2010-2022, NACQUERO CONTADINI, MORIRONO BRIGANTI, dodici anni dopo la sua prima uscita, è da oggi nuovamente in libreria …
“… e so’ soddisfazioni” …
Nota di ristampa
Il largo consenso di lettori che “Nacquero contadini, morirono briganti”, in questi dodici anni dalla sua prima editazione, spinge oggi l’Editore a riproporne, con rinnovata veste grafica, l’ennesima ristampa: il che, da una parte – maldestro sarebbe ogni tentativo di nasconderlo – non può che vellicare il narcisismo di chi lo ha scritto, ma, d’altra parte, lo stimola anche (ed è ciò che più importa) a ulteriori riflessioni, tanto sul tema allora trattato, quando sul “modo” di trattarlo.
Il brigantaggio, soprattutto per le popolazioni meridionali che lo hanno vissuto e sofferto in prima persona, è tema assai intrigante al quale le stesse si sono avvicinate e si avvicinano con un mix contrastante di riprovazione e di ammirazione; quale però che sia stato e sia tuttora l’approccio emotivo popolare alla problematica, un dato è comune a tutte le sue analisi “dotte”: la centralità del fenomeno nell’immaginario collettivo largamente diffuso nelle terre che quel fenomeno vissero, subendolo o favorendolo. Scriveva Levi nel 1947 nel suo insuperabile Cristo si è fermato a Eboli:
«Non intendo, qui, fare un elogio del brigantaggio, come pare che sia diventato di moda, da qualche tempo, da parte di letterati estetizzanti, o di politici in malafede. Giudicato da un punto di vista storico, nel complesso del Risorgimento italiano, il brigantaggio non può essere difeso. Da un punto di vista liberale e “progressista”, quello appare l’ultimo sussulto del passato, che andava spietatamente stroncato, un movimento funesto e feroce, nemico dell’unità, della libertà e della vita civile. E lo fu realmente, nella sua realtà di guerra fomentata e alimentata dai Borboni, dalla Spagna, e dal Papa, per i loro particolari motivi. Ma il brigantaggio dei contadini è un altro: a guardarlo da quel punto di vista non solo non si può giustificarlo, ma non si riesce nemmeno a intenderlo. Del resto, quando i contadini lo giudicano e lo difendono, e quando ne parlano con tanta passione, non se ne gloriano. I suoi motivi storici, e gli interessi dei Borboni e del papa e dei feudatari, essi non li conoscono. Anche per loro, quella è una storia triste, desolata e raccapricciante. Soltanto, sta ad essi nel cuore; fa parte della loro vita, è il fondo poetico della loro fantasia, è la loro cupa, disperata, nera epopea».
Eccola qui, nella mirabile sintesi di Levi, la chiave di volta di una lettura corretta del lungo percorso del ribellismo contadino meridionale, degenerato nella violenza immediata e temporanea del brigantaggio: l’epopea “disperata” delle classi subalterne. Da qui la rappresentazione fantastica dell’immaginario popolare che ha visto nel brigante, nel ribelle, l’espressione di un certo qual riscatto sociale che le tante istanze sociali dei subalterni non sono riuscite a concretizzare; e che ne ha fatto l’eroe “terzo” al quale affidare la speranza e l’illusione di quel riscatto.
Certo il brigantaggio, come dice Levi, non è un modello da imitare ma, come suggerisce lo stesso l’autore più avanti, è sicuramente da comprendere; e comprendere non significa giustificarlo o legittimarlo, ma contestualizzarlo nella cultura, nella società e nel tempo contadino che lo hanno espresso. In altri termini l’approccio al fenomeno non può essere ideologico ma sociologico e antropologico. In una siffatta lettura è sempre Levi che ci viene in soccorso:
«[…] mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stati, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte».
Prevalentemente distante da siffatta lettura si colloca, invece, il dibattito storiografico che, soprattutto a partire del 2011 (150° anniversario dell’Unità) si è sviluppato e che vede due parti nettamente e fieramente (anche nei toni) contrapposte: da un lato coloro che vedono nella emergente pubblicistica “non ufficiale” in materia una sorta di proditorio attacco alle idealità del Risorgimento e del suo compiersi con l’annessione del Sud; dall’altro, sotto la spinta di confuse e contradditorie istanze disgregatici dell’assetto unitario, un’occasione irripetibile per rivendicare una “diversità” esasperata fino all’estraneità al quadro nazionale complessivo. Il risultato è l’arroccarsi di entrambe le parti in questione sulle proprie posizioni ideologiche di partenza, senza riuscire a trovare la possibilità di dialogare, confrontarsi ed elaborare una lettura pacata e obiettiva del fenomeno.
Le storie, paradossali ma tristemente autentiche, di questo testo vogliono, invece, essere una finestra aperta sul mondo contadino ribelle, sulla sua quotidianità; storie semplici, qualcuna delle quali può muovere anche ad un sorriso amaro. Sono storie di “ordinaria” violenza” del potere e di “straordinaria violenza contro il potere, storie che ci restituiscono l’umanità e le sofferenze delle classi subalterne.
Vogliono essere uno spaccato del tempo e del fenomeno: storie minori, che non hanno la pretesa del saggio scientifico, ma che – almeno nelle intenzioni – possono indurre a qualche riflessione su quel mondo subalterno che, nato contadino e quindi, per sua stessa intrinseca natura pacifico, si trovò, suo malgrado, a morire brigante.
Le riaffidiamo, perciò, ai lettori vecchi e nuovi, azzardando la speranza che possano contribuire a un più pacato confronto delle parti contrapposte sull’“affair brigantaggio”, un confronto sempre più lontano da quel tifo da stadio che ne ha caratterizzato il dibattito recente.