“Vivere sulla faglia: il cammino di una rinascita” di PAOLO RUMIZ e foto di Alex Scillitani “Scillo”
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Reportage in otto pagine pubblicato su Repubblica in edicola oggi, 31 marzo 2017 insieme a un mini documentario di Alex Scillitani
di Paolo Rumiz, fotografie di Alessandro Scillitani
Dopo le rovine non si videro più uomini e la montagna si fece aspra e solitaria. Da una sella battuta dal vento i sette iniziarono a scendere nella nebbia per un canalone innevato, e fu proprio alla fine di quella discesa che il sole squarciò il grigio, sfolgorante in un cielo pervinca, svelando sulla destra i monti immacolati della maga Sibilla e, sulla sinistra, in un mormorio di ruscelli del disgelo, un’ampia, inattesa conca quasi mongolica, coperta da una moquette di erba rasa, disseminata di crochi, ellebori e cuscini di primule, protetta da ogni lato da una cornice di alture.
Fu lì che ad essi tutto apparve chiaro. Quella distesa incantata e invisibile dal basso, chiamata Pian Grande, dove l’unico modo di camminare era andare scalzi per meglio sentire la voce della Terra, quella prateria già serpeggiante di vita che a maggio avrebbe conosciuto la più celebrata fioritura d’Europa — il giallo, il viola, il rosso e l’azzurro delle lenticchie, dei papaveri e degli iris — era il centro della linea di faglia che aveva scosso l’Appennino e allo stesso tempo il centro perfetto della Penisola che stava al centro del Mediterraneo.
Con quel cielo pulito, essi capirono che, mille metri sopra i pascoli, sulla cresta nevosa di un monte cui era stato dato il nome di Redentore forse per rabbonire le divinità del Profondo, sarebbe stato possibile vedere a Nordest la tavola blu dell’Adriatico e a Sudovest, oltre il Terminillo, la costa del Tirreno. Ma videro pure che sul pendio — bianco e regolare come l’Ararat e l’Etna — la lunga cicatrice d’Appennino, cavalcando la scarpata a mezzacosta, ammoniva gli umani, visibile a distanza proprio grazie alla neve. In fondo alla conca, l’unico abitato, la rocca di Castelluccio ridotta in macerie, ne confermava la sovranità assoluta.
Il gruppo si rese conto di essere l’unica presenza in quella distesa tibetana e conobbe un attimo di strana, guardinga euforia. Non c’era nulla di simile sulle Alpi. Nessun luogo dove paura e incantamento, inferno e paradiso, tellurico e fertile, si sposassero in modo così intimo per garantire il ciclo vitale. Era quello sposalizio che andava narrato, prima che la sagra di primavera ricominciasse. Dopo gli anatemi, i lamenti e le lamentele della distruzione, era venuto il tempo di narrare il silenzio, quello dell’alta quota e dell’abbandono, ma anche il silenzio di chi senza clamore già operava per ricominciare.
In questa traversata a piedi dell’Appennino dopo il terremoto parleremo poco di macerie. Narreremo piuttosto la bellezza, nell’intento di costruire un canto del nuovo inizio, una “ suite” di neve, stelle e praterie, capace di propiziare una rinascita. Tutto questo, sapendo che, sisma dopo sisma, la terra di mezzo ha saputo ricominciare infinite volte. Almeno da quando, migliaia di anni fa, i popoli dell’Asia centrale portarono qui i loro armenti e le loro sementi — farro, cicerchia, e con essi i fiori selvaggi che qui hanno trovato un habitat unico al mondo — e intuirono che Persefone e Cerere, la dea degli inferi e quella delle messi, si davano la mano proprio ai piedi di questa cordigliera, colonna vertebrale di un mondo nuovo.
Illustrazione di Marta Signori
In sette abbiamo camminato sulla linea di faglia, per un tratto di una settantina di chilometri. Oltre a chi scrive, Elisa Brivio, lombarda, Riccardo Carnovalini, ligure, Paolo Piacentini, laziale trapiantato nelle Marche, Anna Rastello, piemontese, Alex Scillitani, emiliano, e Livio Sirovich, triestino. Itinerario: dalle porte di Amatrice a Visso, attraverso Norcia, con finale al santuario del Macereto, il tutto attraversando tre fiumi ( Velina, Tronto e Nera) e tre regioni ( Lazio, Umbria e Marche). Uno zigzagare di fine inverno con sacco a pelo, taccuino, cinepresa, carte geologiche e mappe di sentieri, compiuto spesso in solitudine, talvolta in “zone rosse”, quasi sempre in terre dimenticate o sorvegliate dalle forze dell’ordine.
Qui, come nel 2015, durante la riscoperta dell’Appia antica, arrivare a piedi, umilmente, in spazi remoti equivale a una dichiarazione d’amore per i luoghi e le persone, qualcosa che stupisce e conforta i rimasti e gli sfollati, e dice loro che forse vale la pena non mollare. E la nostra è stata appunto una ricerca di luoghi e persone. Dei “ resistenti” soprattutto. Gente tesa a cercare per l’Appennino una narrazione nuova, una formula inedita di rinascita e soprattutto di appartenenza. Sotto i Monti della Laga e i Sibillini ne abbiamo trovati di straordinari, ed è ad essi che abbiamo dato la parola, per fare di questo racconto una polifonia di voci.
