Continua la mia rubrica sui Narratori del Nuovo Millennio con una presentazione di Giulio Mozzi, una delle figure più eclettiche della letteratura italiana contemporanea. Da autore di libri a editor di narrativa, da insegnante di scrittura a esperto linguista, da profondo conoscitore della letteratura italiana (fino agli autori minori o perlopiù sconosciuti) a postatore instancabile di narrazioni sui social media, dove gioca il suo dialogo con il mondo, aperto sin da quando aveva scritto il suo indirizzo di casa all’interno della copertina di una sua raccolta di racconti.
Un personaggio assoluto.
Monica Mazzitelli
Narratori del Nuovo Millennio – Giulio Mozzi
Proseguo il mio appuntamento mensile con le narratrici e i narratori italiani con un ospite speciale in molti modi: Giulio Mozzi, che racconta:
C’è una discussione che dura da, boh, forse da cento anni; o forse da molti di più. La discussione è: se in un’opera letteraria sia più importante la materia o sia più importante la forma. Nel nostro tempo, in cui la forma principe della letteratura pare essere il «romanzo» (e vi ricordo che non è sempre stato così: quando Alessandro Manzoni decise di piantarla con inni e tragedie, i suoi amici si strapparono i capelli, perché il romanzo era una cosa volgare, popolana – e la chiesa lo guardava con molto sospetto), la discussione è spesso posta in questi termini: se sia più importante la narrazione (con tutti i suoi elementi: la storia, il montaggio, la tensione, le agnizioni, il mistero, il ritmo eccetera) o la scrittura (lo stile, il lessico, la sintassi, le figure retoriche, la punteggiatura eccetera)
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È facile (ed è anche giusto) rispondere salomonicamente: narrazione e scrittura sono entrambe importanti. In una singola opera, tuttavia, può essere diversa l’importanza di questa o di quella. Tutti noi abbiamo letto romanzi appassionanti dalla scrittura mediocre, se non addirittura sciatta; tutti noi abbiamo letto narrazioni nelle quali sembra non accadere niente, e ad affascinarci era soltanto la scrittura. Il lettore più semplice – il bambino, per esempio – si lascia sedurre soprattutto dalla storia; l’apprezzamento per la scrittura è cosa più da adulti; e però – questo, mi raccomando, è un «però» grande come una casa – sarebbe stolto cercar di diventare adulti dimenticando la propria sensibilità di bambino.
A sette, otto anni mi bevevo i romanzi di Emilio Salgari. Non solo quelli il cui valore è oggi da – quasi – tutti riconosciuto (pochi: «Le tigri di Mompracem», «I misteri della jungla nera», «Jolanda, la figlia del Corsaro Nero»), ma anche tanti di quelli ormai giustamente dimenticati – addirittura parecchi di quelli apocrifi. Allora ignoravo del tutto la faccenda, ma andò così: dopo la morte di Salgari più di un autore tentò di sfruttarne ulteriormente il successo; in particolare Luigi Motta, in accordo con i figli di Salgari, Omar e Nadir, pubblicò parecchi romanzi a firma congiunta Salgari-Motta, nei quali si rielaboravano – così si affermava – stesure parziali, trame, idee eccetera originali di Salgari; ma Motta aveva un collaboratore, oggi si direbbe un ghostwriter, di nome Emilio Moretto, che a un certo punto sostenne di essere lui l’autore di quei romanzi (fece anche una causa, ma la perse). Mi soffermo su questo per far capire che cosa leggevo: robaccia, in gran parte. Eppure mi appassionavo. Allo stile? Alla scrittura? No, certo: alla pura e semplice storia, alla pura e semplice sequenza di fatti emozionanti e colpi di scena.
Una sensibilità per la scrittura cominciò a svegliarsi qualche anno dopo. A scuola, come a tutti, mi venivano proposte delle poesie. Io non sapevo perché, ma mi affascinavano. Il fatto stesso che spesso fossero difficili da capire – perché scritte secoli fa, in un italiano diverso dal mio; o perché volutamente enigmatiche: comunque difficili da capire – mi attirava. E mi appassionavo – questo è il punto – a fatti eminentemente formali. Il ritorno della rima in :ale nel «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia», il fraseggiare spezzatissimo di «A se stesso» («Perì l’inganno estremo, / ch’eterno io mi credei. Perì», «Posa per sempre. Assai / palpitasti») o quello prolungato di «A Zacinto»; il suggello a rima baciata alla fine di ogni ottava del «Furioso»; il movimento instancabile della «Laus Vitae»; l’implosione della forma-sonetto in Caproni («Amore mio, nei vapori d’un bar / all’alba, amore mio che inverno / lungo e che brivido attenderti!»), e così via. Oppure mi affascinavano le immagini: quanto a lungo rimasi a fantasticare su «L’isola» di Ungaretti («E una larva (languiva / e rifioriva) vide; / ritornato a salire vide / ch’era una ninfa e dormiva / ritta abbracciata ad un olmo») o su «Chiare, fresche e dolci acque» («Qual fior cadea sul lembo, / qual su le trecce bionde, / ch’oro forbito e perle / eran quel dí a vederle; / qual si posava in terra, et qual su l’onde; / qual con un vago errore / girando parea dir: Qui regna Amore») o su «Stabat nuda Aestas» («Più lungi nella stoppia, / l’allodola balzò dal solco raso, / la chiamò, la chiamò per nome in cielo». La poesia svegliò la mia sensibilità per la scrittura, e pian piano riportai questa sensibilità anche nella lettura della prosa. Non capivo niente della poesia, credo di non capirci ancora niente: ma credo di saperla vedere, di saperla sentire.
