William Shakespeare, 400 anni fa la morte del «Bardo dell’Avon»
Quattro secoli fa, il 23 aprile 1616 moriva William Shakespeare. Il “Bardo dell’Avon”, il più celebre scrittore della storia inglese, uno dei drammaturghi più importanti della storia della cultura occidentale. E quattro secoli dopo, l’Inghilterra lo celebra, lo ricorda e lo festeggia. La metropolitana di Londra gli rende omaggio ribattezzando la fermate con i nomi delle sue opere, dei personaggi e dei protagonisti nati dalla sua fantasia e entrati nella storia, da Amleto a Otello. Ma cuore delle celebrazioni è Stratford-upon-Avon: qui Shakespeare nacque, il 23 aprile 1564, e qui morì nello stesso giorno dell’anno, 52 anni dopo. Prevista una vera e propria parata celebrativa per le strade della cittadina.
Shakespeare, William
Enciclopedie on line
Shakespeare ?šèikspië?, William. – Drammaturgo e poeta inglese (Stratford-upon-Avon 1564 – ivi 1616). Terzo degli otto figli dell’agiato commerciante di pellami John (che ricoprì cariche pubbliche a Stratford durante il regno di Maria la Cattolica) e di Mary Arden, discendente da un’antica famiglia del Warwickshire. Il giorno esatto della sua nascita è dubbio: il certificato di battesimo è datato 26 aprile, ma si è voluto che la nascita risalisse a tre giorni prima per farla coincidere sia con il giorno della morte, che si sa con sicurezza avvenuta il 23 aprile di cinquantadue anni dopo, sia (quando sorse il mito di S. come bardo della nazione inglese) con la celebrazione della festa di S. Giorgio, patrono d’Inghilterra. Appena diciottenne, il 28 nov. 1582, sposò Anne Hathaway, di otto anni più anziana di lui, e nel maggio successivo nacque la figlia Susanna, mentre nel febbr. 1585 nacquero i gemelli Judith e Hamnet, quest’ultimo morto all’età di undici anni. La vita di S. negli anni successivi non è documentata, ma è probabile che trovasse impiego per qualche tempo presso famiglie della piccola nobiltà cattolica del Lancashire, e nelle loro biblioteche arricchisse la sua cultura storica e umanistica. L’unica certezza è che nel 1592 egli era già noto nell’ambiente teatrale londinese come attore e mestierante di teatro: lo testimonia il violento attacco contro di lui del poligrafo e drammaturgo R. Greene, morto il 3 settembre di quell’anno, che, in un opuscolo pubblicato postumo dall’amico Henry Chettle sotto il titolo Greene’s groatswroth of wit, bought with a million of repentance (1592), definiva S. “un corbaccio venuto dal niente, fattosi bello delle nostre penne, che, col suo cuore di tigre nascosto sotto la pelle di attore, crede di poter declamare versi sciolti meglio di tutti voi, ed essendo un assoluto Johannes factotum, si ritiene nella sua presunzione l’unico Scuoti-scena [Shakescene] nazionale”. L’attacco di Greene è involontaria riprova della reputazione raggiunta da S. non solo come attore ma anche come drammaturgo, o meglio, collaboratore alla stesura di copioni per il teatro pubblico, che a quell’epoca erano in genere messi insieme da varie persone impegnate nell’industria dello spettacolo. Infatti i pochi testi teatrali stampati in quegli anni recavano il nome delle compagnie che li avevano rappresentati, non quelli degli autori. È il caso del Titus Andronicus, pubblicato anonimo nel 1594, con la sola indicazione che era stato presentato da ben tre compagnie minori, tutte scomparse durante la pestilenza che infuriò a Londra dall’estate del 1592 a quella del 1594, provocando la chiusura di tutti i teatri. Questo periodo di inattività è lo spartiacque nella carriera teatrale di Shakespeare.Gli inizîGli inizî erano stati quelli di un qualunque aspirante attore del tempo, assunto a giornata dall’una o dall’altra compagnia in ruoli secondarî; ma ben presto egli dovette rivelare il suo talento nel contribuire alla creazione collettiva di nuovi testi drammatici o alla rielaborazione di quelli esistenti, tanto da divenire spesso il collaboratore principale alla stesura di copioni scritti a più mani. Erano nati così sia la tragedia di vendetta sul modello senechiano Titus Andronicus, sia il dramma storico in tre parti Henry VI, sul travagliato regno di Enrico VI, trasformato poi in tetralogia con l’aggiunta di Richard III, sia almeno una commedia, The