L’eredità politica e morale di Di Vagno, meridionalista di Conversano ucciso dagli agrari nel 1921.
Per il suo pensiero, per il suo peso intellettuale, per il suo vissuto, Giuseppe Di Vagno rappresenta una figura fondamentale per il meridionalismo. L’eredità morale e politica che ci lascia è immensa, e ancora del tutto attuale.
Buona lettura su Lettere Meridiane.
L’immensa eredità politica e morale di Giuseppe Di Vagno
Author: Michele Eugenio Di Carlo Published Date: 24 Febbraio
Per il suo pensiero, per il suo peso intellettuale, per il suo vissuto, Giuseppe Di Vagno rappresenta una figura fondamentale per il meridionalismo e per la sua storia. L’eredità morale e politica che ci lascia è immensa, e ancora del tutto attuale. Andrebbe ritrovata e rilanciata. “Autentico richiamo per ogni meridionalista che intenda compiere il proprio dovere”, scrive giustamente Michele Eugenio Di Carlo concludendo la puntata numero 23 del viaggio nella questione meridionale in cui ci sta accompagnando. Ha del tutto ragione. Basti pensare alla perdurante attualità di quella “questione contadina” che il grande meridionalista pugliese di Conversano individuò quale elemento centrale del divario tra Nord e Sud, che ancora oggi divide e lacera il Paese.
Mai come oggi vi invito ad una buona – ed approfondita – lettura. (g.i.)
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Giuseppe Di Vagno, nato a Conversano il 12 aprile 1889, resta il simbolo della lotta legata alla tutela della libertà di pensiero e di azione delle classi contadine e bracciantili. Una lotta sempre più drammatica nel mondo attuale, dove almeno 4 miliardi di persone sono totalmente preda del globalismo finanziario, povere e senza alcun diritto. Di Vagno veniva barbaramente ferito a Mola di Bari il 25 settembre 1921 morendo il giorno dopo, vittima della violenza e dello squadrismo degli agrari ferocemente impegnati a “domare” le rivolte contadine e bracciantili del Mezzogiorno al sorgere del fascismo.
Di Vagno, portatore di grandi ideali di emancipazione e di equità sociale, si era occupato della vecchia questione contadina e agraria, mai risolta prima e dopo l’Unità d’Italia; lottava al fianco dei braccianti per la divisione di quei latifondi che mezzo secolo prima aveva generato la guerra sociale e civile passata poi alla storia con il nome di “brigantaggio”. Uno scontro dal quale il Mezzogiorno non si sarebbe mai più ripreso.
Per comprendere pienamente il pensiero e l’azione di Di Vagno giova ripercorrere le tappe di un percorso che aveva iniziato a farsi largo già nel dibattito culturale illuministico di fine Settecento, quando già si pensava di riformare un sistema feudale arcaico mediante la distribuzione dei terreni demaniali, incentivando la piccola proprietà contadina.
Giuseppe Di Vagno
Ferdinando IV aveva acquisito la fondata convinzione che l’agricoltura andava rilanciata, riducendo drasticamente il latifondo e assegnando i terreni feudali incolti ad una moltitudine di braccianti, contadini, piccoli coloni, «massari di campo», che da salariati precari dovevano convertirsi in piccoli e medi coltivatori diretti. Il 23 febbraio 1792 emanava la prammatica XXIV De Administratione Universitatum, «per fare ovunque fiorire la meglio intesa agricoltura». Una prammatica che all’art. 4 stabiliva che nella «censuazione» (enfiteusi [1] di terreni coltivati) dei demani universali si sarebbero preferiti «i bracciali [2] nei terreni più vicini alle popolazioni; dandone loro nella misura, che possano coltivarli colla propria opera». Riguardo ai demani feudali, l’art. 12 sanciva che al barone doveva essere attribuita la quarta parte del demanio, le altre tre parti restanti dovevano andare ai Comuni perché fossero censite e assegnate in enfiteusi a braccianti, contadini, coloni, massari di campo, a compenso della perdita dell’esercizio degli usi civici [3]. La prammatica non otteneva effetti pratici nella realtà socio-economica del Regno, ma determinava negli strati bassi del ceto rurale l’aspettativa di migliori condizioni di vita. Il fallimento del tentativo di rinnovare la società e lo Stato segnava la rottura di gran parte della cultura illuminista con il riformismo assolutistico dei Borbone.
