Pinto La guerra per il Mezzogiorno

“La guerra per il Mezzogiorno” di Carmine Pinto

Posted by Salvatore Romeo
Pinto La guerra per il Mezzogiorno

Recensione a: Carmine Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, Editori Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 512, 28 euro (scheda libro).

Negli ultimi anni si è diffusa, in particolare nel Mezzogiorno, una rappresentazione dell’unificazione italiana nei termini di una conquista da parte di uno Stato (il Regno di Sardegna guidato dai Savoia) a danno di un altro – il Regno delle Due Sicilie, ultimo erede della lunga tradizione di unità politica del Sud, in quel momento retto dalla dinastia Borbone. Che si sia trattato di una soprafazione – nelle interpretazioni più estreme, di una “colonizzazione” – sembra dimostrato dalla reazione delle genti meridionali contro i nuovi dominatori: in quest’ottica il brigantaggio assume i connotati di una guerra di popolo, precursore delle novecentesche lotte di liberazione delle nazioni oppresse. Una guerra conclusasi con una sconfitta, da cui sarebbero scaturiti buona parte degli squilibri caratteristici della nuova nazione: su tutti, il divario che ancora oggi separa Nord e Sud.

L’ultimo libro di Carmine Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, mostra tutta l’inadeguatezza di questa narrazione. Assumendo il problema del conflitto armato fra briganti e unitari nei primi anni del nuovo Stato, Pinto riporta i termini della questione nella cornice del tempo in cui si sono svolti i fatti, mostrando implicitamente il carattere anacronistico (e ideologico) di certe letture. Emerge così un quadro estremamente ricco e articolato, tanto significativo per l’Italia dell’epoca quanto distante da quella di oggi.

Rivoluzione e contro-rivoluzione

Perché proprio il Mezzogiorno è stato teatro della sola reazione armata all’unificazione? È questo uno degli interrogativi centrali che muove il racconto. Pinto risponde delineando i contorni di un conflitto civile che attraversa le province meridionali nel corso dei decenni precedenti l’impresa di Garibaldi. Il Regno dei Borbone è un crogiolo di tensioni culturali e politiche, che esplodono per la prima volta alla fine del XVIII secolo, sull’onda della Grande Rivoluzione e della sua propagazione oltre i confini francesi. La reazione sanfedista che stronca il primo esperimento repubblicano della storia meridionale (1799) inaugura una lunga stagione in cui si alternano momenti rivoluzionari e aspre restaurazioni. Questa dinamica trae linfa dall’assenza di una dialettica politica “legale”, che costringe le forze di opposizione a una prassi di cospirazione e insurrezione. Intorno a queste esperienze vanno sedimentandosi tradizioni politiche che aprono una frattura nella società meridionale. Ma il vero punto di rottura è il 1848. Fino a quel momento le dinamiche politiche che si sviluppano nel Mezzogiorno non divergono sostanzialmente da quelle che vanno manifestandosi negli altri stati italiani: tutti i governi restano ancorati ai principi della Restaurazione e usano il pugno di ferro contro i movimenti liberali. La nuova ondata rivoluzionaria che sconvolge l’Europa lascia però delle differenze significative: mentre i sovrani piemontesi dopo la sconfitta nella guerra contro l’Austria mantengono lo Statuto concesso da Carlo Alberto, a Napoli si scatena una nuova feroce repressione, che parte dalla revoca della Costituzione promulgata da Ferdinando II. Una parte importante del gruppo dirigente rivoluzionario va in esilio a Torino; negli ambienti liberali meridionali inizia a emergere l’idea della “irriformabilità” della monarchia borbonica. Negli anni seguenti questa convinzione si consolida, man mano che il Regno di Sardegna assume il progetto unitario come perno della sua prospettiva strategica: avviene così la saldatura fra rivoluzione politica e rivoluzione nazionale che si esplicita in maniera netta nell’estate del 1860. Ancora una volta – e per l’ultima volta – il movimento liberale non può che far ricorso alla prassi dell’insurrezione. Una “rivoluzione disciplinata”, come la definisce Pinto – attenta cioè a garantire l’ordine sociale per attrarre il consenso delle classi dirigenti –, ma pur sempre una rivoluzione che scatena contrapposizioni e reazioni. L’esito è però diverso dal passato: i liberali riescono a costruire in pochissimo tempo un blocco sociale solido intorno alle parole d’ordine “unità” e “libertà” , mentre i Borbone toccano con mano lo svuotamento della loro legittimità, pagando un prezzo altissimo alla sottovalutazione del consenso, principio cardine dell’emergente modernità politica. Ma anche in questa occasione si attivano i meccanismi di mobilitazione politico-militare che avevano caratterizzato le fasi precedenti. Fra questi il brigantaggio, che aveva svolto un ruolo significativo in tutti i momenti di iniziativa contro-rivoluzionaria. Il conflitto che si apre quasi immediatamente con l’implosione dello Stato borbonico è quindi un nuovo (e ultimo) episodio di una lotta decennale, ma in un contesto diverso, in cui i rapporti di forza sono ribaltati a vantaggio dei liberali, che adesso per contrastare la reazione possono contare sulla potenza dello Stato di cui si sentono pienamente partecipi.