taming of the shrew. Negli stessi anni collaborò sia a un dramma che avrebbe incontrato difficoltà censorie, Sir Thomas More (infatti non fu mai rappresentato, ma le tre pagine della scena riscritta da S. sono l’unico suo autografo – a parte sei firme in calce a documenti – pervenuto fino a noi), sia a un altro dramma storico, The reign of king Edward III, del quale sono certamente suoi quasi due atti. Allo scoppio della pestilenza egli aveva probabilmente completato (questa volta quasi esclusivamente in proprio) la stesura di un altro paio di commedie, The comedy of errors (sul modello plautino) e The two gentlemen of Verona (un’anticipazione di quelle commedie romantiche all’italiana che scriverà negli ultimi anni del Cinquecento), e della grande tragedia storica Richard III, e aveva forse già avviato opere che, nell’incertezza del presente, si sarebbero potute affidare ai ragazzi operanti nei teatri privati, non soggetti ai provvedimenti di chiusura dei locali pubblici; tale potrebbe essere la destinazione originaria di Love’s labour’s lost (squisita celebrazione della retorica drammatica) e A midsummer night’s dream (fusione del mondo delle fate e di quello quotidiano nella cornice di una visione cavalleresca del mondo classico), e anche della tragedia lirica Romeo and Juliet: opere che si direbbero concepite inizialmente per un pubblico attento soprattutto alle qualità formali della scrittura anche se poi, alla riapertura dei teatri pubblici, rielaborate per un uditorio meno sofisticato e più partecipe. Si noti che Love’s labour’s lost è il primo dramma a stampa di S. che rechi (nel 1598) il nome dell’autore sul frontespizio, quasi per conferirgli dignità letteraria.Opere poetichequot;Poeta di teatro”: era questa la designazione corrente dei drammaturghi nell’età elisabettiana, anche quando scrivevano in prosa – una designazione che si attaglia a S. nel suo senso pieno in quanto egli, autentico e grande poeta, fece del teatro il suo unico mestiere. È significativo che il suo nome appaia per la prima volta come autore non sul frontespizio di opere teatrali, ma su quello di due poemetti narrativi pubblicati negli anni in cui infuriava la peste: Venus and Adonis (1593, ristampato dieci volte in un ventennio) e Lucrece (1594, noto anche come The rape of Lucrece), le uniche opere la cui stampa sia stata curata personalmente da S., dedicate entrambe al suo nobile patrono Conte di Southampton, quasi per dimostrargli che il poeta di teatro non era rimasto inoperoso nella stagione morta. Benché si tratti di una rivisitazione di modelli poetici tradizionali e particolarmente in voga in quegli anni – il sensuale epillion mitologico e il compianto moralistico tratto dalla storia antica – S. li arricchisce di una nuova densità di significato, come fa del resto con tutti i generi drammatici da lui affrontati nella sua carriera. Il dono poetico di S. non consiste nell’inventare nuovi modelli nel campo del teatro come in quello della poesia, ma di trasformare dall’interno quelli esistenti, si tratti del poemetto ovidiano, della tragedia di vendetta, o classica o d’amore, della commedia plautina, di quella borghese, romantica o romanzesca, della cronaca storica o leggendaria. Al pari dei drammi, i due poemetti sono opere di carattere pubblico, sia pur rivolte al lettore colto anziché allo spettatore partecipe. Diverso è il caso di un’altra forma tradizionale di espressione poetica, il sonetto. Certamente S. aveva incominciato per tempo a comporre sonetti, e continuato fin verso il 1609, allorché un editore ne raccolse centocinquantaquattro, pubblicandoli insieme al convenzionale poemetto A lover’s complaint, sotto il nome di S. e con una dedica a un enigmatico Master W. H. È una raccolta certamente non curata dall’autore (si dubita che A lover’s complaint sia dovuto alla sua penna), ma quel che conta è la straordinaria pregnanza del linguaggio in componimenti destinati ai “suoi amici privati” (come ebbe a dire un contemporaneo dell’autore), e che tuttavia non devono essere considerati come confessioni personali: il drammaturgo S. crea il personaggio del poeta, che usa la sua arte per trasformare la convenzione del sonetto d’amore in espressione formalmente perfetta di un sentire