L’ANALISI DEL MERIDIONALISTA DE VITI DE MARCO SUL RAPPORTO DELLE POLITICHE COMMERCIALI ITALIANE CON GLI INTERESSI DEI LAVORATORI E DEL MEZZOGIORNO
di
Di Carlo Michele Eugenio
Il leccese Antonio De Viti De Marco, nato nel 1858, ha l’indiscutibile merito di essere stato il primo economista a opporsi al protezionismo industriale avviato dal governo Crispi nel 1887, denunciando sin dal 1891[1], sulla rivista «Giornale degli economisti» che dirigeva insieme a Maffeo Pantaleoni e Ugo Mazzola, la volontà politica di privilegiare lo sviluppo industriale del Nord danneggiando pesantemente lo sviluppo economico del Mezzogiorno e aggravando il divario Nord-Sud. Docente di Scienze delle Finanze a Roma dal 1887, eletto in Parlamento nel 1901, nel 1904 aderisce come Nitti al neonato Partito Radicale Italiano, alternativo alla Sinistra storica trasformista.
Il meridionalismo di De Viti si concretizza proprio come capostipite della battaglia antiprotezionista e del liberalismo economico. La tariffa protezionista del 1887, votata a larga maggioranza in Parlamento, aveva ottenuto l’adesione dei latifondisti meridionali, forza dominante nel Mezzogiorno, grazie a un dazio sul grano, ma aveva danneggiato irrimediabilmente i settori agricoli più intensivi e produttivi. Ad esempio, la viticoltura in forte espansione veniva pesantemente limitata nelle sue esportazioni con la Francia.
Figura 1. Antonio De Viti De Marco
De Viti ritornava a trattare del rapporto tra le politiche commerciali e gli interessi dei lavoratori in un ciclo di conferenze tenute nei primi mesi del 1904 a Milano, Torino, Bologna, riprese dal «Giornale degli Economisti» nel luglio dello stesso anno[2]. Uno scritto nel quale il salentino dava conto dell’accordo tra radicali e socialisti in relazione alla costituzione della «Lega antiprotezionista»[3], spiegava le ragioni economiche per cui gli operai avevano interesse al libero scambio; illustrava gli interessi che accomunavano nella lotta contro il protezionismo imprese esportatrici e agricoltori del Mezzogiorno; chiariva il ruolo che i radicali dovevano avere in relazione alla «questione meridionale».
L’intellettuale rassicurava con parole chiare, chi lo accusava di «meridionalite acuta», che la sua battaglia antiprotezionista condotta sin dal 1891 non era la via per intraprendere una «lotta regionale» autonomista; così come la ricerca di tutela dei lavoratori dai danni che subivano dalle barriere doganali non era un pretesto per avviare una «lotta di classe» socialista contro le classi più agiate. Nondimeno il protezionismo, «riducendo la produttività delle industrie» privilegiate, aveva non solo ridotto il costo del lavoro acuendo la competizione tra lavoratori, ma anche ridotto il commercio con l’estero determinando la caduta dei prezzi dei prodotti agricoli. In definitiva, l’aumento del costo dei manufatti industriali prodotti in regime non concorrenziale penalizzava non solo gli operai ma anche agricoltori e contadini, in particolare del Mezzogiorno.
De Viti giudicava errata la richiesta operaia di aumenti di salari, quando avrebbero dovuto innanzitutto garantirsi dall’aumento del costo dei loro consumi. Così come i proprietari terrieri del Mezzogiorno, in crisi per la caduta delle esportazioni e per la contrazione dei prezzi delle derrate agricole, avrebbero dovuto garantirsi dall’aumento dei manufatti industriali necessari alle loro attività produttive.
De Viti, inoltre, avvertiva lucidamente il pericolo che «il movimento antiprotezionista delle classi lavoratrici» potesse essere paralizzato da «concezioni parziali a favore di alcuni gruppi e a danno della massa» (si riferiva sicuramente ad aumenti salariali agli operai delle industrie, mentre i contadini del Mezzogiorno erano lasciati in condizioni di semi schiavismo), quando già il protezionismo governativo italiano aveva inferto un colpo al movimento antiprotezionista meridionale con il dazio sul grano, che altri non era che «il prezzo pagato ad alcuni individui o a qualche provincia interessata nella granicoltura, a cui tutta l’economia agricola del Mezzogiorno» stava sacrificando «maggiori e più generali interessi»[4]. Ne derivava che i proprietari terrieri, invece di chiedere trattamenti di favore per il proprio settore e la propria area geografica, avrebbero dovuto pretendere con forza trattati commerciali con i paesi esteri e limitazione dei dazi doganali penalizzanti l’intero arco dell’agricoltura meridionale.
