Strage di Cervinara e Montesarchio
Il 29 e il 30 novembre del 1860 gli abitanti di Cervinara insorsero contro il governo piemontese, dando inizio al brigantaggio post-unitario del Partenio e della Valle Caudina. Ma Cervinara era già nota alle forze dell’ordine per i fatti seguiti al 1848.
La stessa insurrezione napoletana del 15 maggio era stata organizzata a Cervinara da Nicola Nisco di San Giorgio del Sannio. L’agitazione in Valle Caudina aveva assunto l’aspetto di una rivendicazione, portando ad un nuovo tentativo di appropriazione delle terre quel 10 settembre, fomentato – scrive Cioffi – da elementi borghesi al grido di “Viva il comunismo, Viva la repubblica, ci dobbiamo dividere le robe altrui, Vogliamo dividerci i terreni”, accompagnato da colpi di fucile. Protagonisti ne erano i fratelli Verna, Pasquale Del Balzo, Giovanni Gallo, Alessio Vaccariello, Crescenzo Taddeo, Giuseppe Perone, Nicola Capparelli e Francesco De Marco.
L’elezione di Bernardo De Bellis a capo provvisorio della locale Guardia Nazionale – ci ricorda Vincenzo Cioffi – aveva già provocato un aspro conflitto che il comandante della Polizia, Giovanni Sbordone, non aveva esitato a definire “guerra civile” nel rapporto del 9 aprile 1849. Tutti elementi che sarebbero risultati scintille per il brigantaggio. Si cominciò con le piccole bande capeggiate da Andrea De Masi di Buccino, più noto come Miseria, e quelle dei fratelli Giovanni e Tommaso Romano di Limatola, fino alla grande ammucchiata di decine e decine di uomini e donne che andarono ad ingrossare le file dell’esercito fuorilegge di Cipriano La Gala, il feroce criminale di Nola evaso dal carcere di Castellammare insieme al fratello Giona e ad altri detenuti, che contava oltre 500 seguaci.
Ci è nota l’insurrezione di Cervinara del 29 novembre 1860, che ebbe per premessa la rivalità tra alcune famiglie di possidenti – ricorda Cioffi – fra i quali i quattro fratelli Giuseppe, Donato, Luigi ed Angelo Doria che complottarono con Giovanni Sacco, Angelo Romano, Giuseppe Cioffi e Tommaso Taddeo per vedersi riconosciuta la “patente” di nobiltà. Il 29 novembre, capitanata dal sarto Domenico Cioffi e dai pastori Elia e Felice Taddeo, “un’orda di contadini si gittò in paese”, dirigendosi verso la sede della Guardia Nazionale. L’intervento delle truppe garibaldine verso sera, aveva già fatto prendere la via dei monti ai promotori della rivolta. Non erano mancati i primi morti innocenti e 40 furono gli arrestati. In meno di un anno le comitive brigantesche erano cresciute in numero ed aggressività, saccheggiando di tanto in tanto i paesi a valle del Partenio.
I briganti erano soliti mandare un “biglietto di richiesta” ai galantuomini dei paesi della zona per avere armi, cibo e denaro. Pena: rapimenti, orecchie mozzate, gambizzazioni, uccisioni. Chiaramente chi spediva da mangiare alla banda doveva stare attento a non farsi scoprire finendo nella lista nera della Guardia Nazionale come manutengolo o favoreggiatore. Fu il caso di alcuni componenti la famiglia Cecere di Ferrari, località dove già erano stati uccisi Saverio Sorice e la moglie Gelsomina Cioffi e il figlio, che avevano aiutato la banda di Fuoco e Pace. La Guardia Nazionale effettuò anche degli arresti, come per Pasqualina Varrecchione, diventata druda del capobrigante Pico, o delle sorelle Moscatiello, alla contarda Grottola, drude di Fuoco, e di altri 8 manutengoli. In altri casi non mancarono delle scarcerazioni, come per Vincenzo Sacco, inizialmente accusato di essere un manutengolo della Banda Fuoco.
