L’unità d’Italia – Guerra contadina e nascita del sottosviluppo del Sud, di Maria Rosa Cutrufelli
Parlando del sottosviluppo meridionale alcuni testi hanno finalmente cominciato a sfatare la leggenda di un Sud economicamente e socialmente arretrato già al momento dell’unificazione nazionale. Uno di questi è il libro della Cutrufelli pubblicato nel 1974. Nell’agricoltura e nell’industria non vi era differenza né qualitativa né quantitativa al Sud rispetto al nord.
Nel 1860 il processo violento dell’unificazione non ha innestato un nuovo sistema economico su uno più arretrato e inadeguato. Anzi l’unità ha avviato un processo di sviluppo diseguale, a vantaggio del nord, che è stato la vera condanna dell’ex-regno borbonico.
Ad unificazione avvenuta, la borghesia meridionale non è riuscita ad avere nel nuovo stato italiano il peso che realmente le spettava. La borghesia settentrionale ha usufruito di particolari condizioni storiche, che le hanno permesso di “usare” il Mezzogiorno come una colonia. Ai borghesi meridionali è convenuto accettare questo ruolo subalterno per salvarsi durante la guerra civile e sociale che le bande armate dei contadini meridionali hanno condotto, per oltre un decennio, contro i vecchi e i nuovi padroni.
La sconfitta nella guerra sociale contadina, scrive la Cutrufelli, è la vera sconfitta del meridione. La storiografia ufficiale ha tentato di emarginare politicamente e di minimizzare la rivolta contadina. In realtà invece il brigantaggio post-unitario fu una lunghissima guerra contadina combattuta non contro l’arretrata nobiltà terriera di origine feudale ma contro la nuova borghesia unitaria.
Il brigantaggio è stato definito dai borghesi, sia democratici che reazionari, una “piaga sociale”, un “male” che doveva essere estirpato ad ogni costo, anche con la più crudele delle repressioni. La storiografia della sinistra operaia non si discosta molto da queste tesi. E’ ora, dice la Cutrufelli, di rovesciare questi termini; “piaga sociale” non fu il brigantaggio post-unitario ma la conquista sabauda. “Triste fenomeno” non fu la guerra di resistenza dei contadini, ma la guerra di conquista e di sterminio dell’esercito savoiardo.
La ribellione armata contadina fu lotta di classe che si sposta da un terreno arretrato a un terreno rivoluzionario in senso moderno. Nel decennio che inizia dal 1860 la grande rivolta contadina ha il suo vero e principale nemico nella borghesia meridionale e insieme nella borghesia industriale del nord, anche senza averne piena coscienza. L’abolizione del feudalesimo ha conseguenze negative per l’economia contadina. Dai Comuni la terra infatti non viene quotizzata fra i contadini, come era previsto dalle leggi che aboliscono la feudalità, ma viene venduta alla nuova borghesia terriera. I contadini perdono quei diritti di cui potevano usufruire quando il suolo era di proprietà collettiva, cioè il diritto di legnatico, di pascolo ecc., i cosiddetti “usi civici”, che costituivano una delle principali fonti di reddito dei contadini, aprendo così le porte alla penetrazione dei prodotti industriali del nord nelle campagne meridionali. Questa lotta armata contadina però non aveva una guida centrale e un’ideologia, né una strategia politica a lunga scadenza, e pertanto alla fine perse.
Inizialmente in Sicilia Garibaldi, legando insieme lotta antiborbonica e rivendicazioni delle masse popolari, riesce a formare un fronte unico tra borghesia progressista e masse rurali. Ma questa alleanza, non avvenendo sulla base di reali e comuni interessi di classe, era destinata a durare poco. L’illusione garibaldina ebbe il suo epilogo a Bronte: le masse popolari furono ingannate ed il popolo convinto a consegnare le armi. Il tutto si concluse con il massacro operato da Nino Bixio.
Le industrie meridionali al momento dell’unificazione non erano meno sviluppate di quelle del nord, anzi in alcuni settori il Sud era in testa; fiorenti erano l’industria tessile, quella meccanica e quella mineraria.
Dopo il voltafaccia di Garibaldi i contadini si alleano con i Borbone, anche se questa alleanza fu sentita come strumentale dai contadini-briganti; le sollecitazioni borboniche non furono fra le principali cause della rivolta contadina. Le prime reazioni contadine si ebbero a Matera e ad Ariano Irpino; seguirono poi quelle di S. Angelo dei Lombardi, Pietradefusi, Montemiletto, Torre Le Nocelle, Bovino, Vico, Vieste, S. Giovanni Rotondo, Bitonto, Bitetto, Canosa, Oria, Rapolla, Lavello, Melfi, Venosa, S. Antimo, Avigliano, Gallo e in moltissime altre località. La grande rivolta contadina prende forza in occasione della truffa del plebiscito di annessione, tenutosi il 20 ottobre 1860; in molti paesi a causa di queste rivolte non fu possibile condurre le operazioni di voto. Repressa l’insurrezione di massa, durante l’inverno 1860-61 si prepara nei boschi dell’Italia meridionale la guerra contadina per bande. Capi di questa rivolta furono, tra gli altri, Carmine Crocco, Pasquale Romano, Luigi Alonzi, Giovanni Piccioni, Giacomo Giorgi, che ottengono tante vittorie contro l’esercito sabaudo. A questi capi-briganti si aggiungono anche diversi legittimisti stranieri, come José Borges.
A queste rivolte l’esercito piemontese rispose con la massima ferocia e con leggi eccezionali (legge Pica).
La guerra per bande durò fino al 1870, tramutandosi poi in emigrazione di massa. La borghesia troverà modo di trarre vantaggi economici anche da questa fuga forzata, con le rimesse.
Il libro si chiude con due appendici; la prima contiene una cronologia dal 1860 al 1869, canti popolari ed il verbale dell’interrogatorio di Carmine Crocco; la seconda riporta alcuni brani dell’Autobiografia di Crocco curata da Eugenio Massa. Fanno parte del libro anche 56 illustrazioni.
Rocco Biondi
Maria Rosa Cutrufelli, L’unità d’Italia. Guerra contadina e nascita del sottosviluppo del Sud, Bertani Editore, Verona 1974, pp. 286