Facce sannite, picene, greche, bizantine, longobarde, dunque italianissimo frutto di migrazioni; inquiline delle stesse montagne che hanno visto nascere Benedetto, il patrono d’Europa. Il santo che, con la giusta formula, con una rete di monasteri, ha riportato la vita in spazi abbandonati dagli uomini, ricostruendo un intero continente da un mare di macerie, quelle dell’Impero romano. Incontrando questi piccoli eroi, ci siamo convinti che le forze per la rinascita esistono, sono già attive e possono far sistema da subito, a patto che la politica — cosa niente affatto scontata — sia capace di costruire sinergie, anziché isole di sterile concorrenza.
Amatrice dunque. Peripli estenuanti per raggiungere i bungalow dello “Scoiattolo”, base del primo pernottamento, per via dei blocchi stradali. Spiegamento esagerato di polizia, esercito, pompieri, carabinieri, protezione civile, vigili di Roma Capitale, e non basta ancora, a fronte di una ricostruzione inesistente. Pare la Bosnia: strade deserte, sfollati, mimetiche, surreale contiguità di case intatte e case polverizzate, percezione di un pericolo che non sai bene dove sia e di una macchina burocratica che ha fame di macerie per esistere. Ma anche il sospetto, tutto italiano, che le divise siano lì a presidiare un set.
Povera Amatrice, acquasantiera di troppi politici in cerca di visibilità; trampolino di un sindaco littorio che periodicamente tuona alla radio locale contro l’Italia matrigna — viva la contea di Amatrice! — come in un’edizione appenninica di Brexit. L’idea che la colpa è sempre altrui è ormai una sindrome europea. Siamo nel Lazio, ma Roma è pazzescamente lontana, estranea, ripiegata sulle sue magagne. La Tv dà sempre le stesse notizie: terrorismo, immigrazione, camorra, papa Francesco, meteo e Champions League. Verso Campotosto, dove un relativo silenzio sismico fa credere — senza prove — a un nuovo imminente “ big bang”, la barriera innevata dei Monti della Laga annega nella luce rosa del tramonto, in un vento profumato di primavera. L’idillio, sopra la distruzione.
Nella frazione di Torrita, i cavalli di Fabio Iappariello non hanno resistito all’inverno. Ora deve “smaltire” le carcasse delle sue bestie.
La sofferenza degli animali è quasi ignorata dalle istituzioni. Gli animali, si sa, non votano, non protestano.
Fabio, gigante barbuto del Soccorso alpino, lo sa bene. Ma sa anche che «qui si rinasce sempre» e che la decisione di restare non dipende da fattori esterni, perché «la devi prendere dentro di te». Ribadisce: «Io rimango, e mia moglie pure». Nemmeno i lupi, mai così bassi, lo scoraggiano. «Il problema sono i cinghiali. Ettari ed ettari sconvolti».
Riccardo, l’esploratore nominato capobanda al nostro manipolo, ci ha già dormito, ad Amatrice. Era il 1981, quando s’è fatto tutto l’Appennino a piedi in 122 giorni, con 100mila metri di dislivelli in salita. È uno che passa dappertutto, anche in assenza di sentieri. Constata che l’albergo di quel suo primo passaggio è crollato, con i gestori e quindici ospiti dentro. « Non puoi capire — dice — se non hai visto questo posto prima della distruzione». La sera, sulla strada attorno al lago artificiale dello Scandarello la natura è già in fregola, i fari illuminano centinaia di rospi che copulano sull’asfalto ancora caldo.
L’ultimo ad arrivare è Livio, il sismologo della banda. Nello zaino ha anche una tendina, per dormire all’aperto, non si sa mai. La corriera da Roma Tiburtina lo ha scaricato nel nulla, in località Ponte Nea, lungo la Salaria, a notte già iniziata. Ed è cena da scoppiare, per dieci euro, al ristorante “La Valle”, popolato di finanzieri in giubbotto antiproiettile, l’unico rimasto aperto per decine di chilometri, dove una gricia tanto buona quanto micidiale mi promette una notte di pena.
In cammino tra narcisi e macerie dentro al cuore fiero d’Italia
Primo giorno.
Alle 6.02 un botto del 3.2 Richter ci strappa alle cuccette del bungalow. Un colpo secco, come un salto a piè pari sul pavimento. « Roba da niente » , ghigna il sismologo. Fuori albeggia tra sfilacciature di nubi e lo scroscio impetuoso del torrente. Arrivare in paese a piedi pare la fiaba della Bella addormentata. Tutto fermo al 24 agosto.
In Friuli, nel ‘76, dopo sette mesi, già si ricostruiva. Amatrice invece è un trionfo di transenne e macerie.
C’è un solo bar aperto, sul bivio L’Aquila- Campotosto, militarizzato da una folla di maschi in divisa attorno alla bionda banconiera. Ed è la partenza, al profumo italiano di cornetto e cappuccino.
« Qui la faccenda è semplice: è crollato quello che doveva crollare », taglia corto Marco Salvetta, ingegnere strutturista e presidente del Cai locale. Come dire: il sisma è stato il collaudatore di un paese già in pessime condizioni. Marco ci deve far da guida per sentieri, ma impreviste bande di plastica giallina ci bloccano dopo appena 50 metri. Una soldatessa in mimetica e un vigile di Roma Capitale, gentilissimi, ci fanno passare solo dopo aver preso i nostri nomi. Qua è tutto il contrario di quel che si crede. I rimasti sono un intralcio. Aprire un negozio di alimentari è vietato. Perché? Mistero, ordini superiori.