Ma quello che mi rimane, delle mie prime letture, è – credo – la capacità non dico di tornare a essere, ma proprio di essere ancora quel lettore bambino, quel lettore adolescente.
Una volta un’amica, critica letteraria e narratrice e poeta (o: poeta, narratrice e critica letteraria; le tre cose in lei non hanno gerarchia) confessò scherzosamente, durante un pubblico incontro, quasi una certa vergogna, o quantomeno uno stupore, nel ritrovarsi – lei, specialista di letteratura sperimentale negli studi e ritenuta narratrice e poeta sperimentale – a leggere un romanzo di Henry James, «Ritratto di signora», in un modo che le pareva un po’ infantile: domandandosi come sarebbe finita la storia, chi avrebbe sposato chi, e così via. Ecco: io non mi vergogno affatto (e anche i romanzi di questa amica, ammetto, li leggo allo stesso modo: per sapere come va a finire), e anzi conservo questo mio tratto infantile come un tesoro prezioso. Un romanzo è un’avventura, e può essere un’avventura évenementielle, di avvenimenti, di materia narrata, o un’avventura linguistica, formale: sempre avventura è. Se il protagonista è appeso a un ramoscello sopra a un baratro, voglio sapere come se la caverà; se la forma esplode a metà romanzo, voglio sapere come si ricostituirà in una forma nuova. Che differenza c’è? Nessuna.
Quando dopo molti anni di latitanza rimisi le mani nel mio primo e unico (e ultimo, sospetto) romanzo, «Le ripetizioni», avevo in mente due cose: che doveva essere scritto impeccabilmente, e che doveva contenere tensione, molta tensione. Non disponevo di una grande trama – già il titolo è sintomatico – ma pensavo di poter ottenere la tensione attraverso il montaggio. Quando, nel luglio del 2020, dopo due mesi di intensissimo lavoro, dopo aver lavorato al romanzo a capitoli, a pezzi, a frammenti (dovevo ricongiungere due diverse e antiche versioni, e integrarle con molti materiali nuovi o ripescati dagli archivi), finalmente rilessi il tutto dal principio alla fine (e: sì, dal principio alla fine, quel romanzo, prima di consegnarlo, lo rilessi solo una volta), arrivato circa a metà sollevai la testa dai fogli e mi dissi: accidenti, sì che c’è la tensione! Ma molta di quella tensione, ne ero e ne sono convinto, derivava dalla scrittura: una scrittura apparentemente spiattellata, che metteva tutto sotto gli occhi del lettore, ma in realtà fortissimamente reticente; una scrittura che cambiava regime e registro di capitolo in capitolo, e talvolta all’interno dello stesso capitolo, e che sembrava promettere a ogni passo, a ogni frase delle rivelazioni – posticipandole poi all’ultimo. (E nemmeno la pagina finale, in effetti, rivela nulla).
Allora: la risposta salomonica, «la narrazione e la scrittura sono entrambe importanti», è soltanto una mezza risposta. La risposta completa è, più o meno: che narrazione e scrittura sono come il microcosmo e il macrocosmo, e un romanzo è un buon romanzo se micro e macro si corrispondono. Vittorio Coletti, nella sua «Storia dell’italiano letterario» (di cui è uscita per Einaudi, qualche mese fa, un’edizione profondamente rinnovata), scrive che io apparterrei «a quella schiera, sempre meno fortunata e forse mai davvero grande in Italia, di prosatori dalla scrittura sperimentale, che non si sono limitati a lavorare il lessico o a variare i registri, ma che hanno provato un passo sintattico più complicato di quello in genere prevalente» (p. 521); e qualche riga più avanti parla addirittura di «bulimia sintattica». Mi riconosco; ma aggiungo che in quel romanzo, buono o cattivo che sia, alla «bulimia sintattica» corrisponde una certa «bulimia narrativa», nel senso che le risorse del montaggio sono non solo usate ma anche abusate, forzate e stravolte (cosa che, per onor di cronaca, da non pochi lettori mi è stata rimproverata).
Questo articolo è stato pubblicato in Monica Mazzitelli, Narratori del Nuovo Millennio e taggato come GiulioMozzi il 14/02/2024 da Monica Mazzitelli
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