Le cose erano però peggiorate con l’arrivo di La Gala, nonostante i rastrellamenti di Carabinieri e Bersaglieri piemontesi. Il feroce capogrigante che si spostava indisturbato sui monti, muovendo richieste a destra e a manca, dalla Valle Caudina al Vallo Lauro Baianese. “Stimatissimo Signor Don Gaetano – scriveva La Gala ad un possidente firmandosi “Capo della Commitiva” – vi prego di mandarmi qualche cosa per questa oggi perché ci troviamo senza un grano perciò vi prego per titolo di carità, e potete consegnare alla presente. Si scoprì poi che quella lettera poteva essere falsa, avvalorando la tesi che altri malandrini, in nome dei briganti, incassavano soldi per conto proprio. Dopo aver scorrazzato per il Vallo di Lauro, La Gala decise – male – di fuggire sulle montagne del Partenio. “Era la banda del Cipriano – scrive Carlo Guerrieri Gonzaga – cresciuta ben presto di parecchie centinaia di seguaci. Non v’era villaggio tra Caserta e Nola da un canto, Benevento e Avellino dall’altro, che non gli avesse fornito il suo contingente”. E dal Nolano, la banda si affacciò sui monti di Caserta per i poggi di Cancello, il monte Felino, il piano Majuri, i Cigli d’Avella e il Campo di Summonte. Airola, Arpaia, Arienzo, Cervinara, Montesarchio, San Martino…….. non ci pensò due volte ad attaccare i militi. 10 soldati morti dei due drappelli del distaccamento di Cervinara, al comando del Generale Pinelli con sede a Nola, furono il bigliettino da visita di La Gala.
Disfatta tragica anche per la Guardia Nazionale di San Martino, il 29 ottobre 1861, che vide perire un ufficiale e cinque uomini. Non mancarono gravi accuse all’allora sindaco Francesco Del Balzo per presunte responsabilità colpose nell’eccidio. Strage che precedette di poche ore l’arrivo dei nuovi Generali (Lamarmora sostituiva Cialdini a Napoli; Franzini, Pinenelli a Nola) che portarono a Nola perfino una sezione di artiglieri di montagna e cavalleggeri di Lucca, con immediate perlustrazioni generali del 18 battaglione tra Cancello, Arienzo, Arpaia, Cervinara, Montesarchio, Benevento, insieme ai distaccamenti del 12 di linea. Ma fu l’approssimarsi del generale inverno, il vero nemico. Autentici criminali – scrive Francesco Barra – brutale e rozzo Giona, assai più abile ed evoluto Cipriano, i due fratelli che vantavano gravissimi precedenti penali prima del 1860, non possono aspirare ad un movente politico, né sociale. Sarebbero rimasti insomma sicuramente in carcere se non avessero accettato la strumentalizzazione borbonica, in cambio della libertà, con l’avvento del nuovo Stato unitario, che gli aveva fornito protezioni e finanziamenti occulti.
Ma La Gala restava un criminale, un affiliato alla camorra. Un bandito urbano – conclude Barra – più che rurale; un camorrista, più che un brigante. Era comunque un furbo che prendeva continuamente in giro i soldatini piemontesi, scampando ai loro agguati in tutta la Valle Caudina, come quella volta che scapparono su per lo scosceso vallone di Cervinara, inseguiti dai bersaglieri, e poi giù, per il dirupo, lasciando vesti ed armi. Quel giorno, per esempio, era stato ordinato alle guardie del paese di piantonare il burrone, ma al momento opportuno non vi si trovò nessuno, rinchiudendosi i militi nelle proprie case, mentre i briganti, durante la precipitosa fuga dopo il saccheggio, furono per poco tempo inseguiti solo dagli spaesati bersaglieri che non conoscevano la zona. Era il 14 dicembre 1861, il giorno dell’ultimo saccheggio. La banda di La Gala, poche lune prima di essere annientata dai bersaglieri del Generale Franzini sul Piano Majuri, un pianoro fra monti di Avella e Cervinara, era riuscita a saccheggiare le frazioni di Castello, Joffredo e Ferrari. Il 18, infatti, fu sorpresa ed attaccata alla baionetta. Una quarantina i malandrini che rimasero a terra, qualche storico parla di 31 uomini uccisi sul piano Cornito. Cipriano, Giona e i superstiti riuscirono però a scappare a Valle, cercando scampo sul Taburno.
