” Lo cunto de li cunti ” di Giambattista Basile e’ il testo della plebe tumultuosa e violenta. Ma la sua ” lingua tosta ” fu addolcita dal grande critico
PENTAMERONE Cosi’ Croce tradi’ Napoli
L’ antica e incompresa raccolta di fiabe popolari
Quando si dice Lo cunto de li cunti si vuol dire il primo e il piu’ grande di tutti i racconti (cosi’ come si dice “il Cantico dei Cantici” e “il Re dei Re”). E tale e’ Il Pentamerone di Giambattista Basile, raccolta di cinquanta racconti di fate divisa in cinque giornate (penta me’ ron). E’ il primo e il piu’ grande di tutti i racconti della nostra tradizione in dialetto napoletano, non solo perche’ ne e’ il fondamento, ma perche’ ne segna anche il punto piu’ alto. Infatti non e’ una raccolta di fiabe anonime come ce ne sono tante, ma di racconti fiabeschi e fantastici di un unico autore dotato di genio e di grande versatilita’ . Il dialetto in cui e’ scritto Il Pentamerone oggi non e’ piu’ parlato, ed e’ difficile anche alla lettura. E’ il dialetto napoletano del Seicento, il dialetto della plebe tumultuosa di quel tempo. Nel libro L’ armonia perduta ho cercato di spiegare a modo mio le ragioni per cui il cambiamento e’ avvenuto, e come la “lingua tosta”, cioe’ dura e senza la musicale dolcezza che vi fu aggiunta dopo, fu a poco a poco trasformata nella “lingua molle” . il dialetto parlato oggi a Napoli, non piu’ terribile e certo meno tosto . da una borghesia spaventata dagli eccessi della plebe, dalle stragi e dagli orrori che posero fine alla Rivoluzione del 1799, a quella guerra civile tra napoletani che insanguino’ la citta’ e ne muto’ per sempre il destino. Fu un processo lungo e complesso, e non solo linguistico, quello che trasformo’ il dialetto del Basile in quello di Di Giacomo e delle canzoni napoletane, un processo che porto’ al graduale depotenziamento e alla graduale disattivazione del potere distruttivo della plebe napoletana, della sua vitalita’ e della sua ferocia, da parte di una borghesia che riusci’ ad irretirla e ad ammansirla anche attraverso la diffusione di un dialetto piu’ armonioso e aggraziato. Lo cunto de li cunti e’ dunque scritto nella “lingua tosta” ed e’ una vera “summa” del dialetto napoletano dell’ epoca. Ma questo dialetto trattato con sofisticata esperienza letteraria nella costruzione delle frasi e delle metafore da’ vita a un’ opera singolare, di gusto barocco, che puo’ essere collocata accanto alle opere maggiori nate a Napoli tra il Seicento e il Settecento. Dunque Il Pentamerone e’ il “cunto de li cunti” della plebe napoletana, un’ opera letteraria di prim’ ordine, ed e’ l’ humus culturale da cui ancor oggi attingono linfa e ispirazione molti scrittori napoletani anche diversissimi tra di loro, come ad esempio il Rea di Ninfa plebea e la Ortese del Cardillo addolorato; ed e’ anche il vertice dopo il quale si perse a poco a poco il grande stile, lo stile naturalmente europeo di Napoli, Capitale stracciona e plebea quanto si vuole, ma pur sempre Capitale. Il libro del Basile, pubblicato a Napoli nel 1637, ebbe una certa diffusione nel Seicento e Settecento e poi fu quasi dimenticato in Italia e persino a Napoli. Fu invece letto e tradotto in piu’ lingue in Europa, imitato da Perrault e poi dai fratelli Grimm, e fu considerato uno dei piu’ grandi monumenti della cultura e della fantasia di tutto un popolo. Nella sua postfazione Ruggiero Guarini, che lo ha tradotto per l’ editore Adelphi nell’ italiano di oggi, fa osservare che curiosamente, proprio quando questo libro fu scoperto dalla cultura, fu abbandonato dal lettore comune. I suoi estimatori furono prima di tutti Luigi Serio, che lo difese in polemica con l’ abate Galiani, poi Vittorio Imbriani, e infine Benedetto Croce che nel 1925 ne fece una traduzione in