LE DONNE DEL BRIGANTAGGIO | 22° episodio
PONTELANDOLFO: “BRIGANTESSE” O “DONNE DEL BRIGANTAGGIO”?
di Valentino Romano (*)
Pontelandolfo, 30 luglio del 2022.
Questo numero del “Domenicale” per “Carta di Venosa” è particolare. Non solo perché esce con ritardo rispetto alla scadenza usuale, ma anche perché – contrariamente al solito – non racconta le vicende umane di una delle tante donne che attraversarono la stagione della prima grande rivolta contadina; vuole essere un resoconto, seppur sommario, di una riflessione generale così com’emersa nel convegno “Nacquero contadine, morirono brigantesse”, tenutosi a Pontelandolfo sabato 30 luglio; una lodevole iniziativa di ricostruzione e approfondimenti storici, inserita nel più ampio contesto del Festival Internazionale delle Mongolfiere (Il volo della Storia tra città martiri e oasi WWF), un’iniziativa fortemente voluta da Renato Rinaldi, Gino Martino, Carmine Fusco ed altri componenti dell’Associazione “Pontelandolfo, città martire” e dall’Amministrazione Comunale guidata dal Sindaco Gianfranco Rinaldi.
Al tavolo dei lavori, moderati dalla sapiente e informata regia del giornalista Sandro Tacinelli, il Sindaco Gianfranco Rinaldi, il cantante Andrea Del Monte (autore di un “disco-libro” sulle “brigantesse”) e il sottoscritto.
Non è stata la solita (e ormai stantia) rievocazione della “eroicità” di quelle donne che imbracciarono il fucile seguendo i loro uomini alla macchia, ma uno sguardo d’insieme sull’intero universo femminile che in quei tragici avvenimenti ebbero parte, spesso attiva e, ancor più spesso, ne pagarono le conseguenze.
Dov’è la novità? È presto detto: non c’è stato il solito rifarsi alle contrapposte mistificazioni che hanno trasformato queste donne in “criminali sanguinarie” e, per converso in altrettante “eroine partigiane di una dinastia illegittimamente spodestata”. Alle brevi, per dirla tutta, le ideologie che ancora oggi – a distanza di centosessant’anni ed oltre da quegli avvenimenti, -contrappongono le due opposte fazioni di un fanatismo insensato e astorico: il tifo da stadio è stato deliberatamente lasciato fuori dall’anfiteatro di Largo S. Pietro; qui, nelle intenzioni degli organizzatori e dei convegnisti, non c’era posto. Per questo direi anzi, giusto per rimanere nella metafora calcistica, era stato emesso un preventivo e perentorio Daspo.
Si è cercato, in altri termini, di fare ciò che una storiografia seria dovrebbe fare: esporre i fatti nella loro asettica crudezza, elaborarli e – soprattutto – cercare di comprenderli. Senza giudicare con le lenti appannate dal pre-giudizio.
Si è così riflettuto pacatamente sulla sostanziale differenza tra il termine “brigantessa” e quello di “donna del brigantaggio”. Così facendo si sono ricondotte le protagoniste femminili della rivolta contadine nella loro “normalità”. Certo, mi rendo conto perfettamente di come tale impostazione farà storcere il naso a chi si pasce (per motivi ideologici) di una loro presunta “straordinarietà” nel bene o nel male che sia. Ma, pazienza! I fatti della storia devono restare separati dalle opinioni. E i fatti di questa storia al femminile dicono alcune cose che non possono essere ignorate o trascurate. Per esempio, si deve prendere atto che, a scendere in campo non furono solo le circa duecento donne che seguirono i loro uomini alla macchia, ma anche (e soprattutto) le migliaia di madri, mogli, sorelle, figlie e congiunte dei briganti che vissero in prima persona i disagi e le sofferenze della guerra contadina, della guerra “cafona” come a me piace indicare quella sporca guerra. Tutte insieme, tanto le prime quanto le seconde, erano esseri “normali” che ebbero il solo torto di vivere in un periodo che normale non fu e che, semmai, furono costrette a compiere gesti e azioni “straordinari”, cioè eccedenti l’ordinarietà.