Il 23 gennaio 1799 le truppe del generale Championnet entravano in Napoli dando vita alla Repubblica partenopea. Il successivo decennio francese (1806–1815) segnava l’avvio di un nuovo periodo per il Mezzogiorno. Secondo il docente di Storia Contemporanea all’Università «La Sapienza» di Roma, Piero Bevilacqua, «d’un colpo, l’intera giurisdizione che per secoli aveva attribuito ai baroni un potere quasi assoluto su uomini, terre, castelli, città, fiumi, strade, mulini venne cancellata […] I vari progetti di riforma delle istituzioni feudali, tentati inutilmente nella seconda metà del Settecento dai governi ispirati dagli intellettuali illuministi, ebbero dunque finalmente una concreta realizzazione» [4].
Infatti, l’abolizione della feudalità, sancita con legge n. 130 del 2 agosto 1806 [5], eliminava tutte le giurisdizioni baronali reintegrandone i proventi alla Corona, stabilendo che indistintamente tutte le città, le terre e i castelli fossero soggetti alla legge comune. Appena un paio di mesi dopo la nuova legge del 1° settembre 1806 provvedeva alla ripartizione dei demani e allo scioglimento delle promiscuità. Anche i demani comunali, denominati universali, su cui venivano esercitati gli usi civici andavano ripartiti, facendo attenzione a prediligere nella ripartizione i «comunisti» rispetto ai baroni.
Tuttavia l’eversione della feudalità e la rimozione del sistema fiscale della Regia Dogana (legge del 21 maggio 1806) non ebbero l’effetto sperato da braccianti, terrazzani, piccoli coloni e contadini. La proprietà fondiaria rimase concentrata nelle mani di poche famiglie e, in Puglia, i latifondi assolati privi di vegetazione arborea continuarono a dominare le vaste estensioni del Tavoliere. La decaduta nobiltà e la nuova borghesia, influenti nei gangli del potere comunale, opponevano un vero e proprio ostacolo al frazionamento dei latifondi e alla formazione della piccola proprietà terriera.
Durante e dopo la fase di annessione del Regno delle Due Sicilie alla dinastia sabauda, i termini precari per l’assegnazione e la ripartizione delle quote convincevano braccianti e contadini poveri del fallimento delle quotizzazioni: rinunce, vendite, sequestro delle quote assegnate provavano l’intento del nuovo governo unitario di non inimicarsi la ricca borghesia e gli ex baroni.
Giuseppe Di Vagno, mezzo secolo dopo, riprendeva a battersi per i diritti dei contadini e dei braccianti, vanamente e a costo della vita. Ancora al termine del Ventennio fascista, nel 1944, in una relazione tenuta al congresso del Partito d’Azione, Manlio Rossi Doria snocciolava i dati drammatici delle quote assegnate ai lavoratori della terra, abbandonate o sequestrate dal governo per mancato pagamento del canone e dell’imposta fondiaria, con l’aggravio delle già precarie condizioni di chi aveva perso persino il diritto agli usi civici, fonte di sussistenza per secoli delle popolazioni rurali: «La questione demaniale […] se sta alla radice dei moti del brigantaggio che molti hanno definito una rivoluzione contadina, riaffiora sempre per le stesse terre, sia o non sia avvenuta la liquidazione degli usi civici, siano o non siano state fatte le quotizzazioni, si siano o no trasformati i beni comunali da demaniali in patrimoniali. Ed è coscienza incancellabile di una spoliazione violenta avvenuta e non dimenticata, di un torto subito»[6].
Mentre l’altro meridionalista Emilio Sereni, tenuto conto del fallimento nella costituzione di una stabile piccola azienda contadina, spiegava: «Nessun diritto veniva riconosciuto al coltivatore su quella parte delle terre demaniali sulle quali in passato egli aveva esercitato i suoi usi civici di semina, di pascolo, di legnatico, ecc., e che veniva ormai assegnata in piena proprietà all’ex barone» [7].
A Benedetto Croce, che esaltava le riforme francesi scrivendo che «allora finì veramente il medio Evo; la classe borghese salì veramente al governo degli stati» [8], il letterato Pasquale Soccio opponeva che non era sufficiente seguire un filo conduttore etico-politico e che Croce aveva trascurato «quel filo rosso riferibile a una gran fascia di umanità dolente e che è poi la maggioranza» da cui si alimentano povertà e anarchia, sfocianti nel brigantaggio» [9].