lingua. Nel suo libro I testamenti traditi Milan Kundera scrive che nella storia della narrativa europea ci sono tre momenti: il primo e’ quello dello stato nascente della narrativa, quando col Don Chisciotte nasce il romanzo come lo intendiamo oggi. In questo periodo (che e’ poi pressappoco quello del Pentamerone) e per tutto il Settecento, la realta’ e’ ancora un territorio vergine, e tutto e’ possibile accogliere, tutto e’ possibile dire, in un’ opera di carattere narrativo. Sono quelle di questo periodo narrazioni “di improvvisazione”, nel senso che uno scrittore puo’ saltare da un episodio all’ altro, da una cosa all’ altra, improvvisando, senza preoccupazione, con quel modo di raccontare che gia’ appartenne al Satyricon, all’ Asino d’ oro o alla novella classica come Amore e Psiche. Il secondo stadio e’ quello del romanzo dell’ Ottocento, il grande romanzo di Balzac, di Dostojevski, di Dickens, di Tolstoj, di Stendhal. E qui finisce l’ improvvisazione e comincia, per lo stesso carattere di questi romanzi e per la natura delle storie e dei personaggi che ci presentano, la necessita’ della costruzione. Non piu’ libero e’ il narratore di saltare di palo in frasca, ma deve aderire alla sua storia e ai suoi personaggi per costruirli a poco a poco nel modo piu’ verosimile. Deve dunque diventare architetto, ingegnere e costruttore di romanzi. Il terzo stadio e’ quello dei romanzi del Novecento, quello di Musil, Proust, Joyce, Broch, Mann, dove la costruzione ottocentesca diventa musicale, diventa sinfonica, e per esser tale gioca col linguaggio o con la struttura, che diventa piu’ fluida e piu’ ritmica, come una partitura. Il Pentamerone appartiene al felice stadio della narrazione allo stato nascente, alla narrazione dell’ improvvisazione e della liberta’ , dello sfruttamento delle terre vergini della realta’ e della fantasia. E su questo punto oserei discostarmi un po’ dall’ opinione di Croce che lo vedeva erede del Rinascimento, di scrittori come il Pulci e il Folengo, in un certo senso percio’ ancora costretto entro i binari di una tradizione letteraria precisa. La nascita della nuova arte conferisce, secondo Kundera, una incredibile ricchezza alle narrazioni di questa eta’ dell’ oro del racconto. “Vi si trova di tutto, il verosimile e l’ inverosimile, l’ allegoria e la satira, i giganti e gli uomini normali, gli aneddoti, le meditazioni, le digressioni e il puro virtuosismo verbale. Il romanziere di oggi leggendo uno di questi libri prova nostalgia ed invidia per l’ universo splendidamente eteroclito della loro epoca e per la liberta’ di cui godevano i loro autori”. Io ho trovato questa liberta’ , che e’ liberta’ di fantasia, di immagini, di parole, di situazioni, nelle pagine del Pentamerone, piu’ che il ricordo degli scrittori del Rinascimento cui accenna Croce. Ed ho provato nostalgia e invidia per le infinite “improvvisazioni” consentite allora al narratore. Come ad esempio questa specie di “lifting” cui ricorre una vecchia nel racconto La vecchia scorticata: “Ma venuta la notte che aveva come la seppia gettato il nero, la vecchia tiratesi tutte le grinze della persona e fattene un nodo dietro le spalle legato stretto con un capo di spago, se ne venne al buio dentro la camera del re e si schiaffo’ dentro il suo letto”. A questo esempio potrei aggiungerne infiniti altri, esempi non solo di stratagemmi e risorse a questa simili ma anche e soprattutto di liberta’ verbale, di frasi e costruzioni di frasi, di metafore talmente iperboliche, fantasiose e paradossali che soltanto il barocco, con la sua artificiosa e travolgente capacita’ di complicazione, con il suo proteiforme ribollire, con le sue innumerevoli possibilita’ di proliferazione, avrebbe potuto contenere. Di fronte a questa ricchezza di