assai più profondo e complesso. Due dei sonetti erano già apparsi in una raccolta di venti componimenti pubblicata sotto il nome di S. nel 1598-99, The passionate pilgrim (“La pellegrina [piuttosto che “il pellegrino”] appassionata”), ma almeno una decina di essi sono di altri autori, e dei rimanenti solo tre liriche tratte da Love’s labour’s lost sono sicuramente di Shakespeare. In effetti le migliori prove dello S. poeta lirico sono le canzoni, i sonetti, le sestine inserite in tanti suoi drammi, da Romeo and Juliet, As you like it, Twelfth night, fino ai tardi Cymbeline, The winter’s tale e The tempest. Questi componimenti, caratterizzati da una grande varietà metrica, costituiscono, insieme ai Sonnets, il canzoniere di S., e acquistano tanta maggior risonanza poetica dai contesti drammatici di cui sono parte integrante. A parte le numerose poesie d’occasione che gli sono state attribuite (la più plausibile è la prolissa elegia funebre per William Peter, scritta e pubblicata nel 1612 con le iniziali W.S.), il più straordinario esempio della versatilità poetica di S. è The phoenix/”>phoenix and turtle, pubblicato nel 1601 in appendice al poemetto di Robert Chester, celebrativo dell’amore coniugale, Love’s martyr: nella più misteriosa e complessa delle sue poesie S. adotta il linguaggio della scuola emergente dei poeti metafisici, soprattutto di J. Donne.Chamberlain’s MenDalle opere non drammatiche di S., in particolare i Sonnets, si è voluto ricostruire un suo profilo umano e psicologico; ma se taluni elementi – l’inclinazione omosessuale, la rivalità con un altro poeta del suo ambiente, l’ambiguo rapporto con una donna che insidiava il giovane amato – possono riflettere esperienze personali, quelle che contano sono le tappe della sua carriera di uomo di teatro, la cui vita si identifica totalmente con quella del mondo dello spettacolo. Al termine dell’epidemia di peste, nel 1594, si ha una totale riorganizzazione delle compagnie teatrali londinesi: scompaiono alcune delle più importanti del passato, come i Queen’s Men (sotto il patronato della regina) mentre accanto ai sopravvissuti Admiral’s Men – al servizio del Lord Grande Ammiraglio, gestiti dall’impresario Philip Henslowe con il grande attore Edward Alleyn – si costituiscono, attingendo i migliori elementi delle compagnie disciolte, i Chamberlain’s Men, dipendenti dal Lord Ciambellano, Henry Carey Lord Hunsdon, guidati dall’astro sorgente della nuova generazione di attori, Richard Burbage, figlio a sua volta di un altro impresario teatrale. È la grande occasione per S., che ne entra a far parte fin dalla fondazione/”>fondazione in qualità di full sharer, ossia compartecipe a quota intera, con Burbage e altri. L’impresa diviene ben presto la più temibile rivale degli Admiral’s Men di Henslowe, benché, non disponendo di un teatro proprio, fosse talora costretta a operare in locali di proprietà del rivale. La fortuna della compagnia si fonda non solo sulle doti e sull’affiatamento degli attori, ma anche sull’aver trovato in S. il fornitore ideale di copioni di successo in tutti i generi drammatici. Pochi anni dopo, nel 1598, il pedante Francis Meres (1565-1647), nel suo trattato Palladis Tamia (1598), fondato sul parallelismo fra gli autori antichi e i moderni, afferma che “come Plauto e Seneca vengono considerati i migliori per la tragedia e la commedia fra i Latini, così fra gli Inglesi Shakespeare eccelle in entrambi i generi sulla scena”, ed elenca i titoli delle sue opere: le commedie di cui si è già detto, omettendo però The taming of the shrew e aggiungendo invece The merchant of Venice e un’inesistente Love’s labour’s won, mentre fra le tragedie non sono menzionate le tre parti di Henry VI, ma a Romeo and Juliet, Titus Andronicus e Richard III si aggiungono Richard II, Henry IV e King John. L’elenco, pur approssimativo, testimonia che S., oltre ad aver assicurato alla compagnia i copioni scritti in precedenza, ne aveva via via scritti degli altri, dalla tragicommedia The merchant of Venice, che contrapponeva al mondo commerciale di Venezia quello favoloso e incantato di Belmont, all’avvio di un nuovo ciclo di storia inglese che risaliva all’indietro nel tempo rispetto alle vicende trattate nei suoi primi