Di Vagno, come accennato, riprese la battaglia civile e sociale al fianco delle masse popolari contadine e bracciantili. È stato un autentico meridionalista, tuttora poco studiato e poco conosciuto. Nel Consiglio provinciale di Bari, al fianco di Gaetano Salvemini, si batteva contro le politiche doganali finalizzate al protezionismo dell’industria del Nord complici gli agrari latifondisti, a scapito del sempre tartassato mondo contadino e bracciantile del Mezzogiorno. Nel 1919 aderiva al Manifesto di Salvemini, posizionandosi lungo le tesi meridionaliste del grande pugliese, subendo l’espulsione dalle liste di quel Partito socialista che Salvemini aveva già lasciato nel 1911. Ciononostante, nel 1921, pochi mesi prima di essere ucciso, veniva eletto alla Camera dei Deputati.
Gaetano Salvemini
Il giorno dopo la morte, «Il Paese», quotidiano nazionale, scriveva: «Il delitto è stato premeditato ed eseguito dai fascisti. L’on.le Caradonna è il maggiore responsabile della situazione creatasi laggiù». Giuseppe Di Vittorio, accorso qualche ora dopo l’attentato al suo capezzale, scriveva su «Puglia Rossa»: «Si è voluto uccidere in te il forte lottatore […] come per seppellire un’Idea, per infrangere una Fede, e non si sono accorti, i miserabili, che la soppressione del tuo corpo ha preparato la tua resurrezione. Tu sei risorto. Eri un uomo ed ora sei un Mito. Tu sei sempre con noi, in noi e nelle nostre battaglie e nelle nostre vittorie».
Immenso il patrimonio ideale, culturale, storico che la figura di Giuseppe Di Vagno proietta ancora oggi, a distanza di oltre un secolo dalla sua scomparsa, indicandoci chiaramente il valore dell’impegno civile, democratico, intellettuale. Autentico richiamo per ogni meridionalista che intenda compiere il proprio dovere.
Michele Eugenio Di Carlo
N O T E
[1] L’enfiteusi è il diritto di godere di un fondo altrui con l’obbligo di migliorarlo e di pagare al proprietario un canone. L’enfiteusi può essere perpetua o temporanea per non meno di 20 anni. L’enfiteusi comporta il diritto di affrancazione del fondo rustico che, attualmente, è regolato pagando una somma pari a 15 volte il canone annuo.
[2] Braccianti.
[3] Prammatica XXIV del 23 febbraio 1792 «De Administratione Universitatum». Da http://www.demaniocivico.it/public/public/439.pdf
[4] P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Roma, Donzelli Editore, 1993, p. 25.
[5] Legge 2 agosto 1806 abolitiva della feudalità, in Bollettino ufficiale delle leggi e decreti del regno di Napoli (=BLD), Napoli Stamperia Simoniana 1806, vol. II, legge n. 130
[6] G. Liberati, Demani e usi civici nel Mezzogiorno continentale, in Terre collettive ed usi civici, a cura di G. Soccio, Edizioni del Parco, Foggia, Grenzi Editore, 2003, p. 12-13.
[7] E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1991, pp. 356-357; in M.Magno, La Capitanata. Dalla transumanza al capitalismo agrario, Foggia, Edizioni del Rosone, 1999, p. 24.
[8] B. Croce, Storia del regno di Napoli, Bari, Laterza, 1944, p. 246; citazione tratta da P. Soccio, Pauperismo, brigantaggio ed emigrazione, Foggia, Sentieri meridiani edizioni, 2007, p. 43.
[9] P. Soccio, ivi, pp. 43-44.
https://www.letteremeridiane.org/2024/02/limmensa-eredita-politica-e-morale-di-giuseppe-di-vagno/?fbclid=IwAR33K6FyXr9goHbL9k_sCYCwGA-DKKu45S_QsOqB45DGd8w3j-0cWndaJZs_aem_AT6EY1n4Wid-rEL_WarC6im-15YFRyXMgoEFiSpW1872kJBAcX2CknWTFY3I_fGgnJY