Perrone e il retroscena sull’arrivo a Napoli di Garibaldi
Gigi Di Fiore
Il titolo promette più di quanto il testo contenga. Il nuovo libro di Nico Perrone, già docente di Storia contemporanea all’Università di Bari (Arrestate Garibaldi. L’ordine impossibile di Cavour, Salerno editrice, p. 93, curo 8,90)annuncia spiegazioni e ricostruzioni inedite sui due giorni a Napoli tra la partenza di Francesco II di Borbone e l’arrivo di Garibaldi. Spiegazioni sui retroscena dell’ingresso indisturbato del generale nizzardo, arrivato in treno e con soli sei ufficiali delle camicie rosse. E invece, dalla lettura, si ritrovano fonti esplorate e note: i diari dell’ammiraglio Persano,i libri di DeCesaree di De Sivo lettere di Cavour, il saggio di Romeo sul primo ministro torinese, Alianello con il suo unico saggio La conquista del Sud.
Fonti riprese, per ricosttuúe il contrasto tra liberali moderati e democratici su cui tanti anni fa Denis Mack Smith pubblicò il suo pregevole lavoro Cavour contro Garibaldi, ristampato 17 anni fa da Rizzoli. Non è novità sapere che Cavour stanziò del denaro, affidato a Persano attraverso il banchiere De Gas, per corrompere ufficiali della Marina borbonica e militari, o che fece arrivare a Napoli molti fucli tentando un colpo di mano prima che arrivasse Garibaldi.
Cose note, ricostruite con meticolosità e precisione anche da quella storiografia, che Perrone definisce “neoborbonica”, che ha approfondito quei giorni anche esaminando i documenti dell’Archivio Borbone. Quella stessa storiografia che ha già evidenziato il potere, l’importanza e il ruolo del ministro borbonico Liborio Romano, che giocò su più tavoli collegandosi a Cavour e Garibaldi, per poi schierarsi in Parlamento tra gli autonomisti critici sull’annessione del Mezzogiomo troppo affrettata.
Romano si era coperto le spalle con tutti i gruppi politici, raggiungendo anche un famosissimo accordo con la camorra napoletana. Nel vuoto dell’ultimo governo borbonico, era diventato a Napoli così potente da avere gioco facile nel consigliare al re di lasciare la città. Se Perrone si chiede come tra mai Garibaldi entrò così facilmente in città, la risposta va cercata anche esaminando posizioni e documenti di protagonisti, esclusi nel suo saggio: la monarchia borbonica, con il suo governo e i suoi militari. Basta leggere il famoso proclama di Francesco II, per capire che lasciava la capitale anche per salvare gli antichi monumenti e impedire lutti e sangue. Nelle indicazioni scritte affidate alle truppe lasciate in città, c’era anche l’ordine di non provocare incidenti, tanto che, dopo l’arrivo di Garibaldi, quei soldati sfilarono indisturbati e in ordine marciando a Napoli per raggiungere il re tra Capua e Gaeta dove veniva organizzata laresistenza militare. Gli altri, i civili, attendevano gli eventi con i camorristi padroni dell’ordine in città. Un clima ben descritto da Alianello nel suo romanzo L’alfiere.
Comprensibile, come fa Perrone, lo sforzo di ricostruire quelle ore in un’ottica inquadrata nella storia nazionale, come dialettica di contrasti politici tra moderati e democratici. Ma la storia è sempre dinamica con più protagonisti. Soprattutto le vicende della fine delle Due Sicilie, dove tanta parte ebbero le scelte e i comportamenti di chi ricopriva ruoli in quello Stato che stava per morire. Conscio di non aver pubblicato novità, Perrone scrive che «inedito è l’impianto di queste pagine, perché è inedita l’utilizzazione che si fa delle carte su cui esse si fondano e che finora nessuno ha messo a confronto in un quadro d’assieme». E ancora: «Nello scrivere la storia di quel periodo, si celebra sempre – giustamnente – la gloria del risultato; ma si sa che ciò lascia da parte i dettagli, e certi angoli poco illuminati che non interessano chi celebra».
Giornalisti si nasce, niente da fare. Prova provata: Nicola Perrone, che ancora diciassettenne, alle cinque e mezza della mattina, si scapicollava in una Roma ancora dormiente e sgusciava dentro il grande portone di Botteghe Oscure diretto all’ufficio stampa. Compito autoassegnato: volontario alla rassegna stampa, il che voleva dire tagliare articoli su articoli dalle pile dei giornali per l’uso e il consumo dei dirigenti dei piani alti, lavoro modesto quanto si vuole, ma anche ostinato e faticoso, sotto l’attenta supervisione di Tonino Tatò, uomo di stile e misura. Non ci vuole molto a Tatò a prendere a benvolere quel giovanissimo studente che arriva quando è ancora notte e se ne va alle sette e mezza con i libri sotto il braccio per entrare a scuola, che poi è il liceo Archimede. Nato il 2 luglio del 1959 a San Benedetto del Tronto (“un caso fortuito perché mio padre carabiniere era stato distaccato alla stazione locale durante il periodo estivo”), dopo sei mesi la famiglia torna a Roma. La pulsione di Nicola per il giornalismo è, si diceva, precocissima. Dopo la morte di Berlinguer del giugno ’84, Tatò entra in una sorta di cono d’ombra. Smania e ruggisce e intanto si inventa un progetto che sarà appunto la Dire, agenzia stampa che a partire dal 1988 si occupa principalmente, ma non esclusivamente, di politica parlamentare.