Tramonto e Aurora

Tramonto e Aurora

Autore: Giovanni Sessa

Pensiero di Tradizione e Nuovo Inizio

Centro Studi La Runa

9788831447034_0_536_0_75Zygmunt Bauman  ha sostenuto che, dal 1970, ci siamo lasciati alle spalle le scorie ideologiche  e le false certezze della modernità “solida”, centrata sulla ratio illuminista, il sistema di fabbrica e l’idea di progresso. Da allora, il mondo occidentale ha fatto il suo ingresso nella post-modernità: la stessa idea di tempo ha perso la propria profondità e ogni riferimento valoriale è andato incontro ad un’inarrestabile liquefazione. Viviamo un tempo di eterno tramonto, nel quale non si intravvedono, neppure da lontano, i bagliori dell’aurora. Tutto ristagna, gli uomini paiono rassegnati al mero destino di consumatori “consumati”, il cui “qui e ora” è marcato dalla dimensione, vuota, effimera, sempre rinviante al futuro e al nuovo, propria della merce.

Antidoto a tale “stato delle cose” è rappresentato dal pensiero di Tradizione. Lo mostra, con persuasività argomentativa, un recente volume, Il ritorno oltre il Tramonto edito dall’Arco e la Corte (per ordini: ordini@arcoelacorte.it, pp. 227, euro 17,00). L’autore, probabilmente fedele alla ricerca dell’impersonalità propria di certo tradizionalismo, ha scelto l’anonimato e si firma Il Solitario. Il volume presenta un’ampia disamina dell’età contemporanea, le cui devastanti conseguenze, sotto il profilo esistenziale e spirituale, vengono descritte in termini “forti”. Lo stile  utilizzato può, a tratti, apparire ridondante e retorico: in realtà la “prosa poetica” è  espediente appositamente utilizzato per coinvolgere il lettore, attraverso la suggestione immaginifica, in un iter che vede protagonista, in prima persona, Il Solitario. L’autore vuole indurre la “scossa della torpedine”, il “morso del serpente”, da cui, lo si evince con chiarezza, egli è stato colto, nel lettore, per ri-svegliarlo, per dargli consapevolezza che il tramonto non è il destino ultimo che ci attende.

La pretesa del volume, per esplicita ammissione, è di voler essere originario: queste pagine guardano all’origine, al principio, ipotizzando un possibile ritorno. Nel tempo del tramonto cadono le maschere: «La maschera è lì a occupare l’orizzonte. Mostra a tutti lo stesso aspetto cupo e decadente. Quello che da secoli continua a presagire la crisi assoluta». Oltre la maschera larvale della società liquida, si appalesa il nuovo soggetto della storia. L’autore lo chiama, con reminiscenza nietzschiana, il nuovo Fanciullo. Questi non: «può vivere in un mondo senza passato […] va incontro al tramonto», ne affronta le potenze perturbatrici e si spende per la costruzione: «di un ponte ben saldo per consentire l’attraversamento e, poi, un vero e proprio superamento». Lungo la via, cerca l’affinità elettiva in sodali che abbiano la forza di seguirlo, nella consapevolezza, si badi, che è comunque opportuno, date le circostanze, distanziarsi dallo sciame umano che lo circonda. Il compito è arduo: «Si tratta di un ritorno primigenio, assoluto», assai diverso dalla mistica apocalittica. Infatti: «è proprio l’inizio dell’uomo nuovo ad incutere una profonda e sottile paura». Tale affermazione induce a coniugare il pensiero di un possibile Nuovo Inizio, non in termini puramente deterministici, ma in modalità tragica: nel “ritorno” sono in gioco le sorti dell’uomo europeo.

Essenziale allo scopo, rileva l’autore, risulta essere il ribaltamento della prospettiva esistenziale contemporanea. Su di essa, le potenze dominanti l’attuale contingenza, hanno scientemente agito, attraverso: «una anodina e metallica “onnipotenza” che uccide il ricordo» dell’appartenenza dell’uomo alla physis, alla dimensione stellare del cosmo. Tale sintonia primigenia va ritrovata, riconquistata, nonostante le avverse circostanze. Bisogna porsi oltre i veleni del presente, tra essi: «la materia senza nomos, tempo e movimento senza compimento». L’uomo “semplice”, rimasto in disparte dalle folle pervase di senso comune, lontano dai baluginii del catagogico sensualismo materialista, potrà agire meglio e prima di altri, in quanto ha conservato viva in sé la luce interiore. Egli non ha messo a morte, come i contemporanei, il Padre, colui che, di fatto, realizza il tradere. La sua esistenza appartata e umbratile è ardente, può farsi fiamma e illuminare l’: «empia contesa tra larve» dell’età del ferro.  Ma, si badi, su quest’aspetto, l’autore è perentorio, oltre il Tramonto: «non può esservi un’ulteriore credo», in quanto cadute le maschere, tornerà a mostrarsi il volto effettivo del reale.

Lungo il cammino possono venire giustificati e compresi eventuali errori, giammai  l’inversione del tradere nel tradire. Affinché ciò non accada, è necessario far riferimento al delfico “Conosci te stesso”, pratica aprente all’egemonikon, all’inscalfibile cristallo di rocca interiore, al Sé. Questi garantisce la fedeltà all’origine che, di fatto, vige in noi, oltre ogni metamorfosi, come nel cielo il moto delle stelle del Grande Carro è sempre rivolto al Polo. Il Fanciullo, sintonico al gioco cosmico, realizza il ritorno sia in sé che fuori di sé. A dire dell’autore, la sua è una danza, un percorso epistrofico, scandito in più momenti. La prima fase, Per Occidentem lux, si fonda sul rifiuto di ogni sterile contemplativismo e sulla certezza che: «è tempo di superare sia la “saggezza fossile” […] sia il cieco procedere del titanico facitore di altari consacrati alla tecnica». Si tratta  di tornare all’essenza di un agire alto, che l’Europa ha conosciuto fin dai primordi. La seconda, luce del tramonto, deve consentire di rintracciare la nuova luce, qui e ora: «tra le mille sfumature di nero delle ombre» e ciò può accadere, come implica la terza fase, in forza di una decisione.

Tale percorso labirintico pretende che il Fanciullo abbia gli strumenti per decodificare i lampi rivelativi che in esso si mostrano: sono i simboli, i segnavia avrebbe detto Heidegger, della Tradizione, che consentono alla spinta anagogica del daimon, la conquista della prospettiva elevata, da cui scrutare all’orizzonte i bagliori dell’aurora, del Nuovo Inizio. Non va trascurata la pietas nei confronti degli uomini della pianura moderna: il saggio si pone, di fronte a loro, quale fiaccola nella notte, indica la strada. Lungo l’iter ci si trova davanti al bivio da cui si dipartano due sentieri: la via contemplativa della Mano Destra, e quella attiva e rischiosa della Mano Sinistra. Per chi scrive, allo stato attuale delle cose, quest’ultima, estremamente selettiva, è l’unica praticabile: conduce al superamento di credenze e fedi e alla realizzazione dell’Io sono.

Lo abbiamo fatto rilevare in più di una circostanza nei nostri scritti, il pensiero di Tradizione deve liberarsi dal necessitarismo e abbracciare una visione aperta, attiva e tragica, della storicità. In essa, l’origine non è retroflessa, è meta oltre il tramonto. Il libro che abbiamo presentato, almeno in alcuni plessi, presenta tale concezione.

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Giovanni Sessa

Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E’ segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero “Per una nuova oggettività”.