Questioni Ed Emigrazioni Meridionali?

QUESTIONI ED EMIGRAZIONI MERIDIONALI? TUTTA COLPA DEI MERIDIONALI. LE STRANE TESI LEGHISTE DI UN INTELLETTUALE NON LEGHISTA.

Difficile replicare alle tesi dell’ultimo articolo di Alessandro Mellone sul Foglio del 17/11/19. L’indignazione, però, è grande e non possiamo non provarci con una premessa: Mellone, di origini tarantine, è un giornalista e scrittore molto attivo in RAI e non è uno dei soliti leghisti-razzisti in giro per l’Italia da decenni. E questo rende più amaro e preoccupante questo articolo e ci fa capire che i “nemici” del Sud non sono (solo) i leghisti e che il lavoro da fare per salvare/cambiare il Sud è ancora lungo…

Non sappiamo quali siano le frequentazioni di Alessandro Mellone ma non esiste gente tanto stupida da pensare che l’emigrazione meridionale di oggi sia colpa dei Savoia di 150 anni fa o magari dell’attuale Emanuele Filiberto ballerino e cantante televisivo. Forse chi cita i Savoia lo fa per evidenziare l’impressionante e drammatica continuità di quei dati perché i meridionali (tra i pochi popoli a non emigrare prima del 1860) dal 1860 in poi hanno iniziato ad emigrare senza alcuna soluzione di continuità fino ad oggi ed evidentemente si tratta delle conseguenze di un sistema economico sbagliato e che dura da 150 anni. Per Mellone al Sud non si fa sufficiente “autocritica” eppure gli basterebbe dare un occhio anche solo ai libri di storia scolastici per leggere solo e sempre critiche e autocritiche intorno ai meridionali. E forse sono da “psicanalisi collettiva” quelli che ritengono i meridionali colpevoli di scegliere l’emigrazione piuttosto che lavorare a casa propria (tesi involontariamente comica se non toccasse i sacrifici e le sofferenze di tante famiglie). Forse sono da “psicanalisi collettiva” anche quelli che non tengono conto dei dati oggettivi magari di Svimez (centinaia di miliardi arrivati al Nord invece che al Sud in questi anni). Idem per chi ancora s-parla della Cassa per il Mezzogiorno con uno schema simile a quello usato nei bar di Bergamo o Brescia magari ignorando ancora una volta i dati (la Casmez servì a creare con fondi straordinari ciò che al Nord veniva creato con fondi ordinari e finanziò in gran parte le imprese del Nord). Non contano nulla, per Mellone, neanche i dati sui Fondi di Coesione (80% destinati al Sud ma dirottati al Nord come i fondi Fas) e non conta nulla neanche la recente denuncia di Bruxelles sui mancati finanziamenti italiani al Sud. Per Mellone è tutta colpa di quelle “masse popolari” meridionali che non sanno votare (eppure, come al Nord, hanno votato per destre, sinistre o 5 Stelle spesso incapaci o al centro di scandali da Trapani a Trento).
E se è vero che oggi “i like vanno in direzione di chi recita la litania dei depredati e dei buoni seviziati dai cattivi nordisti” è perché molte verità storiche e politiche (dati compresi) si stanno diffondendo ma (Mellone può stare ancora una volta tranquillo) il potere culturale, politico (e mediologico) è ancora saldamente nelle mani dei seguaci del “tuttacolpadelsud” (dia un occhio ai recenti testi accademici sulla “parte cattiva dell’Italia” veicolata sistematicamente dai media o anche alle scelte antimeridionali dei governi di turno). E “dove mangiano due mangiano anche tre, poveri ma felici” non è una colpa e neanche una scelta ideologica e neanche un “delirio di onnimpotenza”: è una disperata e civile rassegnazione frutto del sistematico abbandono del Sud e dei suoi abitanti che (stia tranquillo anche qui) non sono affatto felici di partire come hanno fatto, a milioni, da oltre 150 anni e farebbero volentieri a meno di “sussidi e pensioni” che lo Stato concede proprio perché non concede altro. Altro che “risarcimenti”: il Sud non li ha mai chiesti e se lo avesse fatto forse Mellone e tanti altri non sarebbero mai partiti dal Sud…
Dall’alto della sua scienza, se può, Mellone spieghi però a questa gente come fare a “trattenere le imprese al Sud” magari evitando infami baratti come quelli di Taranto (“o il lavoro o la salute”). Ma Mellone, ne siamo sicuri, andrà dritto per la sua strada, da meridionale fiero e sprezzante trasferito al Nord ma senza farsi irretire dai pietismi dei terroni: è sempre tutta colpa del Sud! Sempre e solo colpa del Sud. Una sola cosa possiamo fare: lo invitiamo a riflettere sul fatto che se questo schema è in vigore da oltre 150 anni, quello scienziato veneto/sabaudo che si chiamava Lombroso non doveva avere tutti i torti. Delle due l’una: o è colpa di un sistema politico/economico che in tanti in questi anni stanno denunciando oppure è colpa dei meridionali e a quelli che come Mellone si battono per la tesi del Sud colpevole forse manca solo il coraggio di dichiararsi lombrosiani perchè quella della razza inferiore potrebbe essere l’unica motivazione (scientifica pur se con qualche eccezione magari tra giornalisti e/o opinionisti) per capire come e perché questo Sud rimane sempre indietro. Un ultimo sforzo e sarebbe tutto più coerente e chiaro. Lo faccia Mellone e lo facciano quelli che girano intorno a questi temi con lo stesso approccio vecchio ormai di 150 anni e del quale il Sud è veramente, giustamente e finalmente stanco.
Prof. Gennaro De Crescenzo

https://www.ilfoglio.it/societa/2019/11/17/news/non-industrie-ma-risarcimenti-il-sud-in-preda-al-delirio-di-onnimpotenza-286956/

