1 ottobre 2018, libreria Feltrinelli di piazza dei Martiri a Napoli. Prima presentazione del libro L’ultimo re di Napoli, con da sinistra: Carmine Borrino, Francesco Durante e Carmine Pinto
IL MESSAGGERO
Gigi Di Fiore riscatta l’immagine dello sfortunato Franceschiello, ultimo re di Napoli
Lunedì 1 Ottobre 2018 di Andrea Velardi
«Il solo mio timore è stato vedere la dignità Reale avvilita nella mia Persona». E’ un Francesco II diverso quello che scrive a Napoleone III dichiarandosi pronto a resistere con rassegnazione e fermezza dopo l’epilogo drammatico dell’assedio della fortezza di Gaeta, gli unici giorni che riterrà di aver vissuto per davvero. Il romanzo-saggio appassionato, fluviale, riflessivo, elegiaco, di Gigi Di Fiore, L’ultimo re di Napoli. L’esilio di Francesco II di Borbone nell’Italia dei Savoia, ci restituisce un re giovane e sfortunato, morto a 58 anni, di cui la metà vissuti in esilio dopo avere ereditato per ventuno mesi il regno del padre Ferdinando il 22 maggio del 1859, a soli 23 anni, un re catapultato nella tregenda del Risorgimento, di un’epoca che cambiava tumultuosamente, con accelerazioni sempre più improvvise, spiazzanti, con una geopolitica in rivolgimento che avrebbe fatto soccombere ogni diritto divino, ogni prelazione sulle alleanze e i privilegi incrociati delle parentele delle dinastie d’Europa e dei loro regni.
Francesco II resiste riscattando «indecisioni e tentennamenti, dimostrando dignità e coraggio», riconosciuti anche dalla sprezzante e distante moglie Maria Sofia, e in futuro perfino da un Benedetto Croce mai tenero coi Borbone, compiaciuto per quell’altro Francesco diverso «dalla figura stereotipata del Franceschiello, pupazzo incapace», «inetto, ossessionato dalla religione cattolica, bigotto», segnato da un’ «irrimediabile pochezza di carattere», «un fantasma della storia incapace di impennate d’orgoglio». Un Risorgimento visto alla rovescia e da una prospettiva veramente inedita, un’immagine in controtendenza dell’ultimo re di Napoli, sulla linea dello storico Pier Giusto Jaeger, quella restituita da Di Fiore attraverso un’ intensa rielaborazione narrativa delle fonti: i diari privati dell’ex sovrano, i documenti dell’archivio Borbone, il prezioso libro sul periodo romano scritto dal marchese Pietro Calà Ulloa, presidente del Consiglio del governo in esilio delle Due Sicilie nonché il memoriale di Pietro Quandel, confidente del periodo parigino.
Francesco II muore nell’Impero austro-ungarico, a 58 anni, dopo avere ereditato per ventuno mesi il regno del padre Ferdinando II, il 22 maggio del 1859, a soli 23 anni, inviso alla regina vedova Maria Teresa, la Tedesca, sostegno ed oracolo del «puritanesimo acerbo e cieco» delle fazioni conservatrici e reazionarie della dinastia borbonica, perché lui è nato dalla precedente relazione del marito con la prima regina consorte la devotissima Maria Cristina di Savoia, morta a 24 anni dopo il parto, dichiarata venerabile proprio nel 1859 da Pio IX e poi beata a distanza di più di 150 anni nel 2014. Triste e stordito il re arriva a Roma nel 1871, con la corte in esilio, senza potere disporre del suo patrimonio, ospite del papa Pio IX nella magnifica sede di Palazzo Farnese.
L’Inghilterra riconosce l’ambasciatore dei Savoia, il 15 giugno, dopo la morte di Cavour, si aggiunge la Francia e in seguito nel 1863 perfino la Spagna pensando di ricavarne un vantaggio per i Borbone, ponendo come condizione la restituzione dei beni alla casa reale di Napoli in esilio, ma il ministro degli esteri del regno d’Italia Alfonso Lamarmora dilaziona non riconoscendoli come casse private. Seguono i dissidi e le calunnie dell’esilio, l’infatuazione platonica che non rimane segreta per una dama sconosciuta per cui il confessore monsignor Gallo scomoda Sant’Alfonso e il diritto canonico parlando di adulterio doppio, la momentanea separazione con Maria Sofia con cui non ha rapporti a causa di una fimosi, il giallo della sua fuga in Baviera per una presunta gravidanza illegittima, era invece tubercolosi, la solitudine dell’estate del 1862.