Ma la loro disfatta fu sancita tra Carvinara e Montesarchio, con un intervento del distaccamento del 6 Fanteria, comandato da Gaetano Negri, futuro storico, senatore e sindaco di Milano. I due, ancora una volta, sciolta la banda, riuscirono a fuggire definitivamente, riparando nello Stato Pontificio, dove dilapidarono la ricchezza male acquisita. (Un’altra parte del bottino, abbandonata durante il fuggi-fuggi, sarebbe poi stata ritrovata appena qualche decennio fa, in un terreno privato, nel corso dello scavo di un pozzo, donando improvvisa ricchezza al fortunato). Capito insomma che la partita era ormai persa, si diedero alla pazza gioia e ai divertimenti, mentre sulle montagne irpine non rimanevano a battersi che pochi disperati, destinati a cadere sotto i colpi della repressione. Due anni più tardi decisero di riparare in Francia, non sentendosi sicuri più neppure a Roma, imbarcandosi a Civitavecchia su un battello francese. Gli andò male e, il 18 luglio 1863, mentre la nave francese diretta a Marsiglia faceva sosta a Genova, furono arrestati, non senza conseguenze diplomatiche, seriamente compromesse tra Italia e Francia. Giona e Cipriano La Gala riuscirono a far parlare si se ancora per molti anni. Il processo si svolse nel febbraio-marzo 1864 davanti alla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere, ed ebbe risonanza internazionale con la presenza della stampa estera.
I fratelli La Gala vennero condannati a morte, mentre i loro compagni, Domenico Papa e Giovanni D’Avanzo insieme ad essi catturati sulla nave, se la cavarono chi con i lavori forzati, chi scontando una pena a venti anni. Giusto per chiudere l’incidente diplomatico con la Francia, però, l’Italia dovette commutare la pena, degli ormai famosissimi briganti, con l’ergastolo. Al progresso civile ed economico di Cervinara contribuirono, nei primi anni del 1900, la costruzione della ferrovia Benevento-Cancello, la realizzazione di un acquedotto locale e la nascita di una centrale elettrica. Il nuovo secolo si era aperto senza grandi cambiamenti nella vita politica e amministrativa di Cervinara: i possidenti mantenevano le loro proprietà; i contadini, servendosi delle proprie braccia, si affacciavano al mondo con la speranza di sempre. Continuavano a dividere il raccolto con i proprietari, a portargli i capponi nelle ricorrenze civili e religiose, riuscendo a stento a mettere da parte i pochi risparmi che certo non sarebbero bastati ad acquistare terreni, ma a dare vita a quel triste fenomeno che è l’emigrazione. Pur tuttavia, qualcuno, spostatosi verso il borgo, riuscì a mettere in piedi un’attività artigianale. Il rimanente basso ceto, i figli dei braccianti, dei giornalieri, degli artigiani, nonché qualche sporadico possidente, scelsero però nell’emigrazione la soluzione più giusta ai propri problemi.
