La nostra storia di Dino Messina
Per favore non chiamiamoli solo “briganti”
5 GENNAIO 2018 | di Dino Messina
di Lorenzo Terzi
Il 26 aprile del 1876 lo storico napoletano Pasquale Villari, deputato eletto nel collegio di Guastalla, intervenne nel Parlamento del neonato Regno d’Italia in occasione della discussione del progetto di legge “per un’inchiesta agraria e le condizioni della classe agricola in Italia”. L’autore delle “Lettere meridionali” affrontò il tema della “questione sociale” che, fino a qualche anno prima, era ritenuto un tabù dalla classe dirigente dello stato unitario. Nelle parole di Villari, le rivendicazioni dei contadini non erano più considerate solo manifestazioni di ribellismo criminale. Undici anni dopo la fine delle grandi rivolte in Basilicata, Puglia e Campania, per la prima volta si dava una chiara definizione di cosa fosse stato realmente il brigantaggio, cosa ci fosse dietro e quale consenso avevano potuto raccogliere i sanguinari briganti fra gli agricoltori poveri e i pastori del Sud: “Anche i più onesti del basso popolo” dichiarò Villari “hanno lo spirito contrario al signore, e talmente contrario, che non vedono nel bandito altro che la personificazione gloriosa e legittima della resistenza armata verso chi li tiranneggia”.
Al brigantaggio, inteso come espressione di una grande e tragica questione sociale, è dedicata la monografia di Gigi Di Fiore intitolata appunto “Briganti. Controstoria della guerra contadina nel Sud dei Gattopardi”, edita nel 2017 da UTET. Di Fiore, storico, già redattore al “Giornale” di Montanelli, è inviato del “Mattino” di Napoli; nelle sue pubblicazioni si è occupato prevalentemente di criminalità organizzata e di Risorgimento in relazione ai problemi del Mezzogiorno.
In Briganti, lo scrittore napoletano conferma le sue doti di ottimo divulgatore e, insieme, di ricercatore coscienzioso. Le pagine introduttive del volume esplicitano le finalità e i criteri metodologici cui Di Fiore ha voluto attenersi nella stesura del lavoro: quest’ultimo “non è un trattato sul brigantaggio, ma un insieme di storie documentate raccontate in forma narrativa, attingendo a più fonti”. Il filo conduttore della narrazione è individuato da Di Fiore nel lavoro di Aldo De Jaco sulla “guerra contadina” meridionale. Secondo De Jaco, per comprendere bene le caratteristiche di quel sanguinoso conflitto bisogna conoscere essenzialmente tre vicende: “la prima marcia di Carmine Crocco e della sua numerosa banda fino a Melfi in Basilicata; l’eccidio di Pontelandolfo in provincia di Benevento; la rivolta di Gioia del Colle in Puglia”. Tre vicende esemplificative, “illuminanti sul carattere della guerra del brigantaggio, sugli eroi che dalle due parti la combattevano, sugli obiettivi degli uni e sui metodi degli altri”, spiegò De Jaco. Il libro di Gigi Di Fiore si divide, conseguentemente, in tre sezioni che segnano altrettante storie di capibrigante e, attraverso loro, si allargano sulle vicende emblematiche di cui essi furono protagonisti. Il viaggio passa, dunque, per le vite e le esperienze di Carmine Crocco Donatelli, Cosimo Giordano, Pasquale Romano; nei racconti si incrociano storie di altri capibrigante, tuttora vivi nella memoria e nell’immaginazione del Sud, come Ninco Nanco o Giuseppe Caruso.
Ulteriori tracce e ispirazioni sono state fornite a Di Fiore dai testi sulla cultura contadina meridionale, che in quella guerra subì un decisivo colpo mortale: “La cultura dei silenzi, dei ‘cunti’ dinanzi al camino, delle preghiere alle Madonne nere, delle feste religiose, delle fattucchiere, delle simbologie dettate dai morti, della solidarietà familiare e della diffidenza verso gli estranei che non ti regalano mai nulla”. Una volta sconfitti, gli esponenti di quella cultura furono espulsi da una compagine statale che non aveva tempo né intenzione di occuparsi di loro.
Cinque anni, uno stato d’assedio, ventiquattro mesi di leggi speciali, oltre centomila soldati, 1400 centri abitati coinvolti, molte migliaia di morti fra i “briganti” veri o presunti, parecchie centinaia fra i soldati impiegati nella repressione: fu questo l’amarissimo bilancio – con ogni probabilità arrotondato per difetto – di quella “sporca guerra”. L’autore di “Briganti” non nasconde che non si trattò certo di “un conflitto di educande”. Gli episodi efferati furono tutt’altro che rari, da ambo le parti: testicoli strappati ai cadaveri, gambe e braccia mozzate ai feriti, teste tagliate per facilitare il trasporto dei corpi degli uccisi, spoliazioni ai danni dei soldati morti. Si ebbe poi, significativamente, un alto numero di “doppiogiochisti”, che aspettarono per capire cosa sarebbe accaduto in quei mesi di precarietà istituzionale e di confusione. Tali furono, rileva Di Fiore, molti proprietari terrieri meridionali, che aiutavano i briganti mentre ospitavano gli ufficiali piemontesi: per paura, certo, ma anche per calcoli opportunistici, dettati dall’incertezza del futuro. Chi appoggiava i briganti venne marchiato con l’accusa di “manutengolismo”; qualche proprietario terriero andò pure sotto processo per difendersi da quell’accusa. Alla fine, però, i “galantuomini” riuscirono sempre a cavarsela, sfruttando la concessione dell’amnistia che Vittorio Emanuele II firmò per cancellare i reati politici collegati alla rivolta nel Sud d’Italia. Si trattò – nota ancora l’autore – di uno strumento giuridico di pacificazione, ma anche di “un sigillo formale alla continuità delle classi dirigenti del Sud”. Dall’amnistia rimase escluso chi aveva ucciso o rubato, ovvero chi aveva commesso reati non riconducibili alla mera fattispecie dei “delitti d’opinione”. Giustizia “di classe”, in altri termini: “i poveri cristi, i contadini, quelli che insomma avevano alimentato il brigantaggio sporcandosi le mani, finirono in galera o fucilati”. I “galantuomini”, invece, vennero perdonati e il loro opportunismo, alla fine, fu premiato dal nuovo Stato unitario, che non poteva fare a meno del loro appoggio politico e dei loro soldi.
