Via Maqueda, la strage dimenticata

Via Maqueda, 19 ottobre 1944 i misteri della strage dimenticata

Anniversario numero 59 per la Strage del pane, quella che ormai passerà alla storia come «la prima grande tragedia siciliana dell’ Italia liberata» (la definizione è dello storico Francesco Renda). Tutto si svolse nel giro di trenta lunghi secondi nella via Maqueda di Palermo, esattamente davanti Palazzo Comitini, in quel piovigginoso e freddo giovedì del 19 ottobre 1944. Una spontanea manifestazione di popolo veniva brutalmente repressa con bombe a mano e moschetti. Una strage dal bilancio terribile: 24 morti e 158 feriti. L’ eccidio, per ferocia e crudeltà, ha pochissimi precedenti nei circa 150 anni di vita unitaria italiana. Inutile provare a trovarne qualche degno cenno nei libri di storia, nei programmi scolastici o negli archivi, anche fotografici, sia italiani che americani.

Nulla, assolutamente nulla. Le inchieste istituzionali e le ricerche storiche sono pressoché inesistenti. La consegna del silenzio (saltuariamente interrotta negli ultimi trent’ anni da un drappello di giornalisti e di parenti delle vittime mossi dal desiderio di capire e far luce) si è drasticamente imposta per impedire di scovare mandanti occulti e verità. A differenza di tanti altri gravi fatti di sangue, che sono ben vivi nelle menti e nei cuori dei siciliani, si è voluto stendere un velo non tanto pietoso sull’ accaduto, per dimenticare, portando così a compimento un’ operazione di rimozione della memoria ben presto avviata con tiepide, pilotate indagini di funzionari accomodanti e da un processo-farsa. Eppure a mezzogiorno di quel giovedì dal cielo plumbeo sul selciato di via Maqueda, via Divisi e vicolo Sant’ Orsola caddero i corpi senza vita di uomini, donne e bambini innocenti. I cui nomi, dopo cinquant’ anni, sono stati scolpiti nella lapide che l’ amministrazione provinciale ha voluto fare collocare nell’ atrio di Palazzo Comitini.

Prima di descrivere cosa avvenne veramente è necessario fare un piccolo passo a ritroso. I palermitani erano sopravvissuti all’ inverno del 1943 grazie alla decisione delle forze alleate anglo-americane, che occupavano l’ Isola, di mantenere i livelli minimi di approvvigionamento alimentare. Ma nel febbraio del 1944, quando l’ amministrazione civile della Sicilia passò dal governo d’ occupazione alleato al governo italiano, la situazione peggiorò improvvisamente. A Palermo, tra fame e carovita, la tensione era alle stelle e il malcontento serpeggiava tra la popolazione vittima del fiorente mercato nero. Erano anche gli anni in cui Salvatore Giuliano si dava alla latitanza e il banditismo cominciava a espandersi. Il movimento separatista, pieno di rancore contro chi aveva tradito i siciliani, metteva le prime radici sotto la guida di Andrea Finocchiaro Aprile che teorizzava la separazione della Sicilia dall’ odiata Italia per farne uno «Stato americano». Le privazioni di ogni tipo trovavano sfogo in cortei di protesta davanti ai palazzi municipali e governativi e non diversamente avvenne nella mattinata di quel 19 ottobre. I dipendenti comunali avevano proclamato lo sciopero per chiedere l’ estensione anche a loro degli aumenti economici che il governo centrale aveva riconosciuto agli impiegati statali. Un corteo si mosse da piazza Pretoria per dirigersi verso Palazzo Comitini, allora sede della prefettura, affinché una delegazione fosse ricevuta dal prefetto Paolo D’ Antoni e dell’ alto commissario per la Sicilia Salvatore Aldisio, già ministro dell’ Interno. Gli scioperanti a gran voce chiedevano salari adeguati ma soprattutto «pane e pasta per tutti». I più riottosi brandivano randelli e pezzi di legno. Nulla di più. La folla si ritrovò ammassata davanti alla prefettura che era presidiata da una trentina tra carabinieri e agenti di pubblica sicurezza. I balconi del palazzo del governo furono chiusi ermeticamente e il possente portone d’ ingresso sbarrato. Quando i manifestanti appresero che non erano presenti né il prefetto, né l’ alto commissario gli animi si esagitarono. Alcuni facinorosi presero a battere con pietre e legni le saracinesche dei negozi chiusi, provocando forti boati. Invano gli scioperanti chiesero di essere ricevuti da colui che in quel frangente costituiva la più alta carica governativa in città, il vice prefetto Giuseppe Pampillonia. Questi prese una grave decisione rivelatasi poi sbagliata e affrettata. Invece di tentare di sedare gli animi ritenne opportuno, con la fretta dei deboli, telefonare al comando militare della Sicilia (il comandante era quel generale Giuseppe Castellano che firmò l’ armistizio dell’ 8 settembre a Cassibile) e chiedere un congruo contingente di soldati. La richiesta fu prontamente accolta dai militari che, a quanto pare, erano stati allertati fin dalle prime ore del mattino. Dalla caserma Ciro Scianna di corso Calatafimi i soldati del 139esimo fanteria (quasi tutti sardi) vengono fatti partire alla volta di via Maqueda su due camion al comando del giovanissimo sottotenente Calogero Lo Sardo di Canicattì. Ai circa cinquanta soldati, armati con fucile modello ’91 comprensivo di due pacchetti di cartucce, furono consegnate a testa due bombe a mano. Mentre i soldati arrivavano all’ altezza dei Quattro Canti furono lanciati sassi e qualche latta. La cosa probabilmente preoccupò più di quanto era necessario. è sicuro che non c’ erano armi in mano alla folla. Questa non trascurabile circostanza tuttavia non impedì ai militari, una volta arrivati sul posto, di aprire il fuoco contro la gente disarmata ubbidendo a un ordine spietato, forse premeditato. «Certo è – ricorda il sardo Giovanni Pala, uno di quei fanti che già nel 1995 fece alcune importanti rivelazioni al giornalista Giorgio Frasca Polara – che quando arrivammo vidi perfettamente che non era in corso alcun assalto. Quando la nostra colonna raggiunse alle spalle la folla il tenente Lo Sardo diede ordine di scendere dai mezzi e di caricare i fucili. Tutto accadde in pochi istanti. I soldati che erano in testa al convoglio cominciarono a sparare ad altezza d’ uomo e a scagliare le bombe. Fu il terrore. La gente scappava da tutte le parti lasciando sulla strada morti e feriti. Una scena bestiale». Chi ordinò di sparare applicò alla lettera la famigerata circolare, datata luglio 1943, del generale Roatta che autorizzava, in presenza di adunate sediziose, a sparare ad altezza d’ uomo. Quello che è più grave è che nell’ agosto del 1944 si ribadì la validità della circolare con provvedimento del generale Orlando, ministro per la Guerra del governo di concentrazione nazionale allora in carica e presieduto da Bonomi. Uno sterminio, dunque.