Alcuni avevano preferito abbandonare la vita rurale già alla fine del secolo scorso, in vista di più facili e immediati guadagni oltreoceano. Chi c’era stato, e aveva fatto “fortuna”, anche come scaricatore di porto o come minatore, era ritornato diffondendo tra il popolo l’immagine di un’America ricca e florida. Seguendo le orme di quegli “avventurieri” imbarcatisi al porto di Napoli, si partì sempre più spesso, sperando nella stessa fortuna. Ma l’imminente scoppio della Prima Guerra Mondiale richiese quelle braccia al fronte: la grande emigrazione era rimandata. Molti cervinaresi non fecero più ritorno. Poveri soldati come Amatiello, Befi, Bizzarro, Bove, Buccieri, Campana, Calabrese, Garofalo, Ceccarelli, Cerasuolo ed un altro centinaio, come risulta dall’elenco ufficiale dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra, non fecero più ritorno. I reduci si ritrovarono nuovamente nei campi, stavolta incolti. Anche i vecchi capivano: la campagna non poteva continuare a dare, ai loro figli, ciò di cui essi si erano accontentati. L’indelebile marchio del “servo della terra” doveva scomparire; la guerra aveva riaperto le speranze: gli stenti erano abrogati. Si sentiva il bisogno di una vita diversa, in direzione di Napoli, oppure, della cara vecchia America. Più di 4 milioni di italiani entrarono negli Stati Uniti nei decenni a cavallo del secolo. Sono contadini del Mezzogiorno, inseriti d’impatto nel processo di sviluppo industriale americano di quegli anni. Quasi un terzo di essi si stabilirono a New York, diventa quasi una grande città “italiana”. E’ un’altra piccola Italia, la Little Italy. Fu questo uno dei motivi che spinsero il governo degli Usa ad emanare delle leggi restrittive, impedendo l’ingresso agli analfabeti di razza bianca, riducendo gli italiani ammessi ogni anno a 3.845 unità contro i 409.239 che si erano recati in America nel 1920 procurando un dissesto nell’equilibrio demografico della regione Campania.
Avellino era l’unico centro della provincia a superare i 10.000 abitanti tra il ’21 ed il ’31. Anche Cervinara diede il suo contributo. Ma quanti degli oltre 200 cervinaresi che nel 1930 ancora restavano in contatto col paese natio fecero fortuna? Potremmo parlare di Gaetano e Antonio Clemente, Antonio e Pasquale Sorge, Antonio Martone, Onorio Ruotolo, del dottor Salvatore Brevetti, di Antonio Mercaldi, Antonio Leparulo, Ferdinando De Dona, Carmine Russo, Nicola Villacci, Alberto Milanese, Carmine Clemente, degli Onor Prisco e Nicola Vecchione. Ma gli altri fecero veramente fortuna? Addirittura c’è chi sottoscrisse somme per il monumento da erigersi nella piazza di Cervinara e mai pagò, forse per miseria, forse per errore, forse per dispetto. Gente come Carmine Buccieri, Salvatore Brevetti, Angelo Cillo, Emilio, Raffaele e Giuseppe Cioffi, Domenico Cappabianca, Pasquale del Balzo, Francesco D’Agostino, Giovanni Finelli, Francesco Formato, Luigi e Andrea Iuliano, Francesco Lippoli, Domenico e Francesco Mercaldo, Giuseppe Madonna, Pasquale Taddeo, Orazio Vaccarelli, Antonio Zucale, la signora e la signorina Villacci. Con quest’ultima famiglia dovette accadere qualche diverbio di cui nulla sappiamo se è vero che Nicola Villacci, tempo addietro, aveva offerto ben 900 dollari (verdoni americani del 1930) che mai sborsò alla giusta causa.
“Molti in Italia o in Europa”, scriveva il Cavaliere Gaetano Clemente, “hanno la convinzione che l’America è la terra dell’oro; è la terra dove si inciampa contro la ricchezza e che per divenire ricco basta semplicemente volerlo – sogni chimerici!”. Chissà quanti cervinaresi, intrapresa una carriera e gettatisi negli affari, fecero marcia indietro, “ritirandosi scoraggiati dopo averci rimesso del tempo prezioso per lanciare la loro impresa e soprattutto dopo avere assorbito fino all’ultimo soldo che avevano messo da parte a furia di stenti e privazioni”. Il Cavaliere Clemente scrisse che i suoi primi affari furono di una meschinità unica. Lui non pensava classicamente “Quello che non guadagno finanziariamente adesso lo guadagno in cognizioni che domani mi daranno quello che rimetto oggi”. Che tradotto in dollaroni, pardon, in soldoni, significa che o guadagni da subito o cambi mestiere. Nato a Cervinara nel 1865, si può dire che Gaetano Clemente, alla stregua dei fratelli Palermo, fu il cervinarese più fortunato d’America. Emigrato nel 1902, dopo aver sperimentato le proprie capacità con i primi lavori stradali in Valle Caudina, cercò subito qualcosa da fare a più ampio respiro, fino a farsi un nome nell’ambiente edilizio e arrivando a fondare la Clemente Contracting Company del Bronx, una ditta che, prima di espandersi, si occupava appena di escavazioni e di costruzioni, realizzando tunnels e fondamenta sull’isola di Manhattan. Fra le opere più importanti ricordiamo gli edifici che formarono il più grande Medical Centre del mondo a Washington Height dove sventolò alto il tricolore, oltre alcune strade newyorkesi alle quali furono dati i nomi dei due illustri connazionali Casanova e Barretto.
