𝐏𝐞𝐫 𝐫𝐢𝐩𝐚𝐫𝐚𝐫𝐬𝐢 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐏𝐚𝐯𝐞𝐬𝐞 𝐬𝐢 𝐫𝐢𝐟𝐮𝐠𝐢𝐨̀ 𝐧𝐞𝐥 𝐦𝐢𝐭𝐨
Cesare Pavese trovò due modi per sfuggire all’insostenibile gravità della vita: il mito e il suicidio. Nel mezzo fu il suo travaglio di uomo, di autore, di contemporaneo.
Continua a leggere⤵️
Per ripararsi dalla storia Pavese si rifugiò nel mito
di Marcello Veneziani
Pubblicato il 17 Aprile 2023
Cesare Pavese trovò due modi per sfuggire all’insostenibile gravità della vita: il mito e il suicidio. Nel mezzo fu il suo travaglio di uomo, di autore, di contemporaneo. Quando si tolse la vita, i due rimedi si congiunsero. Pavese aveva con sé il suo libro dedicato al mito, Dialoghi con Leucò, che era lo scritto a cui si sentiva più legato. A Pavese ho dedicato un’antologia dei suoi scritti noti, meno noti e ignoti sul mito, preceduti da un mio ampio saggio (Cesare Pavese, Il mito) uscito in questi giorni da Vallecchi.
Ho raccolto tutte le pagine più significative che Pavese ha dedicato al Mito, anche quelle che gli costarono conflitti e polemiche con la cultura marxista egemone, con l’editoria di area e con l’Intellettuale collettivo, organico al Partito Comunista, a cui pure fu iscritto. Tocco le sue pagine rimosse, come lo “scandaloso” diario del ‘44, in tema di fascismo, antifascismo e amor patrio, tenuto nascosto per quasi mezzo secolo, che lo stesso Italo Calvino, da intellettuale organico al Pci, aveva consigliato di occultare.
Nell’antologia figurano saggi letterari e interventi apparsi su riviste, dedicati al mito, al simbolo, al mistero e alla poesia; testi volutamente dimenticati e qui ripubblicati, a cui si aggiungono scritti tratti da alcune sue opere più note.
Tra gli scrittori della sua generazione, Pavese ebbe un destino assai diverso e singolare, e non solo perché scelse il suicidio quando non aveva 42 anni, e non aveva raggiunto l’apice della sua maturità letteraria. Ma per un’altra ragione che lo rese estraneo al suo tempo, al suo mondo, e al prevalere schiacciante della ragione storica e ideologica: Pavese scelse il mito come la chiave della sua opera e del suo sguardo sul mondo. Ritenne il mito il culmine stesso della sua vita letteraria e della sua concezione della vita, il rifugio più alto e più vero per proteggere l’uomo, il mondo, il destino, la poesia, l’intreccio tra vita e morte, senza ricorrere alla fede. Il mito dell’infanzia, il mito delle sue Langhe, il mito della cultura classica, il mito come concezione del mondo e della vita. Scelse nel mito la verità che coincide con la favola, la realtà che si rivela nel racconto; un sentimento originario che precede le categorie dominanti della sua epoca: la dialettica, il razionalismo, lo storicismo, le ideologie politiche, l’impegno sociale, la rivoluzione.
Il mito impregnò l’epoca tra la prima guerra mondiale, l’interventismo e il nazionalismo, e poi imperò nel mito politico del fascismo che a sua volta si fondava sulla mitologia del Capo, degli Eroi e della Romanità, della Guerra e dell’Italianità risorta. Ma il mito amato da Pavese girava al largo dalla storia, dalla politica, dalle rivendicazioni di primati, imperi e risorgimenti; il suo era il mito nella sua accezione originaria, classica, esistenziale, tragica. Il mito era la forza segreta della Natura rispetto alle forze motrici della Storia, era l’infanzia cosmica e personale rispetto alla vecchiaia progressiva del mondo; era il paese, la campagna, la civiltà contadina rispetto alla metropoli, alla città, alla civiltà industriale, alla lotta di classe; era la potenza del sacro, dello spirito e dell’anima rispetto alla potenza della materia, della macchina e del numero; era il primato del pensiero simbolico sul materialismo dialettico e sul razionalismo; era l’amore liceale per i classici e per la letteratura, la nostalgia del mondo antico, esiodeo e omerico degli dei, rispetto al realismo socialista e al novecento, gremito di idoli ma povero di dei.
Pavese fu un narcisista deluso; invecchiò presto ma restò ragazzo.
Viveva nella città come un adolescente, scrisse Natalia Ginzburg che lo frequentò a lungo. Le sue giornate erano, come quelle degli adolescenti, lunghissime, e piene di tempo; sapeva trovare spazio per studiare e per scrivere, per guadagnarsi la vita e per oziare nei luoghi che amava… Lavorava in moto meticoloso, mangiava poco e non dormiva mai. Ginzburg aggiungeva: “misurava la città col suo lungo passo, testardo e solitario; si rintanava nei caffè più appartati e fumosi, si liberava del cappotto e del cappello, ma teneva buttata intorno al collo la sua brutta sciarpetta chiara; si attorcigliava intorno alle dita le lunghe ciocche dei suoi capelli castani, e poi si spettinava con mossa fulminea. Riempiva fogli e fogli della sua calligrafia lunga e rapida, cancellando con furia”.
Viene da pensare quanto breve sia stata la sua vita d’autore, quanto precoce la sua scomparsa, e quanti altri decenni e quante altre opere, avrebbe potuto avere per approfondire, modificare, superare quel che aveva scritto, vissuto e pensato fino allora. Difficile prevedere se con i miti sarebbe rimasto ancora a lungo intricato o se si fosse convertito col disincanto degli anni e dell’età matura a territori più lontani dall’infanzia, lo stupore e gli dei. O se un maturo scetticismo lo avesse infine portato a ripiegare sull’osservazione smagata della vita quotidiana, senza ardite ascese e rovinose discese. Ma resta di lui quell’immagine estrema della sua solitudine finale in compagnia dei miti nei Dialoghi con Leucò.
Come il canto precede e fonda la parola, come la poesia precede e fonda la letteratura, così il mito precede e fonda la storia. Per risalire al mondo autentico, all’Inizio, a ciò che è davvero originario e permanente, Pavese non vedeva altra via che ritrovare il mito, incamminarsi sulla sua strada. Che resta, anche negli ultimi appunti del suo diario, l’unico altro regno in cui rifugiarsi rispetto alla tragica realtà della condizione umana che poi lo spingerà al gesto, a lungo premeditato, di togliersi la vita. Il mito non è solo gravido di letteratura, insegna alla vita il destino; il mito fa vedere il mondo con altri occhi, sotto altra luce. Ma per lui non fu così, non vide il mondo con altri occhi, perché “verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. E dopo aver visto il mondo alla luce del mito, si lasciò andare nell’ombra, sopraffatto dal buio.
La Verità – 16 aprile 2023