drammi storici. In essi aveva presentato la perdita della Francia causata dal conflitto interno (la Guerra delle Due Rose, Lancaster e York) sotto Enrico VI, l’usurpazione di Riccardo III, e l’alba della pacificazione sotto la nuova dinastia Tudor. A parte un dramma sul lontano regno di Giovanni Senzaterra che vide il primo conflitto fra lo Stato e la Chiesa di Roma (King John), il nuovo ciclo si apre con la presentazione della complessa e contraddittoria figura di Riccardo II, la cui deposizione e morte è il peccato originale dal quale scaturiranno tutti i mali futuri dell’Inghilterra, fino al riscatto operato dalle conquiste di Enrico V. A Richard II fece seguito Henry IV, e fu proprio quest’ultimo dramma, nel quale spiccava il personaggio comico e codardo di Sir John Oldcastle, compagno del giovane principe scapestrato Enrico (il futuro Enrico V), a mettere in crisi la compagnia fra il 1596 e il 1597: il suo patrono, il Lord Ciambellano, era morto nell’agosto 1596, e gli era succeduto nella carica (che esercitava un controllo sugli spettacoli pubblici) William Brooke Lord Cobham, discendente da quel Sir John Oldcastle presentato in maniera tanto irrispettosa in Henry IV. Il dramma dovette essere ritirato dalle scene, ma si cercò di salvarlo rimaneggiandolo e sostituendo anacronisticamente il nome del personaggio che aveva recato offesa con quello di un altro cavaliere codardo e indegno, che aveva fatto una breve apparizione nella prima parte di Henry VI: Sir John Falstaff. È questa l’origine casuale di una figura divenuta patrimonio dell’umanità intera. Il personaggio del grasso e maturo esponente di tante debolezze umane, dotato da S. di una carica formidabile di vitalità e simpatia, venne sviluppato al punto che non bastò un solo dramma a contenerlo: a una prima parte di Henry IV ne seguì una seconda, e più tardi S. dovette costruire intorno alla sua figura The merry wives of Windsor, l’unica commedia borghese inglese di S., basata tuttavia su spunti ricavati dalla novellistica italiana. Nel frattempo, morto Cobham nel marzo 1597, la carica di Ciambellano tornò all’erede di lord Hunsdon, George Carey, già patrono della compagnia, la quale poté così continuare la propria attività col nome di Chamberlain’s Men. I successi ottenuti con i drammi storici e le commedie romantiche (The merchant of Venice e Much ado about nothing, entrambe basate su fonti italiane, Ser Giovanni Fiorentino l’una, il Bandello l’altra), indussero la compagnia alla grande avventura di costruirsi un teatro proprio, dato che le autorità della City non permettevano l’uso della sala chiusa del Blackfriars (ricavata dal refettorio di un convento espropriato) recentemente acquisita.GlobeNell’estate del 1599 fu aperto il nuovo grande teatro Globe, che aveva per motto Totus mundus/”>mundus agit histrionem – “il mondo intero è teatro” -, e fu S. a fornire i copioni inaugurali: Henry V, la conclusione del ciclo storico, e la prima tragedia romana, Julius Caesar – storia moderna e storia antica intese come riflessioni sulla condizione del presente. Le certezze offerte dallo spazio privilegiato in cui opera la compagnia agiscono da stimolo creativo per il drammaturgo, il quale nei primi due anni del Seicento, accanto alle commedie romantiche che nei titoli stessi indicano la volontà di piacere al pubblico, As you like it (versione all’italiana del romanzo eufuistico di Th. Lodge, Rosalynde) e Twelfth night or, what you will (ispirato dalla commedia dell’accademia senese degli Intronati, Gl’ingannati), rinnova il tradizionale modello della tragedia di vendetta, creando in Hamlet, Prince of Denmark un dramma che rivoluziona la concezione stessa della funzione del teatro: non più rappresentazione di un conflitto esteriore ma di una dialettica interna. La vicenda del principe impegnato a vendicare il padre assassinato (suggerita dalla Historia danica di Saxo Grammaticus e già presentata sulla scena inglese in un dramma, il cosiddetto Ur-Hamlet, ora perduto) diviene l’occasione per condurre in un linguaggio di folgorante penetrazione un’indagine in profondità sulle motivazioni delle azioni umane; quel che conta non è l’esito finale, catastrofe o catarsi, ma il dibattito interno ai personaggi. Hamlet crea il