VU CUMPRÀ?
di Valentino Romano (*)
Autunno del 1861
L’avreste mai detto che i soldati del Regio Esercito che unificò la Penisola, fuori dall’orario di servizio, si dilettassero anche nel commercio ambulante? Immagino di no, ma è accaduto anche questo. E precisamente a Benevento, nelle settimane successive ai noti fatti di Pontelandolfo. Ho riflettuto a lungo prima di riproporre questa storia alla quale avevo già fatto cenno in una mia pubblicazione ormai datata (Briganti e galantuomini. Soldati e contadini. Storie minime della Nuova Italia, Laruffa Editore, 2016)). I dubbi derivavano dalla assoluta necessità di non rinfocolare l’astiosa polemica che contrappone oggi da un lato i risorgimentisti “duri e puri” e i revisionisti ancora più “duri e puri”; una querelle che si gioca sul numero dei morti, sminuito a dismisura dagli uni e ingigantito altrettanto a dismisura dagli altri. E “amenità” simili come quella della controversa età di una delle vittime innocenti quel funesto episodio, età che pencola dagli otto agli ottanta anni, a seconda delle opposte scuole di pensiero. Ci fosse uno, dico uno, che sull’episodio abbia considerato l’unico dato incontrovertibile di quella tragedia: uno o mille vittime, otto o ottanta anni che fossero, in quel terribile episodio morirono uomini in armi e in divisa e vittime innocenti, a riprova dell’inutilità e ferocia di una guerra sporca, combattuta senza esclusione di colpi da tutte le parti in causa – come tutte le guerre – in nome degli “ideali” più nobili.
Ma de hoc satis, non voglio correre il rischio d’imbarcarmi anch’io nella querelle; la lascio volentieri a chi ci campa sopra, ideologicamente e … commercialmente.
Veniamo alla nostra storia che, purtroppo, a quella più tragica è strettamente collegata.
Nel beneventano e dintorni, anche al di là dei fatti di Casalduni e Pontelandolfo, la situazione è assai tesa: qua e là insorgono diversi paesi, spesso innalzando il vessillo bianco-gigliato del Borbone; Cerreto, Colle, Cusano, S. Giorgio la Montagna, S. Marco dei Cavoti, Molinara, Pago, Pescolamazza e Pietraloja ne sono alcuni esempi. Ovunque divampa l’incendio. Il rischio è che il fuoco si propaghi fino ad assumere dimensioni incontrollabili. E, a far da “pompiere”, ci pensa – naturalmente – il Regio Esercito che ci si applica con particolare impegno, tanto da trasformare tutta la zona in una di quelle nelle quali maggiormente si manifestano violenze, prepotenze e crudeltà dei suoi membri. Nonostante il governo faccia ogni sforzo per negare l’evidenza dei fatti, occultando ogni eccesso, le notizie circolano ugualmente, trovano eco nell’opinione pubblica anche estera e, perfino in Parlamento, grazie all’on.le Ferrari. Che fare? Gli alti vertici militari sono in imbarazzo e devono porci una pezza, magari tentando di dimostrare l’esagerazione delle accusa. A questo scopo, più che per eliminare concretamente gli eccessi stessi e punire i colpevoli, viene istituita una commissione d’inchiesta che possa esaminare la condotta tenuta dai militari nella provincia di Benevento; manco a dirlo tale organismo è composto da tre … militari. Ma tant’è, ormai sappiamo tutti che quando non si vuole veramente scoprire i fatti basta nominare una … Commissione d’inchiesta. Et voilà, il gioco è fatto, il risultato è assicurato.
La Commissione di cui ci occupiamo è presieduta dal capitano Grondoni. La sua relazione finale è un capolavoro di cinismo e doppiezza: tralascio, di proposito, la lettura dei fatti e delle ragioni degli “interventi energici” adottati. Mi limito a darvi conto della sola parte che riguarda Casalduni e Pontelandolfo: una faccenda liquidata con poche superficiali battute: i fatti “sono abbastanza noti per non avermi a ripetere con la fastidiosa memori”. Proprio così …. Massacro, stupri, saccheggi e distruzione sono solo una “fastidiosa memoria”, una sorta di incidente di percorso, un inciampo da rimuovere dalla memoria. Perché perdere tempo a raccontarli? E, se ricorda il crudele sacrificio dell’intera pattuglia di soldati, episodio questo che avrebbe scatenato la rappresaglia, lo fa solo per esprime la convinzione (non solo sua) che tale carneficina “avrebbe dovuto essere ancor più giustamente vendicata, che nol fu collo incendio della più gran parte delle case di Pontelandolfo e di alcune poche di Casalduni”. Grondoni si rammarica per l’accaduto, è vero. Ma unicamente perché “fu solo a lamentarsi in quella circostanza che a vece di distruggere le abitazioni di tutti quei scellerati che erano stati autori ed agenti principali di quel misfatto, alcune di queste sono rimaste intatte, ed incendiate per l’incontro alcune altre appartenenti a persone che veramente non avevano potuto prendere parte a quel fatto”.
