Il nuovo libro sul brigantaggio di Antonio Bianco. Intervista all’autore
Pubblichiamo l’intervista all’autore di questo blog apparsa nei giorni scorsi sulla testata online “Mentinfuga” e realizzata dal giornalista Antonio Salvati
Furono definiti nei modi svariati: banditi, criminali comuni, partigiani, giustizieri, vendicatori sanguinari. I briganti – nell’immaginario collettivo simbolo del ribellismo e dell’identità meridionale (o della sua arretratezza) – sono stati protagonisti di sanguinosi scontri con le truppe del nuovo Stato unitario nei primi anni Sessanta del XIX secolo. Accusati di essere al soldo di coloro che sognavano il ripristino del vecchio regno di Francesco II, in realtà – come i recenti studi storiografici hanno rilevato – fecero parte di un fenomeno decisamente più articolato.
Il loro ribellismo scaturiva da diverse ragioni, in primo luogo da una rivolta contadina, espressa tanto attraverso la guerriglia delle bande quanto dalle insurrezioni di massa nei centri abitati, a causa del notevole immiserimento dei contadini meridionali. È, dunque, su questa condizione sociale, che fece da sfondo all’intero processo risorgimentale, che i Borbone e il Papato tentarono di indirizzare politicamente la reazione contadina contro lo Stato unitario, per riportare i vecchi regnanti al potere. Seppur la politica legittimista ebbe un suo spazio, la ribellione dei briganti non dipese da un’adesione delle masse meridionali alla reazione, ma al modo in cui la borghesia italiana, compresa soprattutto quella meridionale, realizzò l’unità del Paese. Con l’affermazione dei moderati i settori più avanzati della rivoluzione unitaria vennero umiliati e politicamente disarmati. Le promesse di migliori condizioni di vita, in particolar modo dei contadini, vennero inevitabilmente umiliate e tradite. Per protestare contro il nascente Stato unitario rimase come unico strumento quello delle rivolte contadine e della guerriglia di bande. Com’è noto, anche i garibaldini si misero al servizio della repressione attivata dalla politica moderata, che usò nella lotta al brigantaggio il pugno di ferro, dichiarando prima lo stato d’assedio e poi la legislazione speciale (la c.d. legge Pica) al fine di sedare le agitazioni nell’Italia meridionale. È famosa e degna di nota una considerazione di Gramsci, seppure nelle sue riflessioni manchi un ragionamento approfondito sul brigantaggio: «Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo Stato italiano ha dato il suffragio solo alla classe proprietaria, è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di “briganti”» (Antonio Gramsci, L’Ordine nuovo 1919-1920, Torino, Einaudi, 1987, pag. 422).
Possono sembrare pagine di storia molto remote, lontane dalle nostre vicende quotidiane, delle quali non è indispensabile far memoria. In realtà, ricordare è sempre una espressione di umanità, non solo un dovere storico. Ricordare è anche un segno di civiltà, nonché spesso condizione per un futuro migliore di pace e di fraternità. Ne è convinto il giornalista Antonio Bianco che su queste vicende ha recentemente pubblicato un piccolo ma denso volume, Breve storia del brigantaggio tra Puglia, Molise e Campania (1860-1864), (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2022, pagine 66, € 12,00) e che ci racconta come nel triangolo di terra compreso tra Molise, Puglia e Campania si sia consumato uno dei più sanguinosi scontri tra le truppe del nuovo Stato unitario e i cosiddetti briganti. Gli anni che vanno dal 1860 al 1864 – come suggerisce il titolo e come premette l’autore del libro, che ho incontrato ed al quale ho posto alcune domande – sono quelli in cui il fenomeno del brigantaggio ebbe la sua massima diffusione nell’area presa in esame.
Negli ultimi anni, soprattutto al sud, c’è stata una riscoperta del fenomeno del brigantaggio. Ormai c’è anche una grossa pubblicistica in merito. Come se lo spiega?
Negli ultimi anni si è riscoperto il tema del brigantaggio postunitario soprattutto grazie agli storici e studiosi locali, i quali non accontentandosi della verità ufficiale propinata dai vincitori, hanno iniziato a rispolverare i documenti d’archivio. Purtroppo, dopo la nascita del nuovo regno italiano, soprattutto la destra storica ha nascosto tutto facendo credere che i briganti, con termine dispregiativo, fossero solo dei criminali. Un modo per nascondere la verità e chiudere la pagina di una conquista violenta nel recinto dell’oblio. Ma nel tempo, grazie anche a Franco Molfese e alla sua monumentale Storia del brigantaggio dopo l’Unità, le cose sono iniziate a cambiare. Non solo, questo è stato possibile anche grazie al fatto che nella cultura orale e nell’immaginario collettivo delle popolazioni meridionali, il cosiddetto brigante ha sempre rappresentato il povero che lottava contro il ricco. E quando le cosiddette truppe piemontesi arrivarono nel Mezzogiorno d’Italia, queste vennero viste come gendarmi dei notabili locali.
