“Il filo infinito” di Paolo Rumiz

Viaggio alle radici dell’Europa. “Il filo infinito” di Paolo Rumiz
Autore: Gaël Pernettaz

È uscito a marzo 2019 presso Feltrinelli Il filo infinito, l’ultimo libro di Paolo Rumiz, scrittore giramondo. Si tratta di un racconto dei suoi viaggi nel vecchio continente con tappe sui generis: i principali monasteri benedettini che, più di mille anni fa, in un’epoca di incursioni barbariche, paure e spaesamento, hanno contribuito alla fondazione di un’unità europea, ora a grande rischio Tutto ciò grazie a una regola tanto semplice quanto rivoluzionaria: Ora et labora, prega e lavora.
Rumiz racconta di un viaggio circolare, che comincia nell’Appennino – a Norcia – e sempre lì si conclude. Nella città distrutta dal sisma, l’autore vede la sola statua del Santo, in bilico sul terreno squarciato e ha un’agnizione. Come la statua del Santo sembra posta esclusivamente a proteggere il luogo dallo sprofondare nelle viscere della Terra, così Benedetto – e dopo di lui i tanti monaci che hanno seguito la sua regola – ha aiutato l’Europa a sopravvivere in un’epoca di tumulti e divisioni, con l’accoglienza e una solida fede in Dio.

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Nasce così in lui l’idea di ripartire alla scoperta di una nuova Europa attraverso i monasteri benedettini ancora attivi oggi; luoghi fuori dal tempo, estranei alla modernità ma neppure più ancorati totalmente al passato. Il fine è quello di ritrovare il capo di un filo (metafora costante del racconto sin dal titolo)da cui ripartire ora, nel XXI secolo, cercando di imparare dal passato e dall’esempio di San Benedetto.
«Mi tornano in mente Viboldone e l’anziana monaca che fila la lana al di là di una porta socchiusa. Qui a Cîteaux il suo bianco gomitolo acquista improvvisamente un senso importante, assurge a simbolo, sembra diffondersi, moltiplicarsi, coprire con una ragnatela l’Europa intera. Il filo di lana è la perfetta rappresentazione della rete benedettina che poi si diramò nel mondo cistercense. Tanti di quei fili si sono certamente perduti, ma la paziente, testarda tessitura delle monache e dei monaci ha tenuto insieme e difeso il Continente più e meglio di cento eserciti e di un milione di trincee. Nemmeno san Francesco è stato capace di lasciare una simile impronta.»

Secondo l’autore viviamo infatti un’epoca di sconvolgimenti non molto diversa da quella in cui visse il santo italiano. Epoca caratterizzata da problemi epocali che al posto di suscitare una risposta comune e organizzata portano a spinte separatiste, le quali non fanno altro che indebolire un continente stanco che si regge in pericoloso bilico sulle macerie di due guerre mondiali e odi mai totalmente sopiti.

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Il monastero veneto di Praglia, la belga Orwal, Saint-Wandrille in Francia, sino a Pannonhalma in Ungheria, sono solo alcune delle tappe del lungo viaggio intrapreso e raccontato dall’autore alla ricerca, per contrastare i tempi grevi in cui viviamo, di una risposta più semplice di quelle riassumibili in slogan date dai politici non solo italiani ed europei, ma anche mondiali.
Il valore del libro e la bellezza delle pagine si dispiegano però, più che nel filo rosso della scoperta delle origini dell’Europa, nella descrizione dei vari monasteri e del proprio genius loci. Questi sono infatti molto diversi uno dall’altro, grazie alla grande indipendenza di cui ogni monastero gode – caratteristica rara fra gli altri ordini ecclesiastici. Dopotutto «i benedettini non sono un ordine ma un… disordine democratico» come spiega l’abate di Sankt Ottilien, Nokter Wolf, a un perplesso Rumiz.
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Così risulta subito indimenticabile ogni luogo, con un’anima sua propria. Basti pensare a Marienberg, nel Sud Tirolo, dove spira l’aria di frontiera e la vita del monastero è scandita dalla luce sulle meridiane, o Citeaux in Francia dove regna il silenzio sin quando Frédéric – un monaco «classe 1933, una laurea in ingegneria geofisica, la guerra d’Algeria alle spalle e un formidabile istinto per la musica e la battuta di spirito» – suona il pianoforte di notte, con tacito consenso dei monaci. O ancora Viboldone, l’abazia lombarda di sole donne a pochi metri dall’aeroporto di Linate, lo sbocco autostradale e le rotaie del treno; un’oasi di laboriosa pace e silenzio nel deserto della chiassosa metropoli, in cui si mostra appieno il carattere materno e dolce della religione cristiana. O Pannonhalma, piccolo bastione di accoglienza nell’Europa dell’Est in preda alle pulsioni razziste e nazionaliste.
«In un’esperienza spirituale i luoghi non hanno alcuna importanza. Contano le persone. La strada prescelta diventa secondaria, perché sono gli incontri a darti di volta in volta la direzione.»

Come i vari luoghi sono tanto differenti l’uno dall’altro, così il racconto è punteggiato da uomini memorabili, con cui Rumiz si confronta e che lo aiutano a comprendere meglio la missione che si è dato San Benedetto. Oltre al già citato Frédéric di Citeaux, fra le pagine del volume sarà facile farsi stregare e desiderare di partire a incontrare persone come Franco Lacchini – ex sessantottino innamoratosi del monastero di Viboldone e per cui ha deciso di fare la guida –, Nokter Wolf, l’abate rockettaro di Sankt Ottilien, o anche il particolare abate belga Jean-Charles Nault, autore del libro Il demone di mezzogiorno, in cui spiega come il calore sia portatore di indolenza e quindi un demone da allontanare.
Ci si ritrova in un attimo all’ultima pagina, con alle spalle un viaggio di 175 pagine, e il lettore come l’autore al termine del viaggio sentirà la nostalgia dei luoghi visitati, degli incontri fatti e ripercorrerà a ritroso il filo di questa Europa alternativa, sospesa nel tempo e nello spazio. E come lui si chiederà se il proposito iniziale – «Sono venuto a cercare Europa. Le sue radici cristiane. Chi siamo, da dove veniamo. A quale mito apparteniamo.» – sia stato raggiunto.

 

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