modello dell’opera teatrale aperta, che sarà ripreso nei drammi immediatamente successivi, variamente definiti commedie nere o drammi problematici, ma che sarebbe meglio chiamare “drammi dialettici”. Ecco Troilus and Cressida, ove il Filostrato di Boccaccio, già visto da Chaucer come rilettura del mondo classico in termini di cavalleria medievale, diviene dibattito aperto sui principî di lealtà e fedeltà; ecco All’s well that ends well, in cui una novella del Decameron si offre all’esplorazione dei concetti di onore e nobiltà secondo i codici sociale, militare, sessuale e via dicendo; ecco Measure for measure, in cui la storia tradizionale del magistrato corrotto e corruttore, già trattata da G. Giraldi in una novella degli Ecatommiti e nel dramma Epitia, diviene riflessione sulle irrisolte ambiguità dell’amministrazione della giustizia, tanto umana quanto divina. Sono queste le opere che segnano i primi anni del Seicento, alla vigilia della morte della regina Elisabetta (1603), in un periodo di grande incertezza politica: la regina non aveva eredi diretti e le contese fra le fazioni aristocratiche per assicurarsi il predominio nel paese erano culminate nel 1601 nello sfortunato tentativo di ribellione del conte di Essex, che aveva coinvolto anche i Chamberlain’s Men, in quanto era stato loro richiesto di rappresentare alla vigilia della sommossa Richard II di S., per preparare gli animi alla deposizione di un sovrano. È questa la dimostrazione che il teatro, accanto al predicatore conformista o puritano, era l’unico veicolo di comunicazione di massa; d’altra parte, proprio intorno al 1600 le compagnie di ragazzi, coristi nelle chiese o allievi di colleges, stavano divenendo imprese commerciali che fornivano spettacoli in teatri chiusi per la élite intellettuale, economica e nobiliare (ne è testimonianza la scena di Hamlet in cui si deplora che questi “giovani falchetti” riducano a mal partito le compagnie dei teatri pubblici). A ciò si aggiunga la vigorosa campagna d’ispirazione puritana contro ogni forma di spettacolo condotta dalla classe borghese londinese, la cui potenza economica era in continua ascesa. La crisi dei teatri, al pari di quella politica, sembrò risolversi con un felice compromesso allorché, alla morte della regina vergine, per evitare una guerra civile, venne riconosciuto come suo successore un suo collaterale, re Giacomo VI di Scozia (figlio di quella Maria Stuarda che Elisabetta aveva fatto decapitare), che divenne così Giacomo I re d’Inghilterra e di Scozia.King’s MenUno dei primi atti del nuovo sovrano fu di prendere sotto la sua protezione la compagnia dei Chamberlain’s Men, che divennero così King’s Men – gli attori del re. Gli anni fra il 1603 e il 1608 sono quelli delle grandi tragedie shakespeariane. Anzitutto Othello, the Moor of Venice, ove la sordida vicenda del capitano moro che, istigato da un falso amico bianco, uccide la sua innocente sposa veneziana – narrata in un’altra novella degli Ecatommiti di Giraldi – si trasforma, grazie alla ricchezza di un linguaggio fondato sulla figura del paradosso, in rappresentazione del rapporto fra etnie e civiltà diverse. Alla storia leggendaria delle isole britanniche, evocata nelle pagine di R. Holinshed, alle quali S. aveva ampiamente attinto nei precedenti cicli di storia inglese, si rifanno le due grandi tragedie successive. King Lear è concepito come una gigantesca metafora della condizione umana, tanto che per la prima volta in una tragedia S. affianca alla vicenda principale di Lear e delle sue tre figlie la vicenda a specchio di Gloucester e dei suoi due figli, tratta non più da Holinshed (o dal dramma anonimo a lieto fine sullo stesso argomento, The true chronicle history of King Leir, che egli intendeva rifare in altra chiave), ma dal grande romanzo di Sir Ph. Sidney, Arcadia. Dopo questa suprema esperienza di un universo diviso che offre come unico rifugio antiche favole, Macbeth risale alle origini leggendarie della nuova dinastia Stuart regnante in Inghilterra, presentando visivamente nelle streghe le forze del male operanti in ogni uomo. Il brutto è bello e il bello è brutto: l’antitesi è la chiave di lettura dei personaggi di Macbeth e di Lady Macbeth, mentre quando S. si rivolge