L’approvazione da parte del Parlamento del Regno d’Italia delle legge Pica, con pieni poteri all’esercito piemontese per la repressione della corruzione e del brigantaggio, non fa sconti alle complicità subdole dei comitati borbonici. Il marchese Ulloa scrive un libro per denunciare la condizione delle Due Sicilie, il trafugamento del denaro trovato nel Banco di Napoli dai garibaldini e arginare le pretese dei legittimisti, animate dal libro di Giacinto de’ Sivo che mette nei guai Francesco perché si dice sia stato «ispirato dal Quirinale» papalino e dal re in persona. Complica le cose anche l’irritazione di Pio IX per l’ assenza di Francesco all’elogio pubblico a Piazza San Pietro della mamma Maria Cristina, ma il pontefice rimarrà sempre affezionato a quel giovane re sfortunato senza interrompere mai le relazioni diplomatiche col governo in esilio.
Il 1866 è l’anno delle grandi disillusioni. Scudisciate dei giornali, complotti di esuli calcolatori, Ulloa minaccia le dimissioni per l’uscita di un libello I misteri di Roma dedicato agli intrighi di corte. Lo scenario geopolitico sopravanza tutto mutando improvvisamente tinte e contrasti. «Le cose cospirano a rattristarmi. I governanti si accecarono e i popoli si impazzirono. L’ingiusto fu coronato e il giusto conquiso» annota Francesco nel suo diario segreto. Il regno d’Italia si allea in chiave antiaustriaca con la Prussia con lo scopo di annettere il Veneto in un dribbling diplomatico tra Metternich e Bismark. Il disastro di Custoza non ferma le velleità e la fortuna di Vittorio Emanuele II. La rivincita prussiana a Sadowa è decisiva per l’armistizio con l’Austria che poco dopo riconosce la perdita definitiva del lombardo-veneto.
Il trattato di pace del 3 ottobre con l’Italia sancisce il riconoscimento del regno dei Savoia e l’inesorabile tramonto del regno delle Due Sicilie. Un’epidemia di colera esplode a Roma nel 1867. La regina vedova Maria Teresa muore, dopo un’agonia tremenda, gettata a terra per lenire gli insopportabili lancinamenti. Il destino non sorride alla dinastia in esilio. Nel 1869 Francesco si sottopone ad un intervento chirurgico per la fimosi, si riconcilia, anche fisicamente, con Maria Sofia. Giunge perfino l’imperatrice Sissi a Roma, con l’ostetrico dottor Frolich e una levatrice bavarese, per la nascita della bambina il 24 dicembre che però muore precocemente, lasciando sgomenta e frastornata la madre. I reali lasciano Roma prima per la Baviera e poi per Parigi, in un villino tra Faubourg Saint-Antoine e Vincennes, dove l’ufficiale Pietro Quandel sostituisce Ulloa come confidente e fedelissimo del Re.
Con l’arrivo dei bersaglieri a Roma Francesco si rende conto che «comincia il vero esilio». La terribile accelerazione degli eventi decreta la fine di un mondo, la nemesi storica per la tremenda deflagrazione che aveva colpito la nazione italiana. Per un rovesciamento beffardo a Napoli nasce l’erede dei Savoia ed è solo illusoria la restaurazione che si profila con l’ascesa al trono di Spagna di Alfonso di Borbone, alla fine del 1874. Il destino della dinastia è segnato da un’inquietudine suggellata dalla disputa, forse un po’ anacronistica, sulla successione al trono delle Due Sicilie, che ha visto contrapporsi il ramo franco-italiano e il ramo spagnolo fino all’atto di conciliazione del 2014 tra il principe Carlo, duca di Castro, e don Pedro Juan Maria duca di Calabria, querelle di cui Di Fiore offre una corposa e intrigante documentazione nell’Appendice I del libro.
