Napoletani e allo stesso autore, firma di punta del “giornale del Chiatamone”, sede lasciata per sempre in una colpevole indifferenza quel 13 settembre del 2018) al Banco delle Due Sicilie e poi di Napoli (origini cinquecentesche, svolta settecentesca con Ferdinando IV che la trasformò in “cuore pulsante della nazione” attraverso i -documentatissimi- saccheggi garibaldini e unitari fino ai misteri delle ultime gestioni e delle dismissioni con nomi e cognomi dei “colpevoli”). Dalla fabbrica di Bagnoli (voluta da Nitti con una nascita e una fine che segnarono in vari sensi la storia della città sia in positivo che in negativo) alle rivolte del 1647 con Masaniello (“viva il re e la Madonna del Carmine, muoia il mal governo”) e del 1799 con l’eroismo di quei lazzari esaltati dagli stessi nemici francesi. A questo proposito si aprono delle possibilità di dibattito interessanti. Se è vero che quei lazzari diedero luogo a diversi eccessi (si trattava di una guerra sanguinosa e per giunta difensiva di fronte ad una invasione), può essere complicato trovare dei legami che li uniscano agli artefici delle “lazzarie” di oggi e distinguerli magari dagli operai seri e impeccabili dell’Italsider dei nostri tempi: sono proprio i secondi a dimostrarci che -secondo il nostro parere- se ai Napoletani offriamo occasioni e speranze non hanno bisogno di diventare lazzari ed era questo, del resto il progetto dello stesso Nitti con la finalità di dimostrare che a Napoli non esistono napoletani “pigri e indolenti”, come la retorica nazionale spesso sosteneva (e sostiene). La sensazione (personale) è che spesso, invece, la città “borghese” o “alta”, rispetto a quella “lazzara” o “bassa”, si sia chiusa nei propri palazzi facendo scelte non distanti da quella che sentiva come città “altra” ma “contro” quella città e penso ai tanti quartieri totalmente abbandonati dai governi locali e centrali senza quelle occasioni e quelle speranze che (a meno che non ci sentiamo dei neo-lombrosiani) in quelle occasioni e in quelle speranze potrebbero trovare (e troverebbero, com’è capitato qualche volta nella nostra lunga storia) un riscatto vero.
E il fatto stesso che io stesso stia parlando di questi temi dopo la lettura del libro di Di Fiore dimostra come questo libro sia “vivo”, attuale e utile. A questo proposito altri spunti riferibili a oggi li ritroviamo proprio nella storia del Mattino: così leggiamo la storia dei processi subiti dal poeta Ferdinando Russo, colpevole di aver ricordato con nostalgia i Borbone (“Ah mannaggia Calibarde! Francischiello, Francischiè!”) e potremmo dire colpevole di eccesso di “napoletanità”; così leggiamo la storia delle polemiche tra il direttore Scarfoglio e Saredo, autore di una relazione nella quale avrebbe “infangato e disonorato Napoli” criminalizzandola come una città senza speranza (e pensiamo ai tanti e recenti esempi del cosiddetto “sputtanapoli” operato dai media nazionali). A Saredo si oppose anche lo stesso Nitti che “si mise d’impegno e scrisse in maniera serrata, tra il settembre e l’ottobre del 1901” un testo nel quale diceva in pratica “basta con il luogo comune dei napoletani parassiti, basta con l’idea che in quella città non ci fosse spazio per imprese e operai. L’esempio di Pietrarsa era ancora vivo” (e Di Fiore racconta della prima fabbrica metalmeccanica italiana la storia e l’evoluzione dalle origini, con Ferdinando II di Borbone, al massacro degli operai nel 1863 e fino alle vicende più recenti). “E se c’era una cosa che irritava Nitti era il pregiudizio, diffuso soprattutto al Nord, sull’indolenza meridionale”. In questo senso Di Fiore ci fornisce un altro spunto interessante: forse l’idea della “napoletaneria” nasce altrove e nasce per interessi di una certa parte dell’Italia o di Napoli (complice e colpevole quanto la prima) proprio per auto-assolversi e continuare a mantenere le sue posizioni di privilegio rispetto alla Napoli “altra”. E il viaggio continua, però, con altri incontri: San Gennaro (“uno di famiglia, uno di casa”), le domeniche filosofiche a casa di don Benedetto Croce, passando per Roberto d’Angiò o Di Giacomo, Bovio, Compagnone, Ortese, Prisco, Rea, Malaparte, Ortese o all’Eduardo del “fuitevenne”, con Pino Daniele, per carattere e personalità, un caso-limite tra quei Napoletani che nel corso dei secoli hanno preferito lasciare la città della quale comunque sono vissuti (con l’eccezione dei tanti che avrebbero voluto viverci ma non hanno potuto farlo).
Tutti testimoni di una “napoletanità” a loro modo autentica, amata e odiata (“maledetta napoletanità”, chiude Di Fiore) ma con la quale tutti facciamo o faremo i conti e che, ci piaccia o no, ci accompagna quotidianamente nelle nostre vite a Napoli o “da lontano”… magari sfogliando le pagine di questo libro che fornisce un contributo importante ad un dibattito che (ne siamo sicuri) non smetterà mai di appassionare e di coinvolgere chi a qualsiasi titolo o in qualsiasi modo ha a che fare con questa città.
Gennaro De Crescenzo