In una viabilità impossibile, restano i sentieri. Col sisma sono stati la più efficiente delle vie di fuga per gli abitanti e il migliore accesso al paese per i soccorritori. Domani potrebbero indicare la via del ritorno. Vaglielo a spiegare a Roma che quei tracciati sono infrastrutture a tutti gli effetti, come le autostrade. Ma quelli del posto l’hanno capito da sé, curando una segnaletica perfetta. «Abbiamo fatto tutto da soli», spiega Salvetta, a dimostrazione che le cose dal basso funzionano, e per giunta non costano. E via, si parte, tra pietrame e foglie secche, fino alla faglia che coincide col fiume Tronto, per risalire sull’altro versante, il più dimenticato e distrutto, sotto le nevi immacolate della Laga.
« Che fantastica traversata di cresta » , sospira il nostro Paolo Piacentini, collaboratore del Governo per i cammini d’Italia, come per non vedere le rovine di fondovalle. Quello spartiacque aereo, da deltaplani, l’ha percorso più volte; come Riccardo, la nostra guida.
«Lassù, fino a ieri, i pastori ti facevano la ricotta calda. Ma è un mondo finito. Oggi calpesto luoghi fantasma, vedo solo sguardi di sopravvissuti in cerca di ascolto. E allora alzo gli occhi e vedo le stesse montagne che fin dai miei vent’anni hanno saputo trasmettere l’essenza del mio passaggio terreno. Qui abita la mia anima. Qui nulla sarà come prima. Ma sarà. Ne sono certo».
Separati da canaloni, guadi e sterpaglie, Cornillo e Rocchetta non esistono più. È molto peggio di Amatrice, ma — forse perché arriviamo a piedi — non troviamo transenne. Niente divise, fuori dal set televisivo. Per attraversare i paesi scavalchiamo a fatica macerie e sventramenti aperti sull’intimità delle case. Tendine di pizzo, letti, librerie, culle, lampadari, biancheria ad asciugare. E intanto Livio, il sismologo, ci descrive la tempesta di stratigrafie che ci circonda, in un terreno che pare una torta millefoglie. Il terremoto? Nient’altro che gli ultimi sussulti di qualcosa che ha avuto inizio 23 milioni di anni fa.
E ancora pascoli, seminativi di orzo e farro curati da mani ignote. Sopra il santuario quattrocentesco della Madonna di Filetta, imbragato da travi d’emergenza, una prateria decolla verso le nevi dell’ultimo monte della Laga, dal nome allarmante di Macera della Morte, sulla cui cima Lazio, Umbria e Marche si toccano giocando con la banderuola dei venti. Un piano inclinato perfetto per una sciata di primavera. Pietro Casini, un allevatore di Cornillo Vecchio, ci ha appena spiegato che è quel monte a proteggere la valle dalle tempeste del Nord. Il peggio è sempre sull’altro versante. Lì la neve scende più in basso. La vedono anche le navi, sulle rotte adriatiche. E da Teramo l’Appennino pare un gelato al limone.
Ricevo un messaggio da Vicenza. È di Sabina Marchioro, una che è scesa ad Amatrice come infermiera volontaria, poi a Norcia e anche a Camerino, città universitaria di cui stranamente nessuno parla.
«Sto incontrando dirigenti, industriali che fanno donazioni a chi ha un progetto in mano. Sergio Serafini ha lanciato un’idea chiamata Bibliohub, una biblioteca mobile, capace di portare in giro cultura e socialità. Gli do una mano. Vorrei che se ne parlasse. Ma sono in difficoltà un po’ tutti. Commercianti, settore turismo, abitanti. La semina delle lenticchie è stata ridotta di molto, alcuni formaggi son fuori produzione come tanti prodotti tipici. Del sisma non si parla più. Un giornalista di Milano mi ha scritto che il suo lavoro è notizia, non pubblicità e aiuto. Oggi, chi si impegna a tempo pieno per la vita viene anche deriso. Mi sento terremotata nell’anima».
San Lorenzo e Flaviano, l’apocalisse. Nessuno in giro. Cammini, e senti solo lo scricchiolio delle tue suole. Case in muratura di una povertà sconcertante. Pietre non squadrate, tenute assieme da terra anziché dalla malta. Con un’edilizia simile non c’è santo che tenga. Nemmeno Sant’Emidio, che pare abbia funzionato invece a Norcia. Qui, dove non è rovina, è terra rivoltata dai cinghiali. Roulotte nuovissime e vuote, dimenticate da mesi. In assenza di numeri civici, cartelli col nome e il telefono del proprietario indicano le proprietà. Perché non si muove niente? Questioni giudiziarie e assicurative, dicono. C’è dell’abusivismo nella “contea” di Amatrice, e i controlli non finiscono mai, dilazionano tutto. I sindaci, terrorizzati dalla magistratura.
« I politici vanno solo ad Amatrice, ed è meglio così: se venissero darebbero fastidio » . Così brontola Pietro Ranaglia, capo di una famiglia di cinque persone, tra i pochi a non aver mollato la frazione di Casale, dove le abitazioni in pietra si sono sedute su se stesse, appiattendosi come un sandwich. Abita in una struttura in legno e col figlio Francesco cura i suoi campi e le bestie.
