LUCI E OMBRE NELLA POLEMICA TRA GIUSTINO FORTUNATO E FRANCESCO SAVERIO NITTI
di Michele Eugenio Di Carlo
Francesco Saverio Nitti, citato diffusamente da Fortunato, aveva pubblicato, nel 1900 a Torino, un volumetto sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato dal titolo Nord e Sud [i]. All’epoca trentaduenne, già docente ordinario di Scienza delle Finanze e Diritto finanziario presso l’Università di Napoli, aveva affrontato, come riconosciuto da Fortunato, il tema del bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97 portando alla luce l’iniqua ripartizione della spesa pubblica in Italia: dall’unità in poi il Mezzogiorno aveva subito un continuo e costante drenaggio di risorse atto a favorire lo sviluppo infrastrutturale e industriale dell’Italia settentrionale. Nitti, in seguito nel 1903, pubblicava Principi di scienza delle finanze [ii], un’opera dalla fama mondiale adottata da diverse università in Italia e all’estero. Eletto in Parlamento nel 1904, metteva le sue competenze a disposizione di Giovanni Giolitti, partecipando all’inchiesta sulle condizioni economiche e sociali della Basilicata e della Calabria, impegnandosi nella costituzione dell’Ente Volturno e nelle trattative affinché nascesse a Bagnoli l’Ilva, al fine di restituire all’ex capitale Napoli uno spiraglio di produzione industriale.
Figura 1. Giustino Fortunato
In Nord e Sud, l’economista andava ben oltre i meriti che Fortunato gli aveva riconosciuto: aveva persino sgombrato il campo da analisi di comodo che tentavano di ridurre a mera speculazione antropologica la natura del divario, presentando analisi, studi, statistiche che dimostravano scientificamente che il divario tra le due aree del paese era diventato così consistente in relazione a precise scelte di politiche finanziarie, economiche e doganali e contrapponendosi alla tesi «molto comune […] non solamente radicata nel Nord d’Italia», che il Sud avesse sfruttato il bilancio nazionale. Nitti assicurava che i meridionali non pagavano affatto meno tasse e meno imposte e non conservavano i propri risparmi in maniera improduttiva. Anzi, il Mezzogiorno fino al 1860 aveva conservato «più grandi risparmi che in quasi tutte le regioni del Nord», vi si «viveva una vita molto gretta, ma dove il consumo era notevolmente alto». E fino a prima delle politiche doganali del 1887, tra il 1880 e il 1888, «la ricchezza agraria del Veneto non era superiore a quella della Puglia, e tra Genova e Bari, tra Milano e Napoli era assai minore differenza di sviluppo economico e industriale che ora non sia». Ma a fine Ottocento, «insieme a una diminuzione nella capacità di consumo», si notavano chiaramente «i sintomi allarmanti dell’arresto del risparmio, dello sviluppo della emigrazione povera, della pigra formazione dell’industria di fronte al bisogno crescente. Tra il 1870 e il 1888 la importanza del Mezzogiorno nella vita sociale ed economica dell’Italia era molto maggiore che oggi non sia»[iii].
Emergeva chiaramente dall’analisi dei bilanci dello Stato dal 1862 – anno di unificazione del sistema tributario con l’estensione agli altri Stati preunitari del sistema fiscale piemontese ad opera del ministro livornese Pietro Bastogi, – al 1896-97, che il divario nord-sud era notevolmente cresciuto, non solo a causa di una iniqua ripartizione territoriale della spesa pubblica, ma anche per la deleteria sostituzione del «semplice e quasi elegante organismo della finanza napoletana» con gli ordinamenti finanziari del Regno di Sardegna, gestiti da una macchina burocratica dal «numero strabocchevole di agenti di ogni grado…»[iv]. Grazie agli studi di Nitti iniziava a delinearsi un inedito quadro delle finanze degli Stati preunitari: «senza l’unificazione dei varii Stati, il regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle risorse era necessariamente condannato al fallimento»[v]. Ai Borbone potevano essere mosse le critiche più disparate, «ma qualunque il giudizio che si dia di essi non bisogna negare che i loro ordinamenti amministrativi erano spesso ottimi; che la loro finanza era buona e, in generale, onesta»[vi]. E queste considerazioni, coraggiose ed esplosive per quei tempi, Nitti le ricavava da documenti inoppugnabili: i bilanci napoletani dal 1848 al 1859 pubblicati dal Ministero delle Finanze e la relazione di Vittorio Sacchi, inviato fiduciario a Napoli del Conte di Cavour, in qualità di segretario generale delle finanze dal 1° aprile al 31 ottobre 1861.