Ferme restando le cause sociali del brigantaggio, Di Fiore non nasconde l’apporto della reazione borbonica, con le sue rivendicazioni politiche più o meno velleitarie, alla guerra civile esplosa nel Mezzogiorno all’indomani dell’unità; al contrario, ne mostra i punti di incontro e di scontro con la rivolta contadina. A Marsiglia, come a Trieste e Roma, i comitati legittimisti, “animati da molti ex alti ufficiali che preferirono cospirare più che combattere”, si misero in contatto con i capibrigante, promettendo loro onori e denaro per proseguire la guerra “contro i soldati invasori piemontesi”. Arruolarono persino ufficiali legittimisti stranieri – il più famoso dei quali fu probabilmente lo spagnolo José Borjes – da unire alle bande allo scopo di controllarle e dare al conflitto un significato chiaramente politico. L’alleanza strategica di fatto tra monarchia borbonica e contadini fu però superficiale e di breve durata. Gigi Di Fiore, infatti, non manca di notare che le bande brigantesche si ingrossarono rapidamente a causa di una sequenza impressionante di provvedimenti impopolari varati dallo Stato italiano: “le leve militari per una ferma di cinque anni, disertate da migliaia di contadini ed ex soldati borbonici; lo scioglimento dell’esercito meridionale di Garibaldi; l’aumento delle tassazioni fondiarie; la mancata distribuzione delle terre demaniali su cui avevano sperato fittavoli e braccianti”.
Significativa, in tal senso, è la biografia di Carmine Crocco Donatelli: prima di darsi alla macchia, Crocco era stato soldato nell’esercito di Ferdinando II. Arrestato per aver commesso un omicidio, era riuscito a evadere dal carcere di Brindisi insieme con un altro “brigante” destinato alla celebrità: Giuseppe Nicola Summa di Avigliano, detto “Ninco Nanco”. Approfittando dei rivolgimenti politici del 1860, i due si unirono alla Guardia nazionale che era agli ordini del sottoprefetto Decio Lordi a Melfi, dietro la promessa di libertà e amnistia a rivoluzione finita. Nella sua nuova veste, Crocco combatté addirittura sul Volturno contro le truppe borboniche; il 21 ottobre 1860, giorno del plebiscito per l’annessione, fu tra coloro che a Ripacandida costrinsero la gente a votare per il sì impiegando metodi alquanto spicci. Ma, nel momento in cui si recò a riscuotere la “cambiale” del periodo garibaldino, Donatelli si sentì rispondere che gli sarebbe stato impossibile ricevere la grazia “senza preliminare giudizio”. Al tradimento personale si aggiunse, poi, quello collettivo. Con il cambio di regime, molti contadini avevano sperato in buona fede nel miglioramento della loro condizione sociale. Ben presto, però, i decreti dittatoriali spensero ogni illusione. Nessuna ripartizione di terre, anzi: “i conduttori di fondi altrui sappiano che dovere, movente non già da leggi umane ma da principi sacrosanti della morale e della religione, è quello che incombe di soddisfare i contratti a cottimo (gli estagli) e le rendite da loro dovute”.
Si perse così, suggerisce Di Fiore, per miopia, per egoismo di classe, per avidità, l’occasione di conquistare al nuovo ordine politico le masse popolari; si preferì la via delle fucilazioni a quella degli investimenti produttivi e del consenso. Se ne dimostrò consapevole il deputato calabrese Agostino Plutino, “garibaldino della prima ora, per ben sette volte deputato”, che osò rilasciare in Parlamento una dichiarazione assai ardita per quei tempi, riportata dall’autore di Briganti nella prima delle tre appendici che chiudono il volume: “Se il Governo mette a calcolo tutte le somme che ha dovuto dare per spese segrete di pubblica sicurezza, per domicilio coatto dei manutengoli, per compensi pagati per avere qualche brigante nelle mani, per tutti gli agenti della forza pubblica, per tutte le squadriglie, vedrebbe che sono centinaia di milioni spesi per questo. Se aveste speso soli 30 o 40 milioni in quelle province, a quest’ora la pubblica sicurezza l’avreste avuta”.
Gigi Di Fiore conclude, quindi, la sua monografia mantenendosi coerente alle premesse interpretative e metodologiche dell’introduzione. In tal modo raggiunge ancora una volta un ottimo equilibrio fra storiografia scientifica e divulgazione, evitando di cadere negli opposti estremismi della retorica risorgimentale e del vieto neosudismo. Per rendere più agevole la lettura, in Briganti le note sono state ridotte: alla fine di ogni sezione vengono riportate solo le fonti principali, tra le tante consultate, nelle ricostruzioni dei personaggi e degli avvenimenti. È una scelta narrativa diversa da quella dei precedenti lavori di Di Fiore, dettata – come egli stesso ammette, con molta onestà intellettuale – dal “particolare coinvolgimento emotivo” da lui provato nel rievocare le storie del brigantaggio postunitario.