Eh, si. Capitano, cosa ci vuol fare? Quando si dice la fretta!
L’accorto ufficiale cerca pure di minimizzare su altri dettagli marginali: uno di questi è il saccheggio operato dai soldati: “Anche per l’inevitabile saccheggio avvenuto in questi luoghi prima dell’incendio, nulla può essere rimproverato”.
Va beh, saranno pure inevitabili effetti collaterali, naturali conseguenze di ogni guerra, come dice Lei, Signor Capitano. Qualcosina, però si potrebbe “rimproverare”. Le sempre tanto civile? Sì, lo so, il saccheggio faceva parte delle abitudini belliche di quel periodo. Gli stessi Borbone se ne erano largamente serviti, garantendo tale “diritto” alle bande che seguirono il cardinal Ruffo nella gloriosa marcia della “Santa Fede” nel 1799 e se ne erano nuovamente serviti, nel 1860, nel tentativo di contrastare l’avanzata piemontese durante la reazione delle cosiddette “truppe a massa”, come mercede dei volontari accorsi in difesa del Regno. Anzi avevano addirittura denominato alcune di quelle posticce formazioni con “i saccheggiatori”. Però una domanda, Egregio Grondoni, avrebbe dovuto farsela: l’esercito piemontese non era sceso al Sud per contrastare una tirannia feroce, risollevare le popolazioni e riaffermare le ragioni della giustizia, della libertà e della civiltà? Com’è allora che adottò metodi uguali a quelli che – a parole – diceva di combattere? Qualcosa non torna, o no?
Però Grondoni, in fondo (ma molto in fondo, intendiamoci) è una persona onesta e non può esimersi dall’avanzare alcune riserve: “non possono dissimularsi alcune riprovevoli conseguenze che vennero dietro a quel saccheggio per parte della truppa che l’aveva eseguito”
E quali fossero queste riprovevoli conseguenze è costretto a spiegarcelo nel rapporto suddetto:
“Questa truppa ritornata da Pontelandolfo e da Casalduni a Benevento ebbe il mal consigliato pensiero di mettere pubblicamente in vendita e come a una specie d’incanto, nel quartiere del Gesù a Benevento quegli oggetti di maggior valore, che aveva seco portato da detti luoghi”.
In altri termini, i soldati, per ripagarsi dalle fatiche del massacro di quei paesi, avevano improvvisato un mercatino dell’usato a Benevento, una sorta di Porta Portese ante litteram. Con tanto di asta. Poi dice che i vu cumprà vengono solo dai Sud del mondo … La cosa, lo riconosce il bravo ufficiale, è decisamente antipatica ma, a parziale scusante dei soldati, precisa che “gli oggetti venduti non erano veramente di gran valore perché consistenti in ornamenti da donne, e in poca argenteria”. Bagattelle, appunto. Proprio come quelle che alcuni rom vendono oggi a Porta Portese.
C’è, però, un …però: Grondoni è costretto ad ammettere: “grande fu la disapprovazione in Benevento per questo sconveniente modo di vendita che i Comandanti ed Ufficiali avrebbero dovuto impedire”
Hai capito l’amico nostro? Non giudica sconveniente la depredazione dei pochi beni dei poveracci uccisi ma solo il modo di vendita! Uno strano concetto di “convenienza”.
Ma è alla fine del rapporto del rapporto che il capitano incastona la perla più preziosa:
“tra gli oggetti venduti a due orefici di Benevento, era una piccola Pisside ed un Calice, che furono recuperati dal Parroco di Benevento”.
Per la serie … “non si sono risparmiate nemmeno le Chiese”!
Bagattelle, quindi, bagattelle di non “grande valore”, sottratte nelle case dei poveracci di Pontelandolfo. Comprese quelle del più conosciuto dei poveracci. I soldati dell’esercito liberatore, nel saccheggiare le case di quei “poveri cristi” potevano mai tralasciare quelle del primo “povero Cristo”? A me pare proprio di no.
I “poveri cristi”, infatti, erano responsabili del massacro dei soldati e, quindi, andavano puniti in modo esemplare. E va bene! Però, amici, gli uomini di Cialdini … avevano fretta. E così, visto che si trovavano, gliela fecero pagare anche al più Cristo di tutti! Ma a Lui andò pure bene! In fondo se la cavò con una pisside e un calice, poca roba! In precedenza gli era andata pure peggio: ma è risaputo, ne aveva fatta di strada la civiltà in duemila anni di Storia! L’esercito del Re Galantuomo scese giù, in partibus infidelium, proprio per spiegarcelo!
Buona domenica, amici! Io me ne vado proprio a Porta Portese, quella vera che è sicuramente più umana di quella della quale vi ho fatto cenno: se trovo qualcosa di interessante ve lo faccio sapere domenica prossima.
(*) Promotore Carta di Venosa