Trecento metri più in basso, oltre il fiume Tronto, la vecchia Salaria, oggi Provinciale 61, è chiusa al traffico per frane e offre un magnifico attraversamento pedonale verso Accumoli. Alla nostra sinistra, a picco sulla strada, si solleva un’onda di marea fatta di pietra, roba solida, di epoca giurassica e cretacica. A destra, oltre il fiume che spumeggia verso l’Adriatico, il terreno più fragile del Terziario, disseminato di faglie attive.
Camminiamo sullo stradone deserto, lungo guard- rail deformati dalla contorsione sismica e reti para-massi bombardate dai crolli. Pali della luce, tranciati a metà, oscillano sul fiume, appesi come una teleferica ai fili della corrente. Verso Accumoli, ecco una casa trompe- l’oeil, la facciata con i vetri intatti e, dietro, il cielo. L’interno appeso a quell’unico muro è visibile come ai raggi X. Una credenza, una biblioteca, una porta semiaperta. E meno male, spiega il nostro sismologo, che tutto è «in fase di assestamento e distensione». Come dire che il terremoto è solo il sussulto di una muscolatura che si rilassa. «La fase di caricamento e compressione è finita da tempo». Amen.
Accumoli: paese fantasma, sposalizio primaverile di narcisi e macerie. Pietro Ferranti, valligiano amico di Piacentini, ci aspetta per portarci in macchina nell’unico posto dove è possibile pernottare, a una quindicina di chilometri, sopra Acquasanta in terra marchigiana. L’ultimo b&b del Lazio, sulla Salaria, che anni or sono fu la “Casa Nanni”, è crepato e inagibile. Sulla facciata, una targa in pietra narra una vecchia storia italica di crolli e invidie. «Precipitò questa fabrica nel 1877. Per dispetto dei maligni la rifece assai meglio di prima nel 1879 coll’ajuto di Dio e Maria S.ma e col proprio sudore, industria ed ingegno il proprietario Giuseppe Forcetta».
Sopra di noi, il colosso del Monte Vettore, avanguardia dei Sibillini, con l’inconfondibile forma di sella e il precipizio innevato che incombe come un ferro da stiro su Arquata del Tronto.
Ferranti, lapidario: « Sono rimaste le montagne. Il resto non c’è più » .
Eppure sono queste montagne tra due mari il fulcro del ritorno dopo la tragedia. Non ho mai capito perché l’Appennino soffra di un complesso di inferiorità nei confronti delle Alpi. Le Alpi sono frontiera, ma vivaddio l’Appennino è il cuore del Paese. Ed è pazzesco come — complice la politica — questo indiscutibile centro sia sentito marginale dai suoi stessi abitanti, pronti a imitare le casette in legno con gerani dell’Alto Adige anziché attingere alle loro radici.
La mia prima montagna? Le Alpi. Ma è stato l’Appennino a sedurmi nella maturità: questa montagna medievale, barbarica, dai sapori forti, che è diventata la mia seconda patria. Mi illudo che tornarvi, per me che sono del Nord, serva anche a riportare le terre di mezzo alla percezione corretta di se stesse, a restituire agli indigeni un po’ di fierezza dell’appartenenza. L’Appennino ha bisogno di un mito perché il miracolo del ritorno si realizzi. Vorrei chiedere a queste genti: ma la sentite ancora l’energia e la bellezza di queste montagne? Perché siete scesi a valle già prima del sisma? Chi vi ha convinto che l’agricoltura e la pastorizia fossero lavori di serie B? E quanto il terremoto è stato solo il rivelatore di un precedente abbandono?
« Qui tanti sono determinati a restare — spiega Ferranti — e ci sono anche giovani che scelgono di venire qui o rientrano per l’allevamento, le lenticchie, le castagne o il pecorino. La pastorizia, poi, non esisterebbe senza gli immigrati macedoni o albanesi. L’amore per i luoghi permane. Ma la burocrazia rende un po’ a tutti la vita difficile, uccide più del terremoto. Le regole sanitarie impediscono agli agriturismi di dar da bere il loro latte. Gli animali sono stati lasciati senza protezione per un inverno. La semina delle lenticchie è ostacolata dai divieti. La gente è imbestialita. Non vuole più abitare in case di pietra, ora vuole il legno sulla testa. Questa è terra di emigrazione, economia di sola sussistenza e, senza un modello nuovo, sarà l’abbandono totale».
Alle 8 in punto della sera, nella foresteria dell’abbazia benedettina di Valledacqua, cena con gli sfollati. Il servizio è perfetto, un cameriere col papillon ci serve un passato di carote e un brasato di manzo. Intorno, il paesaggio della distruzione è meno tremendo che in Lazio. Sul lato destro della Valle del Tronto, le case hanno fondamenta di roccia e hanno resistito. «La cosa importante è che siamo vivi», dice con antica filosofia una greca trasferita in Appennino. Un anziano si lecca i baffi: «Qui stiamo bene, si mangia e si dorme gratis». Elisa, il nostro aiuto-regista, chiede a bruciapelo: non temete che iracheni e siriani vi rubino il posto? Risposta niente affatto scontata: «Macché, quella è povera gente come noi, che ha perduto tutto». Alla faccia di Salvini e della zizzania che semina. Che differenza tra questi sfollati e i profughi di guerra? Nessuna. Entrambi sperano di tornare, ma chissà se mai torneranno.
Notte stellata. Il regista Scillitani, compagno di tanti viaggi, scarica immagini sul computer che si è portato sulle spalle per tutta la traversata. Lavora come un mulo e farà le ore piccole come sempre. Chiedo a Giuseppe Borgia, anche lui cameriere, cosa cambia tra terremotati e ospiti normali. « Niente — risponde — mi sento solidale con questa gente, e orgoglioso di fare questo lavoro».