A chi vuole rivolgersi con il suo nuovo libro sul brigantaggio?
La storia è memoria, diceva Jacques Le Goff. Per lo storico francese bisogna trasmettere il proprio passato ai più giovani, perché se no si rischia di privarli di mezzi per pensare in modo corretto l’attualità. Come si dice, senza passato non c’è futuro. Con il mio piccolo lavoro vorrei rivolgermi ai giovani soprattutto meridionali, fargli capire quant’è importante riscoprire la propria storia. Molti mali del sud, a mio avviso, arrivano da lì, da quel periodo storico in cui contadini e pastori irruppero sulla scena nazionale e furono protagonisti di una rivolta di massa nei confronti di un nuovo potere che non capiva le loro istanze. Non sempre i giovani si appassionano a queste tematiche, ma bisogna provarci. E come se in questi anni ci fosse stata una rottura intergenerazionale, che ha creato una frattura difficilmente da ricomporre. Oggi i giovani, ma non voglio fare il moralista di turno, sono attratti da altre cose, ma ripeto bisogna fargli capire quanto la nostra storia, soprattutto quella del sud, sia importante per riannodare i fili con il proprio passato, troppo spesso negato dalla storiografia ufficiale.
Qual erano le classi di appartenenza dei briganti?
Se si va a vedere l’età e la classe sociale di appartenenza dei cosiddetti briganti si nota immediatamente che per la maggior parte sono giovani e soprattutto contadini e pastori. A loro Garibaldi, dopo che era sbarcato a Marsala, aveva promesso la distribuzione delle terre. Terre che con l’eversione della feudalità compiuta dai francesi, molto tempo prima, all’inizio del 1800, erano finite nelle mani della nuova borghesia agraria, i cosiddetti liberali, mentre ai contadini del sud non restava che spezzarsi la schiena nel lavorare i campi dei nuovi padroni».
Quale fu la goccia che fece traboccare il vaso?
Il Sud in quel periodo viveva tra l’altro una grave crisi economica e il pane aveva visto un rincaro oneroso per le fasce popolari. Determinante fu poi l’introduzione della leva obbligatoria, che sottraeva alle famiglie meridionali, braccia fondamentali per la coltivazione dei campi, molto spesso presi, appunto, in affitto dai proprietari terrieri. Il contesto politico-sociale in cui vivono le classi meno abbienti del sud è necessario per meglio comprendere il perché parte di queste popolazioni decisero di imbracciare le armi per restaurare la monarchia di Francesco II. Il nostro compito non è qui stabilire se lo stato borbonico fosse più avanzato o meno di quello del regno di Sardegna, a guida Savoia, ma capire le ragioni profonde che spinsero migliaia di contadini a darsi alla macchia.
Dal suo lavoro si evince anche che il fenomeno del brigantaggio fu anticipato anche da lotte contadine…
Le due cose sono legate. Nel Sannio beneventano una delle prime ribellioni a questo stato di cose avvenne a Montefalcone di Valfortore. Qui nell’agosto del 1860 i contadini si riunirono nella piazza principale del paese per chiedere al sindaco del posto la spartizione delle terre. Nei giorni successivi si ebbero altri episodi simili, ma il 6 ottobre arrivarono i garibaldini a sedare definitivamente la rivolta popolare. Altre rivolte del genere successero anche in altri comuni della zona.
Nell’area da lei presa in considerazione, Puglia, Molise e Campania, quando scoppiò la rivolta brigantesca?
Bisognerà aspettare il 1861 per vedere apparire sulla scena della storia locale le prime bande di briganti. La prima in assoluto di cui si ha notizie è quella di Francesco Saverio Basile di Colle Sannita, alias Pilorusso. Soprannominato così perché aveva barba e capelli rossi. Basile era riuscito a comporre una banda a cavallo di circa 400 uomini, con la quale aveva riconquistati molti comuni del cosiddetto Alto Sannio beneventano e ristabilito il governo borbonico.
Scomparso Basile chi prese il suo posto?
Dopo il collese Basile, la cui fine resta un mistero, in queste zone opererà il famigerato colonnello Michele Caruso di Torremaggiore (Foggia), di cui il baselicese Antonio Secola divenne il luogotenente, e al quale ho dedicato una vera e propria monografia. Da questi accenni si può capire che lo scontro armato tra i cosiddetti briganti e le truppe sabaude, fu uno scontro violento, sanguinoso, senza esclusioni di colpi. Alcuni storici parlano di guerra civile, ma a mio avviso bisognerebbe parlare anche di guerra di conquista.
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