dalle cronache di Holinshed alle vite parallele di Plutarco (come aveva fatto nel Julius Caesar), i suoi nuovi drammi saranno governati dall’iperbole e dall’elemento corale, a testimonianza dell’ingannevole passata grandezza della romanità. In Antony and Cleopatra riemerge il tema del contrasto fra due civiltà, come nell’altra tragedia di amore adulto, Othello, ma è proiettato su uno sfondo che coinvolge tutto il mondo noto: la zingara, l’africana Cleopatra, sceglierà, come Otello, una morte romana, il suicidio. Coriolanus, in cui alla coralità si oppone l’orgogliosa solitudine di un singolo, è la tragedia della mancanza di senso politico che non permette all’uomo di integrarsi nella comunità. Altrettanto isolato è il protagonista di Timon of Athens, il misantropo, archetipo rinascimentale ricavato da una pagina di Plutarco, che s’impone come figura michelangiolesca, sbozzata e non finita al modo dei Prigioni, nel più enigmatico dei drammi di Shakespeare. Di esso non si conoscono data e destinazione, e non si sa neppure se il testo, alla cui stesura secondo alcuni avrebbe collaborato T. Middleton, sia completo o sia mai stato rappresentato. Ciò è comprensibile in quanto nel 1608 il mondo teatrale dovette affrontare una grave crisi: il predominio della componente puritana nella borghesia londinese sottraeva ai teatri pubblici l’elemento base del loro uditorio, e per giunta una nuova epidemia di peste provocò per qualche mese la loro chiusura. È per questo che i King’s Men, approfittando anche del fatto che le compagnie di ragazzi che occupavano i teatri privati nella City ne erano state espulse a causa degli attacchi contro il sovrano e la corte contenuti nel loro repertorio, rientrarono in possesso della sala coperta del Blackfriars e furono autorizzati a utilizzarla per le loro recite. Pur conservando il glorioso Globe, dal 1608 in poi i King’s Men lo impiegarono quasi soltanto nei mesi estivi, trasferendo il grosso della loro attività al Blackfriars.BlackfriarsIn base a documenti che lo vedono ormai più attivo nella città natale anziché a Londra, si ritiene che intorno a quella data S., pur rimanendo uno dei principali gestori della compagnia, si ritirasse a Stratford, da dove seguitava a fornire copioni ai suoi compagni. Copioni che, a questo punto, dovevano soddisfare non solo e non principalmente le esigenze del pubblico tanto composito del Globe, ma anche e soprattutto di quello più sofisticato del Blackfriars. In seguito alla crisi delle compagnie di ragazzi, i drammaturghi più giovani, che si erano affermati fornendo loro copioni, offrivano i loro servigi alle compagnie di adulti che ne avevano rilevato i teatri, e il genere più in voga presso di loro era quello variamente designato “tragicommedia” o “pastorale”, o “dramma romanzesco” (romance). Al nuovo gusto si adegua S., ma in maniera del tutto originale, trasformando il genere dall’interno e arricchendolo di significati simbolici, che stabiliscono la continuità fra queste opere, i drammi dialettici e le grandi tragedie dei primi anni del secolo. I drammi romanzeschi di S., in cui l’errore iniziale del protagonista provoca la perdita della sposa, della figlia, del regno, per condurre al ricongiungimento finale attraverso i motivi della musica, della tempesta, del soprannaturale o del magico, sono le “antiche favole” che Lear si era ripromesso di narrare alla figlia Cordelia in carcere per raggiungere la condizione di “spia della divinità”. Le protagoniste femminili hanno nomi allusivi, Marina, Innogen, Perdita, Miranda, e si muovono in dimensioni spazio-temporali indefinite, in cui intervengono, ad operare prodigi, divinità pagane: Diana o Giove, Apollo o Giunone e le Arpie. Il primo di essi, Pericles, Prince of Tyre, presenta come narratore delle avventurose vicende il poeta J. Gower, contemporaneo di Chaucer, che le aveva raccontate in una novella in versi della sua Confessio amantis; si sospetta che al dramma, non compreso nella raccolta secentesca delle opere di S. e pervenuto in forma assai scorretta, possa aver collaborato G. Wilkins, che ne fornì una versione in forma di romanzo. Cymbeline, King of Britain, fonde insieme un episodio di leggendaria storia inglese all’epoca dell’invasione romana e