Secondo giorno. Anche la salita verso i Sibillini chiede il suo pedaggio di distruzione. Spelonga polverizzata, Arquata in macerie, Pretare che non esiste più. Molto peggio di Amatrice. Qui è Afghanistan, sotto le nevi indifferenti del Vettore. Si va in quota con un’auto del Soccorso alpino (ma perché non “appenninico”?) superando due blocchi stradali. Prima i Carabinieri, poi l’Esercito, munito di inutili manganelli. L’ossessione nazionale della sicurezza ha contaminato tutto, mette in ombra e inibisce la ricostruzione. Marco Bianchi, del Soccorso alpino di Ascoli, alla guida del fuoristrada: «Bisogna ripopolare l’Appennino di persone forti. Gente che conosce il territorio. Se no, quelli che arrivano, dopo due giorni se ne vanno. Bisogna favorire il reinsediamento dei locali».
Forca di Presta, quota 1550. Comincia l’Umbria. Il cammino riprende con vento e nubi basse. Anna e Riccardo fanno strada in discesa per un canalone di neve. Sopra di noi, la faglia è uno squarcio che sale a mezza costa sul pendio perfettamente regolare; una smagliatura alta fino a un metro e ottanta, apertasi da un giorno all’altro e resa ben visibile da un’interruzione del manto nevoso. Più in alto ancora, nascosto dalle rocce, il piccolo lago di Pilato, dalle acque azzurro- ghiaccio, casa di un crostaceo rossastro unico al mondo, il Chirocefalo del Marchesoni. Poi la nebbia si dissolve e, sotto un sole nitido, ecco la Shangri-La d’Appennino, la Piana di Castelluccio. Un favoloso tappeto verde-grigio, appena riemerso dalla neve, lungo una decina di chilometri e largo fino a quattro, sigillato su ogni lato da alture bianche di neve.
È cambiata la sinfonia. Si passa dalla Patetica al Nuovo mondo, da Cajkovskij a Dvorák. Aria satura di trilli, fischi e cinguettii. Nei ruscelli, rospi in accoppiamento. Le talpe hanno ripreso a scavare, lasciano sull’erba vellutata monticelli di terra bruna allineati come punti di sutura. Che lusso assistere a questo in perfetta solitudine, un lusso reso amaramente possibile solo dal terreno militarizzato. Non puoi piantar tende, e nemmeno camminare senza permesso. Anche il turismo più eco-compatibile e pionieristico è bandito, quassù, dopo l’ultimo terremoto. Ma noi abbiamo un passaporto speciale per il paradiso, e vi entriamo in un momento unico, irripetibile: quando la piana è ancora avvolta in un silenzio invernale ma non sono già esplosi i colori pazzeschi della primavera.
Ai piedi dell’altura isolata di Castelluccio, il paese ridotto in macerie, ai margini della prateria, alcune benne sono al lavoro per costruire un tunnel per il rimessaggio dei trattori e delle sementi. Sembra ieri che, undici anni fa, sono passato di qui con la mitica Topolino del 1953, nella mia prima traversata appenninica per questo giornale. In una locanda che oggi non esiste più, una cameriera dai grandi occhi neri mi servì una zuppa e il suo sguardo senza fondo mi fece pensare alla Sibilla, la maga dei vaticini, degli esorcismi e delle erbe mediche, madre di tutte le “ strollaghe”, le astrologhe di questa terra ancora tutta matriarcale.
Un po’ “ strollaga” è la bionda Angela Testa, educatrice ambientale. Abita a Norcia ma Castelluccio è il centro della sua vita. «Qui è la mia vera casa. Devo vedere questi fiori, respirare quest’aria. Qui ho fatto le prime transumanze con mio padre, qui ho ballato il saltarello delle fave nel segno della Sibilla». Angela è un concentrato commovente di energia positiva.
«Ora lavoro per tenere in vita queste radici, insegnare ai bambini le usanze dei loro nonni. Abbiamo costruito con loro persino un gruppo folcloristico. E ora lanciato il cammino di San Benedetto, che percorreremo a Pasqua. Le adesioni crescono… Ci hanno messo a disposizione anche un ostello lungo la strada… ».
Salita verso il cornicione della conca, fino a un passo, quota 1567, punto più alto del viaggio, tra il Monte Ventòsola e il Calarelle. La vista si spalanca sul Terminillo, il Gran Sasso, la conca di Assisi. Via le scarpe, si fa merenda pancia all’aria nell’erba rasa, con la brezza che si infiltra tra le dita dei piedi. Mi torna in mente quanto mi disse un cercatore di funghi dopo aver letto alcuni miei articoli su questi luoghi: «Ma perché volete far sapere che l’Appennino è bello? Poi viene la gente a romperci i marroni » . Ubriaca di luce, Anna, solitamente ciarliera, è piombata nel silenzio davanti a una magnificenza che non ha eguali né termini di paragone.
Per Norcia, ben visibile dall’alto, sono novecento metri di discesa a precipizio, tra cardi giallo paglierino e sterco di vacca vecchio dell’anno prima. Visibilità illimitata. Elisa vola, canta Capossela, Ultimo amore, musica allegra e parole tremende che sembrano riassumere la contraddizione di questo luogo, sublime e terribile, dove è arrivata la botta più forte, il 6.5 Richter del 30 ottobre. Discesa da parapendio, con lunghe virate, su una brughiera abrasa in più punti da rovinose frane. Alle porte di Norcia, mentre una magnifica luce giallo- oro illumina i mandorli in fiore, ricominciano le rovine.
