Piccolo il formato, ma il contenuto è densissimo, estremamente interessante e approfondito: quattro scambi di lettere tratti dall’epistolario di Gaetano Salvemini. Documenti preziosi per restituirci a tutto tondo non soltanto una figura di primo piano come quella del grande molfettese (pur con tutte le mie riserve di cui dirò alla fine) ma anche per gettare luce sul suo ambiente, sulla sua epoca con i suoi altri grandi protagonisti.
Perché sia accessibile al pubblico, è indispensabile che un epistolario sia analizzato, esaminato e accompagnato da uno studioso non solo competente ed esperto, ma che sia anche in grado di presentare con precisione le lettere via via citate, svelandone i motivi, i retroscena, gli stati d’animo di chi le ha scritte, e molto spesso anche il non detto. In questo, direi che il lavoro di Valentino Romano è stato a dir poco magistrale: lo stile è agile, puntuale, la sua voce non si sovrappone mai a quella di Salvemini e dei suoi interlocutori ma stuzzica costantemente l’interesse e coi suoi approfondimenti rende avvincente la lettura.
Gli epistolari presi in considerazione in questo primo volume (altri ne verranno a breve) sono quattro: il primo è anche il più lungo, la corrispondenza di Salvemini col suo maestro Pasquale Villari, e documenta la pubblicazione a dir poco travagliata della sua opera maggiore dedicata alla rivoluzione francese. Il secondo è uno scambio di lettere con il grande meridionalista Giustino Fortunato a proposito del brigantaggio (e qui Romano svela il retroscena particolarmente drammatico sotteso alle risposte di Fortunato). Il terzo vede per protagonista ancora Giustino Fortunato che si ritenne vittima di una battutaccia del Salvemini indirizzata contro Giolitti alla Camera dei Deputati. Un’amicizia che stava per naufragare fu salvata all’ultimo minuto da un vero colpo di scena di cui ovviamente qui si tace. E infine, il breve scambio con un lettore della Gazzetta del Mezzogiorno, indignato per l’attacco del quotidiano barese contro le impietose critiche salveminiane alla piccola borghesia scolastico-impiegatizia del Meridione, che Salvemini definì sprezzantemente, parafrasando Marx, “sottoproletariato intellettuale”.
In tutti e quattro gli scambi citati emerge il carattere brusco e granitico di Salvemini, la sua dirittura morale, l’assoluta indisponibilità ai compromessi e alle “cordate” universitarie anche quando avrebbero potuto arrecargli vantaggi di carriera, la scrupolosità dello studioso di razza che non si accontenta del sentito dire ma va direttamente alle fonti, il rigore del meridionalista vero che non sa che farsene dei lamenti e delle pie intenzioni ma va al dunque, a quello che si è effettivamente realizzato.
Fin qui l’eccellente studio di Valentino Romano; ora permettetemi di esporre alcune mie idee su Salvemini, e sul modo in cui questo libro le ha in parte cambiate.
Com’è noto, Salvemini aveva una formazione rigidamente socialista e laicista, anticlericale e mangiapreti fino al midollo. Ma fu un avversario feroce della Chiesa, al limite della faziosità, blindato com’era nella sua “superiorità” intellettuale e nella sua specchiata onestà. Qui sarebbe il caso di citare Péguy (anche lui partito dal socialismo anticlericale) quando scrisse che proprio le anime “oneste” sono quelle più impermeabili alla Grazia, che anzi rifiutano con disprezzo (Camus è un caso da manuale). Per questo, non ho mai condiviso le lodi sperticate di Mons. Bello a Salvemini, e proprio per le parole di quest’ultimo che andavano direttamente contro il cuore stesso della fede cristiana. A differenza di un laico come Thomas Mann, Salvemini non ha mai voluto ammettere che la religione, e il cristianesimo in particolare, fosse un baluardo contro il totalitarismo ateo, che consegna – quello sì! – l’uomo indifeso alla mercé dello stato o del partito.
Ciò detto, aver visto per così dire Salvemini in azione grazie a questo libro mi ha restituito un salutare rispetto nei suoi confronti, specialmente per la sua acribia di studioso.
Un unico appunto al libro: la copertina, a mio avviso, è troppo scura (più scura al vero che nella foto), così che l’immagine si vede poco e il titolo è un po’ faticoso da leggere.
Giovanni Romano