La pace parigina dei Borbone in esilio è scossa dal libro Le Rois en exil di Alphonse Daudet che descrive come inetto Francesco contrapposto alla tenace consorte Maria Sofia. A godersi la Roma espugnata dai garibaldini è Rosa Vercellana, l’amante di Vittorio Emanuele II, sposata in extremis per paura di una malattia, che si stabilisce a Villa Ludovisi. Poco dopo, nel gennaio del 1878, il sovrano sabaudo muore di febbre malarica. Lo segue nel febbraio il papa Pio IX. Il Risorgimento è finito, si chiude un’ epoca ambivalente di trionfo nazionale e di amarezza, di riscatti e ingiustizie, quelle che gli studiosi faticano a ricomporre, ma che Gigi Di Fiore ci restituisce nella sua complessità trepidante e appassionata fondendo narrazione letteraria e documentazione storica nel triste romanzo dell’ultimo Re di Napoli.
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L’esilio di un re gentiluomo Francesco II di Borbone nell’Italia dei Savoia
1 OTTOBRE 2018 | di Dino Messina
di Lorenzo Terzi
La figura di Francesco II di Borbone, ultimo re delle Due Sicilie, è stata raramente oggetto di indagine storica, soprattutto per quanto riguarda il periodo successivo alla caduta del Regno. Eppure l’esilio del figlio di Ferdinando II e della prima moglie, la “reginella santa” Maria Cristina di Savoia, durò più di un trentennio: dal 1861 al 1894, anno della sua morte, avvenuta nella piccola città termale di Arco di Trento. Si tratta, peraltro, di un’epoca cruciale per le sorti della “nuova Italia”: il neonato Regno sabaudo, immediatamente dopo le convulse vicende della sua repentina costituzione, dovette affrontare le drammatiche emergenze del brigantaggio, della terza guerra d’indipendenza e della prima emigrazione transoceanica.
Qualche accenno alle vicende biografiche di Francesco II si trova nei saggi di Benedetto Croce dedicati al romanticismo legittimista e agli “ultimi borbonici”. Un ampio resoconto del decennio successivo al crollo delle Due Sicilie è contenuto, invece, in una monografia del 1928 che raccoglie le memorie di Pietro Calà Ulloa, ultimo presidente del consiglio del sovrano spodestato: “Un re in esilio. La corte di Francesco II a Roma dal 1861 al 1870”, con introduzione e note di Gino Doria. Il curatore fa suo, nella sostanza, l’impietoso giudizio che gli italiani di parte liberale diedero del figlio di Maria Cristina: “Il mite e mistico abitatore del Quirinale prima, del palazzo Farnese poi, è un povero essere inoffensivo, che insegue vanamente il sogno della riconquista, piatendo presso i potentati d’Europa, ordinando ai suoi ministri all’estero di protestare per il riconoscimento del nuovo regno d’Italia, chiedendo ai suoi ministri di Roma la composizione di scritture e scritture politiche che difendano la causa del Borbone spodestato e offendano la amministrazione sabauda nell’ex-reame, sovvenzionando giornali clandestini: azioni risibili tutte, ché il sogno rimane sempre sogno, i piati rimangono inascoltati – persino dall’Austria, persino dal Papa – , le proteste rimangon soffocate dai continui riconoscimenti del nuovo regno – persino da parte della Russia, persino da parte della Spagna – , le scritture dei ministri rimangono intonse, i giornali invenduti. Il paese ne ride, come di una piacevole buffoneria offerta a distrarlo da più gravi pensieri, e il lasagnone, il bombino, il Cecchino fa le spese di questa farsa che si rappresenta nella capitale del mondo cattolico, con tutto il comparsume della corte pontificia e degli zuavi francesi”.
Questo ritratto derisorio e buffonesco ha accompagnato a lungo Francesco II, ed è stato corretto e, almeno parzialmente, superato grazie alla biografia di Pier Giusto Jaeger del 1982, che però è quasi interamente limitata ai pochi mesi intercorsi fra l’abbandono della capitale da parte della corte borbonica, nel settembre del 1860, e la fine dell’assedio di Gaeta.