Guerra civile

Questo presupposto spiega il carattere quanto mai cruento dello scontro. Da parte borbonica – un fronte composito ed estremamente litigioso – il conflitto assume i tratti di una guerra patriottica: persino i legittimisti più convinti fanno proprio il linguaggio nuovo (e fino a poco prima duramente avversato) del nazionalismo, chiamando la popolazione meridionale alla rivolta contro l’invasore straniero. D’altra parte, anche per gli unitari si tratta di uno scontro decisivo: in particolare, nei meridionali si riaffaccia il ricordo delle precedenti contro-rivoluzioni, e con esso la volontà di stroncare una volta per tutte quel pericolo. È dal Sud che si levano le richieste più forti di repressione e, nonostante le tensioni che attraversano il quadro politico del nascente Regno d’Italia, tutte le forze si trovano compattamente schierate contro il brigantaggio. È una “guerra per la nazione” che non concede al nemico nessun riconoscimento: in ciò è la differenza sostanziale fra borbonici e unitari, con i primi tutti protesi nello sforzo di rimarcare il carattere politico della loro lotta e gli altri fermi nel derubricarla a questione puramente criminale. È in questo contesto che avviene la rimozione – e persino la stigmatizzazione – del tema della “guerra civile”: le ragioni dei nemici dell’unità non possono neanche essere prese in considerazione, perché questo implicherebbe una loro legittimazione.

A favorire l’affermazione di questa interpretazione contribuisce d’altra parte la debolezza del progetto borbonico, in nessun momento realmente capace di contrapporre al blocco unitario uno schieramento e una prospettiva altrettanto forti (si veda, per converso, la contemporanea guerra civile americana, in cui la Confederazione costituì un problema politico e militare serio per l’Unione). Valga un dato su tutti, ben messo in evidenza da Pinto: anche nel momento di sua massima espansione l’iniziativa dei briganti non solo non riesce a darsi una direzione strategica e tattica omogenea, ma resta sempre circoscritta ai centri minori, mentre i capoluoghi di provincia – dunque la società urbana – rimangono saldamente nelle mani degli unitari e anzi costituiscono i punti di irradiazione del nuovo Stato attraverso le sue strutture politico-amministrative. Quella brigantesca è quindi una “guerra rurale”, che si inquadra in un retroterra sociale caratterizzato – come rilevarono già i contemporanei – da condizioni drammatiche: disuguaglianze estreme, deprivazione materiale e abbrutimento morale, ma anche una conflittualità diffusa all’interno delle classi dirigenti. Il brigantaggio politico post-unitario riceve quindi impulso dalla confluenza fra la ricerca del riscatto individuale che anima molti giovani di estrazione contadina e le rivendicazioni di una parte dei ceti possidenti interessati ad affermare il proprio peso nell’ambito di scontri di potere locali resi più aspri dal cambio di regime. Da questa configurazione emergono due tratti essenziali del fenomeno. In primo luogo, nota Pinto, la rivolta brigantesca non esprime mai contenuti “sociali” (men che meno “di classe”), in quanto orientata politicamente dai grandi proprietari e mossa concretamente dall’ambizione personale dei suoi capi e gregari; in secondo luogo, nella guerra del e al brigantaggio elementi privati e politici si confondono sistematicamente: da una parte e dall’altra, accanto alle spinte ideali si articolano spesso interessi molto concreti. In definitiva, ci troviamo di fronte a una dinamica abbastanza tipica della società del tempo, in cui lo scontro politico-ideologico, ancora ai suoi primissimi passi, è circoscritto alle classi dirigenti e si intreccia a contrasti di altra natura, e in cui la subalternità delle masse è radicale. La specificità del conflitto che si accende nel Mezzogiorno dopo l’unità è il ricorso alla violenza, al contempo eredità di una lunga stagione in cui la lotta politica assumeva inevitabilmente la forma della lotta armata, ma anche aspetto consustanziale a una società rurale attraversata da tensioni profonde e regolata da istituzioni pubbliche deboli.