 


Non industrie, ma risarcimenti. Il sud in preda al delirio di onnimpotenza

Nella gigantesca bolla comunicativa in cui sono intrappolati i discorsi sul disastro economico del Sud, non c’è spazio per l’autocritica. Il pensiero meridiano tra decrescita e muretti a secco

di Angelo Mellone

17 Novembre 2019 alle 06:00
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Foto LaPresse

Anche lo Svimez è entrato nel cortocircuito social, e con esso i dati dolorosi che sforna con preoccupante regolarità sul Mezzogiorno. Oggi l’importante è trovare un colpevole e dunque, se statuiamo che milioni di meridionali hanno lasciato la propria terra – compresi coloro che potrebbero avere le competenze giuste per far del bene al luogo dove sono nati – è colpa dei Savoia. Se Palermo o Napoli non sono Milano è perché Milano è una città parassita che ingurgita miliardi e non risputa niente.

Ecco. Nella gigantesca bolla comunicativa in cui sono intrappolati i discorsi sul disastro economico del Sud, non c’è spazio per l’autocritica e anzi è un continuo rilancio ad additare il colpevole supremo: i Savoia, causa di tutto, sono fuori gioco, ma c’è lo Stato. E dunque lo Stato deve “risarcire” le terre che ha spogliato di energie, denaro, professionalità. Non serve ricordare, per dirne una, la Cassa del Mezzogiorno, non serve neppure riavvolgere il nastro della storia istituzionale del Sud per far notare il fallimento storico delle sue classi dirigenti e dunque delle masse popolari che quei dirigenti hanno eletto, reiteratamente, rendendosi complici di uno scambio politico depressivo, rapinatore e improduttivo, non serve nulla di tutto questo perché conta solo la presentificazione delle emozioni, la sarabanda dei like e oggi i like vanno in direzione di chi recita la litania dei “depredati”, degli sfruttati, dei buoni seviziati dai cattivi nordici e capitalisti. In questo fenomeno di psicanalisi collettiva, in questa gigantesca e mostruosa eco-chamber, ha attecchito una sorta di mito neo-pauperista – vedi la questione della decrescita felice, a sua volta prodotto del “pensiero meridiano” degli anni Novanta – che vorrebbe ristabilire l’identità meridionale sulle coordinate della lentezza, della smobilitazione industriale, scartando l’impetuosità dello sviluppo capitalistico a favore della bonaccia del mare ionico, guardando in direzione di un Mediterraneo ridotto a spazio di una gigantesca siesta multiculturale.

Più volte mi è capitato di sentirmi rispondere, mentre sbattevo come una mosca nel barattolo contro il muro di un paradigma suicida – ne ebbi la riprova anni fa in un surreale dibattito a Trani con Serge Latouche – che “da noi dove si mangia in due si mangia anche in tre”, a significare che dai nostri bisnonni possiamo recuperare l’abitudine ad accontentarsi, a vivere di poco, tanto è sufficiente il dono della bellezza di cui molti meridionali sono circondati senza esserselo meritati. Basta la barchetta per trasportare i turisti nella bella stagione, lo scorcio, il tufo bianco, i muretti a secco, l’economia informale e sommersa del baratto, e tutto si sistema. Poveri ma felici. Pezzenti ma finalmente liberi dalla nevrosi capitalista dell’accumulazione. E se il Sud si spopola – è quello il terribile corollario di questa mentalità – poco male, avremo meno bocche da sfamare, più spazio da condividere, meno persone con cui spartire il sole a picco in acqua e la meraviglia del chiaro di luna. Chi non si trova a suo agio in questo universo a-storico non deve far altro che raggiungere una stazione, un aeroporto, o mettersi in macchina e andare altrove. E’ così semplice.

Ma ecco il secondo corollario: tutto questo potrà avvenire solo quando lo Stato avrà “risarcito” – immagino con sussidi, agevolazioni, pensionamenti anticipati, o con il mito ricorrente delle “no tax area” – i meridionali vittime e sfruttati. Se non si comprende questo ingranaggio immaginario, che potrebbe essere definito un “delirio di onnimpotenza”, neppure si capisce la ragione per cui anziché porsi il problema vitale di come trattenere le imprese al Sud, gli unici movimenti sociali che appaiono sulla scena brigano in ogni modo per farle scappare, mentre le maggioranze silenziose preferiscono galleggiare in una silenziosa rassegnazione. Taranto è solo l’ultimo, e il più drammatico, di questi casi, ma è il possibile punto di un reale non ritorno. Il pauperismo può affascinare, la povertà fa orrore quando appare dove prima c’era benessere.