Il Cavaliere impiegava solo mano d’opera italiana. Un uomo che si fece da sé: un vero ed autentico “self-made man”. Altre opere del suo ingegno furono il Polyclinic Hospital, alcuni edifici della Fordham University ed altri edifici importanti, contribuendo anche all’erezione e al mantenimento della Casa Italiana di Cultura presso la Columbia University, elargendo inoltre somme per ospedali e chiese. Ed a lui si deve anche l’erezione del monumento ai 100 caduti della Grande Guerra, per esclusiva contribuzione dei cervinaresi d’America, ricevendo medaglia d’Oro alla esposizione e Fiera Campionaria di Tripoli, sotto l’alto patronato di Benito Mussolini. Egli si recherà a Cervinara per inaugurare personalmente il monumento ai caduti eroici, opera di grande valore ideata e scolpita da un mago dell’arte, anch’egli cervinarese, popolarissimo all’epoca, Onofrio Ruotolo. Clemente, insomma si circondò sempre di cervinaresi, come nel caso di Carmine Clemente, presidente della Clemente Brothers, e Antonio Mercaldi, che raccolse i fondi per il monumento nel banchetto del giugno 1927, nella Lotteria, nel Concerto e Ballo del 1928, alla festa di San Clemente, nella pubblicazione di un “souvenir”. Il monumento che ancora vediamo nella piazza di Cervinara fu inaugurato il 17 agosto 1930, con un solo pensiero “clementiano” rivolto agli orfani: “Vivere pericolosamente – abbiate fede in quello che fate ed il successo sarà vostro”. Fra quegli eroi ricordiamo: il maggiore di fanteria Michele De Dona, ch’ebbe medaglia d’argento l’11 aprile del 1918 per aver dato l’assalto ad una posizione avversaria difesa da mitragliatrici e fucilieri il 25 agosto del 1927 a Tolmino; il sottotenente Giuseppe De Maria, medaglia di bronzo alla memoria; e i soldati Pietro Ferraro e Giovanni Girardi, anch’essi medagliati col bronzo. I cervinaresi d’America, a dire il vero, sono stati sempre uniti.
Fin dal 1915 avevano scritto un’altra pagina di patriottismo e di fratellanza, organizzando la Loggia Cervinara Valle Caudina del grande Ordine Figli d’Italia in America, grazie ad Antonio Mercaldi, Michele Battuello e Luigi Moscatiello che aggregarono consensi nel Circolo Educativo Cervinara, dove i compaesani si riunivano quotidianamente. Un circolo con a presidente Mercaldi, a vice Arcangelo Ricci, Pasquale Moscatiello a segretario; Domenico Cappabianca era il cassiere, Antonio Martone il provveditore (detto Zì Totonno), Giuseppe Moscatiello e Giuseppe Cioffi, i curatori. Una Loggia di tutto rispetto con il venerabile Vincenzo Baldini, l’assistente Silvio Rosati, l’ex venerabile Pellegrino Moscatiello, l’oratore Luigi Moscatiello, i segretari Andrea Bello e Otello Rapini, i curatori Michele Battuello, Raffaele e Daniele Ricci, Francesco Formato e Antonio Fogliani, i cerimonieri Luigi Battuello e Florio Stumpo, la sentinella Felice Cataldo e il medico sociale Salvatore Brevetti.
fonte
http://utenti.lycos.it/prolococervinara/cervinara.htm
Posted by altaterradilavoro on Nov 9, 2022