Davanti alla sua casa inagibile, alle prese con delle travi, Massimiliano Funari racconta di suo figlio Samuel, nato proprio la notte del 28 agosto, dopo la scossa di Amatrice, e che « per questo sarà un bimbo fortunato » . La famiglia è acquartierata in un prefabbricato in legno, ma tutti sono già al lavoro. «Norcia non s’è fermata — spiega — gli imprenditori hanno rifatto i capannoni senza aspettare aiuti dall’alto». Il problema è che non ti fanno rientrare nemmeno se casa tua ha pochi danni. « Mi sa tanto che vogliono tenere viva l’emergenza per far arrivare soldi. Ma non per noi, per salvare le banche… Il problema è lo Stato, non la gente. Gli Italiani hanno un cuore grande, ci hanno aiutato tantissimo».
Luciano, il padre di Max, spiega che il problema è l’accesso alla Piana di Castelluccio, ancora proibita per l’inagibilità della strada. I trattori vogliono salire, le greggi anche, e davanti a Norcia c’è stata già una protesta per ottenere il via libera dai militari.
« Con i mezzi che ha l’esercito la rifacevano in quindici giorni. Ma aspettano, perché se devono magnà i soldi » .
Intorno, pare la fattoria degli animali: cani, maiali, cavalli, letame. Una donna bionda e allegra sale con una carriola piena di fieno nell’ultima luce. « Sono contenta che ci ho la salute. Dopo quello che ho visto ad Amatrice ringrazio cinquantamila volte Iddio».
Sulle mura sbrecciate di Norcia una scritta: «Se Pretare ce rallenta, nun se magna più la lenta», se le macerie di Pretare bloccano ancora la strada, non si mangiano più lenticchie. E noi via di birra fresca e patatine sotto il pergolato del “Via-vai caffè”, prima di violare il santo perimetro che porta alla piazza di San Benedetto, patrono d’Europa. Siamo sospesi, fuori dal tempo; non sappiamo se il nostro andare segua il filo delle ore, dei secoli o delle ere geologiche. Ed ecco le rovine della cattedrale, illuminata di giallo dalle fotoelettriche. Dietro il rosone della chiesa di Benedetto, la navata non c’è più. Ma le strade non sono vuote, c’è già aria di struscio. In centro troviamo aperti l’albergo “Da Benito” e l’osteria “Senti ‘n può”. La città, zitta zitta, rinasce.
A cena celebriamo l’inizio di un mondo nuovo, quello del pane senza sale e dei nobili salumi. Col grembiule da cuoco, Rodolfo Di Biagio, gestore dell’osteria, ci scodella le sue lenticchie e racconta di come, «quel giorno», la montagna ballò e poi, letteralmente, «cominciò a ribollire». «Tornai di corsa a Norcia; mio Dio, sembrava Aleppo. La gente per strada in mutande, i malati dell’ospedale fuori con flebo e stampelle, il prosciuttificio crollato con i salumi appesi a mezz’aria. Sembrava l’apocalisse. La Protezione civile portò sacchi di plastica per 1500 morti, e invece… eravamo tutti vivi… miracolati». Norcia è già oltre la paura. E Rodolfo vive l’euforia di averla scampata bella.
A cena sull’Arca della salvezza nella terra dei resistenti di ieri e di oggi
Terzo giorno. Cielo pulito, aria frizzante; previsioni temporalesche smentite. L’inizio è lussuoso, con cappuccino a brioche. Nel corso, persino negozi aperti. Al bancone della norcineria che porta il nome di Brancaleone, Antonio Graziani, davanti a una parete di salsicce, ricotte salate, salamelle al fegato e coglioni di mulo (cosiddetti, ovviamente), declina l’abc della sua filosofia arcimboldesca. «Non investirò più un euro nel mattone: meglio il prosciutto», dice preparandoci i panini. «Uno risparmia, restaura, abbellisce, poi bastano trenta secondi e sei fregato. Cari miei, qua persino il cemento s’è scocciato… Se capita dove apre, non ci sono santi».
Brancaleone avverte: questo non è un mondo che mugugna in silenzio, ma reagisce con grida e pasquinate. Presso la chiesa di Santa Rita, un tatzebao anonimo sulla porta delle Cantine (chiuse) denuncia «chi opera al fine di spostare la vita sociale di Norcia verso la zona industriale, … con la complicità di alcuni indigeni e il fatto che la politica, in Umbria, è ridotta a uno squallido e cinico affarismo trasversale ». Poco in là, in piazza, il monumento ai Caduti delle due guerre mi mette in mano un bandolo della matassa. Tra i nomi c’è un partigiano triestino, Sergio Forti, medaglia d’oro, ucciso da queste parti dopo inenarrabili torture.
Sergio Forti. Quando mi chiedono come ridare senso al 25 aprile, nomi come il suo mi dicono che viaggiare a questo modo è cosa giusta, perché dà voce ai resistenti di oggi. Fa entrare nella pancia del Paese. Aiuta a individuare la traccia immonda, inconfondibile, quasi olfattiva, del razzismo che rinasce, conferma che è ancora tempo di battaglia, sprona a non tacere davanti alle urla contro i deboli e i vinti. « Sembrava Aleppo » , diceva ieri Antonio delle mura di Norcia, dimostrando forse inconsapevolmente la parentela intima fra gli sfollati di questo terremoto e gli esuli delle guerre che noi, con le nostre maldestre intromissioni, abbiamo reso interminabili.