Le lucide analisi di Nitti indicavano chiaramente la responsabilità delle politiche attuate dai governi succedutisi nel primo quarantennio unitario e Fortunato, da sempre impegnato a tutelare i valori ideali dell’unificazione nazionale contro i nostalgici rigurgiti borbonici, alla domanda se ritenesse l’opera del giovane Nitti interamente positiva rispondeva: «No, perché egli volle provar troppo, credendo, se più avvedutamente, non meno erroneamente de’ non pochi, i quali sostennero la stessa tesi, che il Mezzogiorno si fosse ritrovato, al ’60, in condizioni relativamente migliori di quelle del resto d’Italia». E, «profondamente convinto del contrario», si affrettava «a dissipare cotesto equivoco» citando Monzilli e Zammarano, ai quali riconosceva «il patriottico intento di aver reso omaggio alla verità»[vii], nonostante fossero stati entrambi rinviati a giudizio nel processo del noto scandalo della Banca Romana. Fortunato non accettava si confrontasse il passato con il fine di giudicare in termini negativi il presente, pur ammettendo che «non tutto quello che giustamente potevamo sperare, noi meridionali abbiamo ottenuto dalla subitanea sparizione della nostra autonomia», ma «nulla, per Iddio, vi abbiamo perduto!», dato che nonostante le modeste imposte, il lieve debito pubblico, l’abbondante moneta circolante, la «costituzione economica dello Stato era impotente a dare impulso alla produzione della ricchezza». E, con intenti riduttivi, riteneva un’eccezione le «poche industrie privilegiate del Liri e del Sarno, tenute su a prezzo di esteso contrabbando da svizzeri e da francesi», rispetto ad un’economia prettamente agricola[viii]. Risolutamente Fortunato continuava a ripetere che la crisi non era dovuta all’annessione, essendo il Mezzogiorno entrato «a far parte della nuova Italia assai men ricco e assai meno progredito delle altre regioni», concedendo a chi si opponeva alle sue tesi che «la politica troppo fantasiosa dello Stato unitario» non aveva contribuito a superare il divario iniziale. In definitiva, il Mezzogiorno non era diventato «più povero di quello che fosse al ‘60»[ix].
Un atteggiamento che non lasciava indifferente Nitti che nel 1903 scriveva: «Quando pubblicai il mio libro Nord e Sud sentii dirmi d’ogni parte, soprattutto dai meridionali: – Voi aumentate la discordia». Il melfese riteneva, invece, che le sue analisi potevano produrre del bene, aumentare il controllo, diminuire gli abusi e che occorreva, al contrario, temere «la rassegnazione torpida da una parte, la spoliazione sistematica dall’altra»[x].
[i] F.S. NITTI, Nord e Sud, Torino, Roux e Viarengo, 1900.
[ii] F. S. NITTI, Principi di scienza delle finanze, Napoli, L. Pierro, 1903.
[iii] F. S. NITTI, Nord e Sud, Rionero in Vulture, Calici Editori, 2000, pp. 7-8.
[iv] Ivi, pp. 32-33.
[v] F. S. NITTI, Nord e Sud, cit., p. 18.
[vi] Ivi, p. 19.
[vii] G. FORTUNATO, La questione meridionale e la riforma tributaria, cit., in Id. Che cosa è la questione meridionale?, cit., pp. 45-46.
[viii] Cfr. ivi, pp. 50-51.
[ix] Ivi, p. 57.
[x] F.S. NITTI, Napoli e la questione meridionale, in Id., Scritti sulla questione meridionale (a cura di M. Rossi-Doria), vol. III, Bari, Laterza, 1978, pp.14-15.