una vicenda borghese che ha la sua origine lontana nella novella di Bernabò da Genova e Ambrogiuolo nel Decameron. Come i due drammi precedenti, anche The winter’s tale (tratto dal romanzo Pandosto di quel Greene che venti anni prima aveva accusato S. di plagio) è la storia della perdita della sposa (e della figlia) da parte del protagonista, e del ricongiungimento finale – una sorta di redenzione che non esclude però la presenza di inquietanti zone d’ombra. Tale è anche il tema di quel capolavoro di perfezione formale, nel pieno rispetto delle unità di tempo, di luogo e d’azione, che è The tempest, un’invenzione shakespeariana fondata su spunti tratti dalle relazioni dei viaggi alla scoperta del Nuovo Mondo, ove il mago Prospero dà l’addio alla sua arte. Compendio della tematica di tutto il suo teatro, The tempest si offre a un’infinita varietà di interpretazioni. Un ritorno al mondo classico rivisitato in chiave di romanzo cavalleresco è la storia di Palamone e Arcite, tratta dal poema Teseide, di Boccaccio, filtrato attraverso il Knight’s tale di Chaucer, che S. scrisse nel 1613 in collaborazione con un giovane esperto nel genere romanzesco, J. Fletcher, col titolo The two noble/”>noble kinsmen, e che fu pubblicato solo venti anni dopo. E fu quasi certamente con lo stesso Fletcher che S. collaborò per il suo ultimo inatteso ritorno al dramma storico, Henry VIII (o All is true), la cui sorte appare emblematica: durante una delle sue prime rappresentazioni nel teatro Globe, il 29 giugno 1613, a causa di una salve di artiglieria che faceva parte degli effetti scenici, il teatro s’incendiò e andò completamente distrutto. La scomparsa del suo teatro, per l’attore e drammaturgo già ritiratosi dalle scene, è il preludio alla fine della vita. S. muore a Stratford il 23 apr. 1616. Il testamento, firmato con mano incerta un mese prima, dispone il lascito di anelli-ricordo a R. Burbage, che aveva fatto vivere sulla scena i grandi monarchi dei drammi storici, e Amleto, Otello, Lear, Macbeth, Antonio, Coriolano e infine Prospero; e agli attori J. Heminge e H. Condell.Il testoA questi ultimi spettò il compito di erigere il monumento più duraturo al compagno scomparso, raccogliendo nel 1623 in un unico volume in-folio (il formato della Bibbia) Mr. William Shakespeares comedies, histories & tragedies, ossia tutti i copioni che seppero recuperare, benché qualcuno sfuggisse alle loro ricerche (Edward III, Pericles, Two noble kinsmen) e quasi tutti fossero ben lontani dall’essere presentati (come affermano i curatori nell’introduzione) “così come egli li aveva concepiti”. Si tratta infatti nel migliore dei casi di brutte copie di mano dell’autore che avevano poi subito radicali revisioni per l’uso sulla scena, o di trascrizioni fatte da un copista con criterî personali per conto di gentiluomini appassionati di teatro, ma più spesso di riproduzioni di precedenti edizioni di singoli drammi in veste di opuscolo (formato in-quarto), spesso molto scorrette, quando non addirittura compilate abusivamente da spettatori con l’aiuto di attori infedeli (i cosiddetti bad quartos, fra cui le prime edizioni di Romeo and Juliet, Henry V, The merry wives of Windsor). Le compagnie non consentivano la stampa dei copioni usati a teatro, in quanto erano in copia unica, e gli editori dovevano accontentarsi di testi recuperati avventurosamente e spesso disonestamente. Del resto alla morte di S. solo quattordici suoi drammi erano apparsi a stampa, e certamente egli non li aveva curati di persona. Dopo secoli di lavoro inteso a stabilire con i mezzi più sofisticati della ricerca filologica il testo dei drammi di S. “secondo le intenzioni dell’autore”, si riconosce ormai che un testo “definitivo” non può esistere: da autentico uomo di teatro egli sapeva che il copione che egli forniva ai suoi compagni attori era solo un pretesto per un’azione scenica destinata a mutare di sera in sera. Perciò abbiamo versioni marcatamente diverse fra loro di Hamlet, di Othello, di King Lear, di Troilus and Cressida, in cui i cambiamenti sono dovuti in parte a decisioni dell’autore stesso. La sua grandezza sta nell’aver saputo trasformare in poesia la consapevolezza dell’impermanenza della parola teatrale di cui era maestro.