situazioni, di linguaggio, di fantasia e’ sembrato a qualcuno, per esempio a Pietro Citati, che non tanto di “versione maliziosa del barocco” (come voleva Croce) fosse questione ne Lo cunto de li cunti, bensi’ di una forma narrativa per accumulo, simile ad uno stregonesco miscuglio, a un intruglio fatato gettato in un melting pot come quello delle streghe del Macbeth, a un ribollire di scrittura e immagini e metafore dotato dello stesso potere incantatorio. E c’ e’ infine un’ altra ipotesi interpretativa, che e’ anche la mia, e che parte piu’ che dalla forma dalla vera sostanza del Pentamerone, che e’ realistica, fatta di quella realta’ tremenda ed abissale e piena di chiaroscuri cui prima mi riferivo, la realta’ ancor viva della plebe napoletana, e non a caso le metafore prevalenti in questo libro sono quelle del passaggio tra la notte e il giorno e viceversa, cioe’ tra il chiaro e lo scuro, tra la luce e l’ ombra (come ha notato anche Calvino); visto sotto questo aspetto Il Pentamerone e’ un libro caravaggesco, che rispecchia lo stesso realismo barocco fatto di dure luci e nere ombre, lo stesso realismo che si vede nelle tele del Caravaggio. Per concludere vorrei parlare delle traduzioni del Pentamerone e specialmente di quella di Ruggiero Guarini proposta in bella edizione da Adelphi. La prima traduzione e’ quella di Croce, del 1925. Ma Croce, per la sua costituzione e forma mentis, non amava il barocco, lo ha dichiarato piu’ volte, lo considerava “insopportabile”, “pesante” e “vacuo”. Dunque quando Croce traduce cerca inconsciamente una regolamentazione del testo per metterlo in riga e farlo accogliere dalla letteratura italiana. Il registro alto e quello basso tendono nella traduzione del Croce non a comporre quella miscela ad alta tensione narrativa di cui parla Citati, ma ad equilibrarsi in un’ armonia che incivilisce, tempera e addolcisce. Per esempio il Croce traduce: il re “squadro’ per lungo tempo dal capo al piede quella meraviglia di creatura”. Il testo invece dice: “Chillu bellu piezzo de schiantune”, cioe’ : “Quel bel pezzo di schiantona”, come appunto traduce il Guarini. (E tra l’ altro si dice ancora oggi di una ragazza che e’ “uno schianto”). La traduzione di Michele Rack, pubblicata da Garzanti, mi sembra accurata, ma poco attenta ai mutamenti nel gusto letterario in questi ultimi anni: ha pero’ il pregio di avere il testo originale accanto, per chi volesse consultarlo. La traduzione di Ruggiero Guarini, infine, anche a detta di Citati, supera quella, pur bella, di Croce, perche’ e’ la piu’ consapevole delle trasformazioni della lingua in questo secondo Novecento in cui abbiamo fatto esperienza del “pasticciaccio” plurilinguistico di Gadda e dei tentativi analoghi dei suoi nipotini. Ogni libro, e dunque anche Il Pentamerone, richiede una doppia lettura: quella corrispondente al gusto e alle intenzioni dell’ autore, nel suo tempo; e quella che stabilisce un rapporto tra quel tempo e il nostro, un rapporto culturale (e creativo) con la contemporaneita’ . Nella traduzione di Guarini questa doppia lettura e’ rispettata; ed e’ anche mantenuto, dell’ originale, il registro alto e il registro basso, e persino vengono trasferite nella lingua, pari pari, locuzioni strettamente dialettali, facendole passare attraverso assonanze o inserendole in un contesto che le renda plausibili. E cosi’ oggi possiamo davvero dire che Il Pentamerone, dopo un lungo periodo di oblio, e’ ritornato a far parte della letteratura italiana, come desiderava Croce; e possiamo prendere atto che l’ Italia possiede nel Cunto de li cunti di Giambattista Basile il piu’ antico, il piu’ ricco e il piu’ artistico fra tutti i libri di fiabe popolari.
La Capria Raffaele
Pagina 33
(25 novembre 1995) – Corriere della Sera