All’intellettuale leccese appariva chiaro che se ad un gruppo si concedevano «provvedimenti a prò di una provincia; ad un altro provvedimenti speciali a prò di un comune» col preciso intento di privilegiare interessi di parte e di rompere il fronte antiprotezionista, diventava opportuno proporre il decentramento amministrativo, in modo che ogni regione potesse avere i mezzi finanziari per provvedere «ai casi suoi, secondo i suoi bisogni e sotto la sua esclusiva responsabilità». Ma, come ben sapeva De Viti, le politiche governative dell’epoca andavano in direzione inversa e, quella che l’economista titolava «legislazione speciale», era studiata per consolidare il potere di un centralismo spietato, tramite un sistema di leggi speciali, che suonavano come «concessioni di favori, o minacce di esclusioni, a singole regioni e a singoli gruppi di interessi, con lo scopo e il risultato di staccarli dal movimento antiprotezionista»[5].
De Viti era profondamente convinto che il liberista Partito Radicale dovesse «combattere il sistema della legislazione speciale, per propugnare riforme economiche e finanziarie di carattere generale» affinché le comunità locali potessero amministrare in tutta autonomia[6]. Nello stesso anno della fondazione della Lega antiprotezionista, il 1904, De Viti e Nitti, pur condividendo i banchi parlamentari dello stesso partito e pur essendo entrambi convinti che le politiche del primo quarantennio unitario erano state discriminanti nei riguardi del Mezzogiorno, si dividevano sul piano delle soluzioni da attuare per ridurre il divario Nord-Sud: Nitti si metteva al servizio di Giolitti e accelerava in favore delle leggi speciali e dei lavori pubblici, De Viti, come Fortunato e Salvemini, lottava più decisamente per l’eliminazione del protezionismo industriale e per una riforma tributaria più favorevole all’agricoltura del Mezzogiorno e, soprattutto, meno penalizzante per le misere plebi rurali su cui gravavano i pesi fiscali.
L’intellettuale salentino riteneva i proprietari terrieri del Mezzogiorno e i lavoratori le due forze che insieme dovevano concorrere a rafforzare il movimento antiprotezionista, avendo un comune interesse. Nello stesso tempo si rendeva conto delle difficoltà di unire nella lotta forze tanto divise da secoli di storia: l’una avente come interesse economico prioritario la produttività fondiaria e il commercio dei prodotti; l’altra, la classe dei lavoratori, avente l’interesse socialista di lottare contro l’inflazione dei beni di prima necessità e di conservare livelli salariali minimi per sopravvivere. Il tutto in un contesto politico di forze conservatrici, alcune solo apparentemente più democratiche, che trovavano comodo mantenere immutata la questione sociale a livelli semifeudali come «conveniente terreno di sviluppo e di lotta»[7].
Il radicale De Viti, nonostante la contrapposizione netta tra l’individualismo volto al rafforzamento della rendita agraria parassitaria e il socialismo operaio e contadino, non demordeva e suggeriva ottimisticamente una piattaforma per un’azione comune antiprotezionista che si basava sui chiari e semplici elementi: da un lato i lavoratori dovevano smarcarsi dalla lotta di classe tesa all’abolizione della proprietà capitalista; dall’altro, i capitalisti dovevano riconoscere il diritto dei lavoratori agli scioperi e alla lotta sindacale finalizzata alla richiesta di aumenti salariali «a spese della rendita, dell’interesse e del profitto»[8].
Su questa base, pienamente consapevole della feroce ostinazione della maggioranza dei proprietari nel perseguire esclusivamente i propri interessi a spese dei lavoratori, l’economista salentino invitava a non aderire alla Lega «quegli industriali e quei proprietari che non fossero sinceramente fautori della libertà di associazione, di coalizione e di sciopero»[9].
[1] A. De Viti De Marco, Finanza e politica doganale, «Giornale degli economisti», a. II, gennaio 1891.
[2] A. De Viti De Marco, La politica commerciale e gl’interessi dei lavoratori, in «Giornale degli Economisti», Serie seconda, vol. 29 (anno 15), luglio 1904, pp. 30-51.
[3] La fondazione a Milano, nel marzo del 1904, della Lega antiprotezionista, metteva insieme socialisti, liberali, repubblicani, radicali e, persino, per poco tempo sindacalisti rivoluzionari. Nasceva per contrapporre posizioni pacifiste a un protezionismo industriale sempre più legato a tendenze nazionaliste e imperialiste. Nasceva così una proficua collaborazione con Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi.
[4] A. De Viti De Marco, La politica commerciale e l’interesse dei lavoratori, in Antologia della questione meridionale (a cura di B. Caizzi), Milano, Edizioni di Comunità, 1950, pp. 215-224.
[5] Ivi, pp. 219-220.
[6] Ivi, p. 220.
[7] Ibidem
[8] A. De Viti De Marco, La politica commerciale e l’interesse dei lavoratori, cit., p. 222.
[9] Ibidem.