Mancava, quindi, un serio lavoro di indagine storiografica che si occupasse del lungo esilio dell’ultimo re delle Due Sicilie, dagli anni di Roma ai decenni di “vita raminga” trascorsi da Francesco II e dalla moglie Maria Sofia di Wittelsbach in Austria, in Baviera e in Francia. Questa lacuna può dirsi felicemente colmata grazie a un recentissimo volume di Gigi di Fiore, L’ultimo re di Napoli. L’esilio di Francesco II di Borbone nell’Italia dei Savoia, edito da UTET.
Di Fiore, già redattore del “Giornale” di Montanelli, è inviato del “Mattino” di Napoli. Nelle sue pubblicazioni si è occupato prevalentemente di criminalità organizzata e di Risorgimento in relazione ai problemi del Mezzogiorno. L’ultimo re di Napoli costituisce una nuova edizione completamente rivista e aggiornata, con l’aggiunta di pagine, capitoli e documenti, indice dei nomi, sitografia e appendici, di un precedente libro intitolato, appunto, L’esilio del re Borbone nell’Italia dei Savoia, pubblicato nel 2015 e uscito come inserto di “Focus Storia”.
In quest’ultima fatica il giornalista napoletano dimostra una padronanza della materia trattata così salda da permettergli di esporre i risultati di minuziose ricerche documentarie in uno stile accattivante: la sacrosanta “leggibilità” della sua prosa distingue nettamente la produzione di Di Fiore dagli eccessi opposti dello specialismo erudito e della volgarità, quasi grandguignolesca, di certa recente paraletteratura “neosudista”. Un esempio singolare di questa misurata eleganza stilistica è offerto dalle pagine nelle quali si descrivono le difficoltà della vita “intima” di Francesco II e Maria Sofia, causate dalla fimosi da cui il sovrano era affetto, complicata da blocchi emotivi. Sarebbe stato facile decidere di omettere questo scabroso retroscena o, al contrario, farne l’oggetto di morbose e, magari, piccanti speculazioni. L’autore, invece, sceglie la strada dell’autentica pietas umana e storica, rievocando la delicata vicenda con semplicità e verità. Sicché, perfino soffermandosi su un particolare tanto “privato”, Di Fiore riesce a rendere in tutte le sue sfumature la realtà psicologica, contraddittoria e complessa, dell’ultimo Borbone, che si riflesse anche nella sua attività pubblica allorché si trovò a dover affrontare spinose questioni di politica italiana e internazionale.
Peraltro la dimensione biografica, ne L’ultimo re di Napoli, non va mai a discapito della ricostruzione della “grande storia”, le cui vicissitudini, anzi, rendono più chiara e più ricca la narrazione della vita del sovrano. La dialettica fra Stato e Chiesa nel drammatico periodo dell’unificazione nazionale, la repressione del brigantaggio con l’annessa legislazione speciale, i conflitti europei – in primo luogo la guerra franco-prussiana – formano il grande sfondo dell’affresco su cui Di Fiore fa emergere potentemente la dolente, dignitosa personalità di Francesco II. Le angosce e i dispiaceri determinati dalle vicende politiche acuirono le pene che lo sfortunato re fu costretto a subire nell’esilio: la scomoda convivenza, a Roma, con una camarilla di parolai intriganti, le tristi notizie provenienti dal suo ex regno, i numerosi lutti familiari, e soprattutto la morte dell’unica figlia, la piccola Maria Cristina Pia, vissuta appena tre mesi, dal dicembre del 1869 al marzo del 1870. Ne viene fuori il ritratto di un uomo che può dirsi “distrutto ma non sconfitto”, come recita la didascalia tratta da Il vecchio e il mare di Hemingway, posta all’inizio del volume.
L’incrocio tra biografia e storia politica riaffiora nell’ampia, utilissima Cronologia inserita dal cronista del “Mattino” alla fine del libro. La precedono due appendici, per mezzo delle quali Di Fiore getta un ponte fra il passato e l’attualità, come aveva già fatto in occasione della sua monografia del 2015 sulla “Nazione Napoletana”. La prima appendice ricostruisce la linea di successione dei “duchi di Castro dopo Francesco II”; la seconda, invece, dà conto della querelle dinastica che, in nome di antiche prammatiche e consuetudini, contrappone ancora oggi il ramo “franco-napoletano” a quello “ispano-napoletano” dei Borbone – Due Sicilie.
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