Con due cani al guinzaglio, Roberto Canali, organizzatore di trekking con asini e muli, ci accompagna nella traversata verso Campi, oltre la Forca di Ancarano. Anche lui è un resistente, scommette al buio sul progetto di far ripartire i cammini nella terra di San Francesco e Benedetto. Ce la farà? Il rischio è che il meccanismo della perpetua emergenza premi solo chi grida più forte, un po’ « come un maestro che aiuta proprio chi non ha fatto i compiti, o un medico che soccorre solo i malati che si lamentano » , mentre magari altri muoiono in silenzio. In Italia, ahimè, vince troppo spesso la lamentela.
Roberto ci guida in silenzio verso la montagna, lungo le mura di Norcia che ora paiono quelle di Ilio, dopo l’ingresso fraudolento del cavallo di legno. Le sue bestie tirano, impazienti, al guinzaglio: “Bella”, bastardina inquieta color miele, e “Hope”, monumentale femmina di San Bernardo, occhi supplicanti e froge umide, che ansima come una locomotiva. Un estemporaneo cartello indica le distanze stradali. Assisi 85, Cascia 18, poi Ottobeuren 973, città gemellata in Baviera. Manca la sola direzione che conta. Quella della faglia, verso Camerino.
Salita per praterie. In una casa lesionata, l’unico pezzo di muro in piedi ha al centro una statuetta di San Benedetto. Sembra che si regga solo grazie a quell’icona. Al limitare del bosco, un altro miracolo: un’azienda agricola che continua a produrre latte biologico. La stalla, antisismica, ha retto alla botta, e Luigi Severini Perla, padre del titolare, dopo aver zittito i cani allarmati dal nostro arrivo, spiega la sua battaglia col mercato e la burocrazia. « Ci pagano il latte 44 centesimi al litro. Non basterebbe per vivere, se non ci fossero i contributi europei. Non mi piace, ma non c’è scelta. Qua bisogna combattere anche per il fieno. Sta tutto a Castelluccio, ma se non ci aprono la strada, non so come fare».
Dopo un mandorleto in fiore e un abbeveratoio, all’improvviso la terra sbadiglia, ci viene incontro con l’orrore tombale dell’epicentro. Nella frazione di Piè La Rocca lo sventramento è tale che basterebbe uno starnuto a produrre altri crolli. Passiamo abusivamente, in punta dei piedi, tra mura pericolanti e tegole appese al nulla. Da Amatrice fin qui avremo attraversato almeno dieci zone rosse senza controllo. Vento, silenzio, cinguettio, mitragliare del becco di un picchio. La natura se ne fotte degli uomini. Anzi, li beffa. Una casa è stata sventrata nel bel mezzo del restauro. Sui ponteggi sbilenchi leggi «struttura in allestimento, vietato l’ingresso ai non addetti al lavori».
Manifesti orlati di nero declinano i nomi di quelli che hanno scampato il pericolo… morendo, pochi giorni prima, di morte naturale. La locale agenzia di pompe funebri dimostra un rapporto talmente spiccio con i passaggi all’Aldilà che le locandine evidenziano errori madornali. Pietro Bianchi è morta il 2 settembre 2016. E Ida Piccioni ha lasciato i suoi cari il 19 ottobre 2017. Nella frazione di Capo del Colle le case sono letteralmente svirgolate. Eppure, anche qui come a Norcia, l’impressione è che si possa ancora ricominciare, con interventi
chirurgici mirati. Amatrice è terra da Piano Marshall, deve scontare qualcosa di più antico del terremoto.
Qui, invece, gli abitanti non mollano.
Non molla Vera Pjetrushaj, albanese con due figli trapiantata in Umbria, cui è rimasto un agriturismo intatto, ma irraggiungibile causa strada chiusa. La troviamo che porta da mangiare alle sue pecore e ai muli, passando faticosamente per sentieri alternativi. «Ho vissuto giorni in tenda, poi in roulotte e ora in un container, ma il problema è che per qualsiasi cosa bisogna andare a Norcia. Qui ci sono venti bambini dagli uno ai 14 anni. Siamo, o forse dovrei dire eravamo, un paese vivo, unito e solidale». Andare via? «No, qui voglio restare. L’Italia è bella». Elisa segue ogni sillaba, commossa, con la cinepresa in mano. S’è infilata nei capelli due aculei di istrice, ingentiliti da un fiore di prato.
Paolo Piacentini riconosce ciò che resta di un albergo dove, tanti anni fa, ha pernottato con suo zio, prima che morisse. È accaduto durante una lunga traversata a piedi, dopo che il giovane aveva convertito il più anziano alla meraviglia dei cammini. Ora Paolo cammina come imbambolato, il cancello che attraversa e il vialetto che percorre sono un diaframma del tempo oltre il quale ritrova anche il se stesso di allora. Piange, alla fine, e ci abbraccia uno per uno. E intanto Campi ci aspetta, col famoso porticato della chiesa di Sant’Andrea, di cui resta solo la foto su internet. Scende un buio da eremiti, punteggiato di grumi di luci rossastre. Sembrano resti di bivacchi, e invece sono paesi.
