Cosa mangiavano gli abitanti di Cerreto

Cosa si mangiava a Cerreto tra il 1600 e il 1700

  Il 1600 e il 1700 furono i secoli memorabili per i cerretesi, in tutti i sensi. Conobbero, infatti, il benessere, con la fiorente industria dei panni lana; la distruzione, con il rovinoso terremoto del 1688 e la rinascita, con la ricostruzione armonica e ordinata del paese.

E’ vero che furono tempi di prosperità, ma bisogna precisare che c’erano comunque in paese fasce di popolazione che vivevano in povertà, relativamente poche, però, rispetto agli standard dell’epoca e della zona.

Ma cosa mangiavano gli abitanti di Cerreto in quel periodo?

Gli storici non ci riportano moltissime informazioni riguardo ai generi alimentari più consumati ma abbastanza per farcene un’idea. Ne abbiamo notizia dalle cronache dello storico Rotondi[1] in riferimento alle tasse imposte dai feudatari Carafa sui principali prodotti alimentari e sul vertiginoso aumento dei prezzi di questi durante la carestia del 1764. Altri ragguagli si possono ricavare dal resoconto di una monaca anonima scampata al terremoto del 1688 quando, insieme alle consorelle, fu trasferita a Maddaloni ospite della first lady dei Carafa. Infine, altre notizie interessanti si possono trarre dai resoconti del vescovo Baccari del 1731 riportate dallo storico Pescitelli[2].

L’alimento principale era il pane. Nella migliore delle ipotesi fatto col grano, che era quindi la merce più richiesta, ma il più delle volte ricavato dalla farina di orzo o da quella del mais.

Il grano d’India, come veniva usualmente chiamato, proveniente dalle Americhe, malgrado i pregiudizi di cui era oggetto come cibo destinato agli animali, riuscì ad affermarsi abbastanza presto, sostituendo il grano nei periodi di carestia in quanto più resistente. A differenza, ricordiamolo, di altri cibi importati da Colombo che non ebbero subito la stessa fortuna. Le patate erano considerate tossiche e, per al loro forma strana, addirittura demoniache; il pomodoro, ritenuto altrettanto nocivo, piaceva solo come pianta ornamentale. Quindi i cerretesi dell’epoca usavano il mais ma non consumavano ancora, almeno per tutto il XVII secolo, patate e pomodori.

Altri cibi utilizzati e venduti al mercato erano i fagioli, le lenticchie, le fave, i lupini, la canapa per i suoi semi commestibili, i cavoli e le verdure in generale (tranne peperoni e melanzane entrati dopo in cucina), e sappiamo che i Duchi avevano imposto una tassa anche sui meloni. Durante la ricordata grande carestia centinaia di persone erano in attesa sul sagrato della chiesa di San Gennaro per piatire una “zuppa di legumi e erbaggi”.

La pasta era molto diffusa, di certo dominavano laine e lasagne fatte in casa con farina di grano tenero, ma il Pescitelli ci dice che, tra le attività commerciali riportate nel catasto onciario del 1742, era presente, oltre a un “maestro di setacci per cernere farina”, anche un “maccaronaro” che, naturalmente, produceva maccheroni (il termine che era usato abitualmente) di grano duro, il cui formato più comune, come in tutto il meridione, di sicuro erano i vermicelli.

Alle proteine provvedevano le pecore. Tra i privilegiati cerretesi, grazie al gran numero di greggi, non scarseggiavano gli agnelli né il latte né i formaggi. I pecorai di Cerreto producevano un apprezzato formaggio che, come narra lo storico Rotondi, era soavemente piccante e sapeva di rughetta.

La citata monaca scampata al terremoto, inoltre, racconta che la Signora Carafa aveva portato loro in dono “trenta rotoli[3] di provole fresche”.

La carne, però, restava cibo per ricchi e la gente comune se la poteva permettere al massimo nei giorni di festa. Aiutavano a sopportare la sua carenza le costrizioni religiose che la bandivano nei “giorni di magro” e durante la quaresima.

Tra le varie tasse vi era quella per “ogni tommolo[4] di pesce”. Si parla di sarde e aringhe sotto sale e principalmente del baccalà. Alimento principe della tavola e principale sostituto della carne, apportava il necessario iodio all’organismo, e compensava la quasi completa mancanza di pesce fresco che, a causa della deperibilità del prodotto, non era commerciabile in luoghi distanti dal mare. I cerretesi si accontentavano delle anguille e degli altri pesci di fiume facilmente pescabile nei torrenti che la circondavano.

Soprattutto nel ‘600 venivano utilizzate in cucina molte spezie, rare e costose, ed erbe aromatiche, più facilmente reperibili, ed erano apprezzate diversi tipi di salse, infatti c’era imposta anche “per ogni barile[5] di salsume”. Erano fatte a base di frutta e di spezie conferendo ai piatti quel gusto dolce-acido molto gradito in epoca barocca.

Solo le case dei ricchi avevano delle cucine attrezzate ma tutti avevano il camino, quindi gran parte dei cibi del popolo venivano cotti con la sua fiamma, sulla sua brace e sotto la sua cenere.

Zuppe e polente prevalevano.

In quei secoli, in particolare nel ‘600, si faceva un uso spropositato di zucchero. Raro, pregiato e costoso rappresentava uno status simbol per chi se lo poteva permettere. Ancora la monachella racconta estasiata che la “Signora Viceregina ci mandò a regalare una spasa grandissima di cose sciroppate con in mezzo una corona di zucchero ben lavorata, erano cose belle a vedere” divise tra di loro, a ciascuna “toccò un mezzo rotolo di cose di zucchero”, quasi mezzo chilo a testa.

Sulla tavola dei cerretesi, infine, certamente non mancava il vino. Nel rapporto alla Santa Sede del 1733 il Vescovo, Mons. Francesco Baccari, scrive di Cerreto: “Il suo territorio è fertile mentre dà ogni anno sopra ventimila barili di vino, di cui buona porzione vende agli abitatori delle Terre convicine”.

Più di 8.700 quintali di vino all’anno. Salute!

Antonello Santagata

[1] Nicola Rotondi- Memorie storiche di Cerreto Sannita I parte 1869- Ed. Fioridizucca 2019

[2] Renato Pescitelli- Palazzi Case e famiglie cerretesi nel XVIII secolo- TETAprint 2009

[3] Un rotolo equivaleva a circa 900 grammi.

[4] Tommolo. Antica misura di peso per gli alimenti solidi, più spesso per i cereali, variabile a seconda dell’alimento stesso. Identico termine era usato come misura di superficie per i terreni.

[5] Unità di misura per liquidi, un barile equivaleva a circa 43 litri