunqua, caro fratiello, assaperi / ca, lo primo iuorno de sto mese di dicembro, Machinta figliao, e appe uno biello figlio masculo, / ca Dio ncie llo garde / e li dea bita a tiempu e a biegli anni”. Boccaccio passa poi a descrivere il battesimo del piccolo elencando i bizzarri nomi di quanti accorsero: “E dapuoi arquanti iuorni / lo facìemo batteggiare, / e portàolo la mammana incombugliato / in dello ciprese di Machinta, / in chillo dello mbelloso inforrato di varo: / non saccio se ti s’aricorda qualisso boglio dicere eo. / Et Iannello Squarcione purtao la tuorcia allummata, / chiena chiena de carlini… chianchi; / e foronce i compari Iannello Corsario, / Cola Scrignario, ci furono Tuczillo Parcietano, / Franzillo Shizzaprèvete e Sarrillo Sconzaioco, / e Martusciello Burcano perzi, / e non saccio quanta delli megliu megliu de Napoli / E ghironci inchietta con ipsi Mariella Cacciapùllece / Catella Saccone, Zita Cubitusa / e Rudetula de Puorta Nova, / e tutte chelle zitelle de la chiazza nuostra”. Il piccolo fu chiamato Antonello: “E puoseronli nome Antuoniello / ad onore de Santo Antuono, ca nce lo garde”.

Boccaccio dunque seppe trovare la propria strada nella vita. Fece chiarezza dentro di sé e si liberò di falsi obiettivi ed ingombranti presenze. Non si tratta solo dello spinoso conflitto generazionale, egli mise a frutto i suoi talenti, seppe far emergere le sue potenzialità e lo fece a Napoli. Chissà se ciò si sarebbe egualmente verificato anche in un’altro contesto, più austero e provinciale, come quello che conobbe a Firenze dove fu poi costretto malinconicamente a ritornare.

Autore: Angelo D’Ambra
HistoriaRegni

Fonti foto: dalla rete. In copertina è ritratto il “Boccaccio legge il Decamerone alla Regina Giovanna di Napoli”, dipinto di Théodore Fourmois (1849)

Bibliografia:

B. Croce, Storie e leggende napoletane, Bari, Laterza, 1919

F. Sabatini, Lingue e letterature volgari in competizione, in Storia e civiltà della Campania. Il medioevo, (a cura di) G. Pugliese Caratelli, Napoli 1992, pp. 401-431.