Nascita di una nazione

Questa è una delle sfide che il Regno d’Italia si impegna ad affrontare con la “guerra per il Mezzogiorno”: attraverso un massiccio dispiegamento di forze regolari e un’ampia mobilitazione di volontari meridionali lo Stato unitario punta ad affermare pienamente le sue prerogative sulle provincie del Sud, per garantire la sicurezza (e garantirsi quindi il consenso) dei loro cittadini e imporre il suo “monopolio della violenza legittima”. Ma l’iniziativa unitaria non si ferma al piano militare. Estremamente interessanti sono i passaggi che Pinto dedica a due ulteriori momenti di mobilitazione: quella ideologica e quella assistenziale. Il conflitto nel Sud riprende e rielabora i temi del patriottismo risorgimentale, riverberando gli echi della rivoluzione del 1860, e impegnando in questo sforzo tutti i livelli istituzionali e politici. Particolarmente attivi sono i gruppi dirigenti delle aree direttamente colpite dal brigantaggio, che immaginano se stessi e i propri compaesani in prima linea nella difesa della loro nuova patria. Non meno importante come elemento di coesione del fronte unitario è la campagna per le vittime del brigantaggio, che costituisce forse la primissima operazione di assistenza sociale (ancorché basata sui principi volontaristici della carità pubblica) del nuovo Stato. Con queste iniziative il Regno lancia un messaggio chiaro ai neocittadini italiani: essi sono parte di una comunità nazionale che gli garantisce diritti certi e un’identità precisa. Con questa strategia il Borbone non può competere in nessun modo. La guerra contro il brigantaggio appare quindi come un momento fondamentale della nascita della nuova nazione, e segna l’avvio di un lungo processo di “nazionalizzazione delle masse”.

Un ultimo elemento che contribuisce in maniera decisiva alla definizione di una comune appartenenza è l’istituzione parlamentare. Questa consente – nota Pinto – una rapida integrazione delle classi dirigenti meridionali: attraverso i partiti, che si presentano da subito come compagini nazionali, gli uomini politici del Sud possono contribuire al governo del Paese. D’altra parte, il parlamentarismo offre un’opportunità inedita alla rappresentanza delle istanze locali, bilanciando il modello amministrativo centralista che viene conferito al nuovo Stato (non diverso nella sostanza da quello borbonico). L’avvio di una dialettica politica incardinata in un regime di garanzie costituzionali a sua volta offre un quadro all’interno del quale sviluppare per vie legali – riducendo il ricorso alla violenza – i conflitti interni agli strati sociali di vertice. Ma quella cornice favorirà anche la discussione intorno ai grandi problemi del Paese: su tutti la “questione sociale”, che sarà quasi subito identificata con le specifiche condizioni del Mezzogiorno, diventando col tempo “questione meridionale”. La polemica meridionalista dei decenni successivi maturerà tutta all’interno del fronte unitario, mostrando anche i gravi limiti della monarchia liberale di fronte ad alcuni nodi cruciali della società italiana; da parte sua il borbonismo, persa ogni velleità di restaurare il Regno, confluirà nella galassia reazionaria egemonizzata dalla Chiesa cattolica, caratterizzandosi quasi esclusivamente come atteggiamento nostalgico.

Il libro di Pinto è un’opera fondamentale per comprendere un momento decisivo della storia d’Italia, ma è anche un lavoro utile a sollecitare una riflessione sull’oggi. Per quanto l’autore ci tenga a sottolineare l’inattualità delle vicende che ha ricostruito, c’è un elemento su tutti che interroga il presente: il valore dell’unità nazionale. Sotto la spinta di uno scenario globale sempre più competitivo le forze centrifughe vanno intensificandosi, sottoponendo l’edificio unitario a tensioni crescenti. Il progetto italiano, che ha rappresentato una prospettiva di progresso per la generazione risorgimentale e per molte generazioni successive, si trova ad uno stallo? A ben vedere non è un problema che riguardi solo il nostro Paese (si pensi alla questione catalana o a quella scozzese), ma proprio per questo non lo si può sottovalutare. La guerra per il Mezzogiorno ci spinge a fare i conti con il nostro essere italiani: un’identità che i nostri antenati hanno ricercato con forza e che oggi ci appare quanto mai problematica.
Salvatore Romeo – Dottore di ricerca in Storia economica, è stato borsista presso l’Istituto italiano di studi storici. Ha curato la raccolta di scritti di Alessandro Leogrande su Taranto “Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale” (Feltrinelli, 2018) ed è autore di “L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi” (Donzelli,2019). Si occupa di storia dell’industria, storia urbana e storia ambientale.
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