Una scelta che, almeno per le prime, aveva del rivoluzionario, indubbiamente perché ribaltava il ruolo di subordinazione della donna di metà Ottocento.
Queste donne, vittime in ogni caso della loro condizione esistenziale, tanto all’interno delle mura domestiche quanto all’esterno, compirono un gesto straordinario, una scelta che, spesso, si rivelò irreversibile: dall’”interno” in cui erano relegate si proiettarono all’”esterno”. “Femministe” ante litteram come qualche lettura romanzata e insieme ideologicizzata oltremisura le definisce? No, perché non avevano “coscienza piena” della condizione collettiva femminile ma, più semplicemente non ne potevano più di quella personale. E, tuttavia, aprirono, per così dire, la strada a quel proto-femminismo che tutto avrebbe poi attraversato la restante parte del secolo.
Il convegno prevedeva due elementi distinti che, però, si sono integrati alla perfezione: ai momenti di riflessione storiografica si sono alternati efficaci momenti musicali, con le canzoni dedicate alle “brigantesse” più famose. Il che ha portato ad una ulteriore riflessione: è giusto, è lecito romanzare e spettacolarizzare le vicende umane di questa umanità dolente? Premesso che ogni forma artistica (sia essa musicale o narrativa) non solo ha piena dignità e legittimità di esistenza ma che addirittura – rivolgendosi a un pubblico assai più ampio rispetto a quello di “nicchia” della storiografia – può favorire un successivo e più generalizzato approccio di approfondimento del fenomeno, si è avvertita, allo stesso tempo, la necessità (io dico “l’imperativo categorico”) di non romanzare o poetizzare oltre misura il dramma di questo universo femminile dolente. Si è detto che “l’arte” parte dal fatto e legittimamente lo reinterpreta con una propria e autonoma sensibilità. È giusto, ed è anche bello così: talvolta il risultato è estremamente godibile come nel caso del disco-libro di Antonio Veneziani e Andrea Del Monte che ci tengono , correttamente, a sottolineare di non aver inteso fare un “saggio” storico. Ma, ciò riconosciuto, va detta anche un’altra cosa: la storia, le tante storie di queste donne sono storie che hanno una loro tragicità, una loro epicità che non abbisognano di “abbellimenti” e di costruzioni fantasiose. Basta scavare negli archivi, nei faldoni processuali, nei rapporti di polizia, nei resoconti militari per rendersene conto. Basterebbe, insomma, a mio avviso, limitarsi a raccontare (seppur poeticamente e artisticamente) queste storie, senza nulla aggiungere o inventare. Cosa c’è, per esempio, da aggiungere alla struggente bellezza del racconto del battesimo clandestino di Michelangelo, del figlio cioè di Michelina Di Cesare e di Ciccio Guerra? Nulla! Basta solo conoscere il fatto e basta solo accostarvisi con rispetto.
Però questo, lo riconosco, è solo il mio pensiero, l’opinione di uno che è più a suo agio con le carte d’archivio che con le pagine di un romanzo “storico”, con i versi di un poeta, o con le note di un cantante.
Si è parlato anche del “prima” e del “dopo” di queste donne, cioè del loro vivere e sopravvivere prima e dopo la stagione cosiddetta “eroica”, quella della macchia cioè; si è detto della sorte ignorata dei figli delle “donne del brigantaggio”. Si son dette tante altre cose che qui sarebbe lungo riportare.
Ma su tutto si è discusso pacatamente, senza posizioni preconcette.
E il merito di tale impostazione deve essere tutto ascritto agli organizzatori che hanno saputo indicare un modo nuovo per accostarsi a quel periodo tragico e ai suoi tragici protagonisti, superando ogni lacerante divisione che non ha più ragion d’essere. Se, pure mai l’avesse avuta!
La linea indicata dagli amici organizzatori e sposata dall’Amministrazione comunale di Pontelandolfo avrà un seguito: ma di questo ne parleremo più avanti. Dal prossimo numero, prometto, si torna al consueto cliché: il frammento biografico di una di queste donne. Senza inventare nulla, s’intende!😉
(*) Promotore Carta di Venosa