Voluto da chi? Ecco il nocciolo della questione. Intanto la testimonianza, sebbene tardiva, dell’ ex soldato Pala ha fatto emergere una prima verità. Precisa, chiara e inequivocabile. I soldati spararono deliberatamente eseguendo un ordine. La circostanza non fu presa nemmeno in considerazione dal tribunale militare di Taranto che in tutta fretta giudicò, senza praticamente condannarli, i pochi fanti mandati alla sbarra. Ci furono responsabilità politiche? Le forze militari alleate erano al corrente di ciò che stava per succedere? Il governo di allora si sforzò, senza riuscirci, di far cadere la responsabilità dei disordini sui separatisti. Si ritenne che quello non fosse un corteo spontaneo ma una camuffata e provocatoria manifestazione separatista, da stroncare esemplarmente per non perdere la faccia con gli Alleati e per dimostrare che il vento era cambiato. I partiti antifascisti e repubblicani parlarono, invece, di «piombo sabaudo» riversando tutta la colpa dell’ accaduto sui monarchici e sui «generali di casa Savoia». L’ accusa fu riportata integralmente nei manifesti a lutto che furono affissi per le vie cittadine. Di contro i monarchici insistettero sulle responsabilità dei separatisti. E i banditi-mafiosi datisi alla macchia che ruolo hanno avuto? Visto che trafficavano con il grano e con il mercato nero da che parte stavano? Infine non risulta ancora chiarito perché le autorità civili si preoccuparono, in maniera più che sospetta, di mettere tutto a tacere accettando persino i tagli apportati dalla censura militare alleata alla cronaca degli incidenti che i pochi giornali liberi avrebbero voluto pubblicare integralmente. Curiosamente fu autorizzata soltanto la pubblicazione, sul Giornale di Sicilia del 20 ottobre 1944, del manifesto a firma del Partito d’ Azione, del Pci, della Dc, del partito della Democrazia del lavoro, del Pli e del Partito socialista nel quale veniva sottolineata la gravità dei fatti affermando che «come vogliamo che nelle masse si accresca la coscienza di popolo civile così esigiamo che la vita dei cittadini sia a tutti sacra».

Poi, invece, l’ orrore di quel giorno cadde nel dimenticatoio. Fare luce sulla Strage del pane potrebbe anche aiutare a comprendere meglio ciò che avvenne in Sicilia dopo lo sbarco anglo-americano e fino al 1950. C’ è qualche uomo di buona volontà disposto a chiedere l’ apertura di cassetti italiani e americani (è vero che il console generale americano di allora, Alfred Nester, il 23 ottobre 1944 fece un dettagliato rapporto sui fatti al segretario di Stato a Washington?) dove, presumibilmente, giacciono carte di un certo interesse? Nell’ attesa è bene ricordare per non dimenticare.
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