Cena e pernottamento collettivo nel capannone antisismico che la lungimirante Pro Loco ha inaugurato pochi giorni prima della botta numero uno. «Questa è l’arca che ha salvato la comunità», dichiara l’adrenalinico presidente Roberto Sbriccoli, mentre cuoche volontarie scodellano pasticcio, trota affumicata e broccoli impanati. « Qui abbiamo vissuto il dramma insieme, e insieme abbiamo reagito. Qui la porta è sempre aperta: si fa festa, si dorme, si mangia, si distribuiscono 250 pasti al giorno. E abbiamo chiuso il bilancio 2016 con 120 mila euro in cassa. Questo che cos’è se non protezione civile?».
Si finisce con panettone milanese di gran lusso. « Ne abbiamo a quintali — sorridono gli indigeni — durerà fino a giugno». Per decidere sulle emergenze, i politici bisognerebbe farli dormire in capannoni o in tenda. Arriverebbero subito al dunque, come l’esercito, che qui in una settimana ha costruito tre ponti. È dopo che tutto si è fermato. Sbriccoli non lo tiene più nessuno: accende uno schermo e, con il sottofondo di Ritorno al futuro
illustra il PowerPoint del suo progetto di ricostruzione, chiamato “ Back to Campi”. Parco giochi, casette, campeggio, barbecue, palazzetto dello sport. La Pro Loco è persino capace di riuscirci.
Il riccioluto Sirovich, sismologo, improvvisa per i locali una conferenza su cos’è stato davvero il terremoto. Evoca scontri di placche, magmi infuocati, faglie dormienti, spostamenti di isole e di intere montagne, poi, pacatamente, demolisce le bufale sul tema, spiegando che la loro velocità di propagazione è quasi superiore a quella delle onde sismiche. Una su tutte: che la magnitudo della scossa di Norcia sia stata diminuita ad arte per dare meno aiuti alla popolazione. Alla fine ci prepariamo le brande e via nei sacchi a pelo. Russeremo a turno, di quel russare che fa compagnia.
Così una yurta coperta di stelle ci indica la strada del ritorno
Ultimo giorno.
Traversata tranquilla fino a Visso in terra marchigiana, borgo tra i più belli d’Italia scardinato dal sisma, nel quale — pochi lo sanno — è custodito l’originale dell’Infinito di Leopardi. Ci mettiamo tre ore, quasi di meno di chi ci va in macchina, perché la Val Nerina, bloccata da una frana che ha fatto esondare il fiume e allagato la strada, obbliga chi viene da Norcia a peripli demenziali. Ma come mai l’Anas spende novanta milioni di euro per un’inutile pedemontana tra Fabriano e Camerino invece di intervenire qui? Sfregi, su un territorio già ferito.
Patrizia Vita è scesa da Ussita, comune terremotato di montagna, per incontrarci.
«Oggi la mia vita è in un trolley» dice, e ammette che è quasi meglio essere nomadi che investire ancora in qualcosa di stanziale. «Il terremoto mi ha cambiata, mi sento diversa. Più umile davanti alla natura». Il che non le impedisce di progettare un futuro per la sua comunità. «Bisogna restare, ma in modo nuovo. Ripartire dai sentieri. Da investimenti leggeri. Quelli che stanno negli alberghi sulla costa rischiano di perdersi, diventare pacchi postali. Temo il turismo di massa: tutto ho voglia tranne che di vedere gente farsi un selfie davanti alle rovine di casa mia».
Appennino dunque, simbolo di un modello nuovo, utile a tutto il paese. Un ritorno alle radici, da rifondare sulla leggerezza, la frugalità e un rapporto “slow” col territorio. Vedi la scelta di Fabio Cerri, che compie davanti ai nostri occhi il sortilegio di rimettere in piedi a Visso un forno del pane con sette dipendenti. Ha tirato su un prefabbricato, ricuperato macchinari.
«Abbiamo fatto tutto da soli, si riapre entro pasqua. Abbiamo anche un sito: “per fare il pane ci vuole un albero” ».
E poiché il pane è il simbolo della rinascita, alla fine si va a comprare una torta alla “Pasticceria Vissana”, luogo d’incontro del borgo, per non salire a mani vuote in montagna, dove il viaggio è destinato a finire nella fattoria di Marco Scolastici, un altro piccolo mago che ha scelto di restare.
Ma prima è d’obbligo passare per la stalla di Checco Benedetti, classe 1925, «fascista onesto e lavoratore» — così si definisce — che, dopo aver ribadito le sue idee a suon di formidabili manate sulla pelata di un Duce di bronzo, ci porta a vedere le mucche, rimaste all’aperto per tutto l’inverno dopo che la stalla è rimasta lesionata. Bestie, confinate in poco spazio, in mezzo al loro letame. «Guardi come soffrono. Mi fa male al cuore. Stanno lì nella fanga senza protestare. Aspettano il primo giugno, per salire ai pascoli. Ma ce la faranno? Oggi i veterinari si muovono solo per cani e gatti. Per noi pastori niente ». Dilaga, apocalittico: «Questi mascalzoni, ladri, che stanno al comando e che non capiscono niente. Bisogna salvare gli animali. Degli uomini chi se ne importa». La stalla di cemento è crollata. Ora, ribadisce, è il tempo del legno. «Anch’io, anche le bestie, ci stiamo meglio».
A due passi dal santuario rinascimentale del Macereto, con in vista il bastione del Bove, capolinea Nord dei Sibillini, la tenuta Scolastici occupa pascoli solitari, popolati di pecore e asine da latte, e da ventidue anni produce pecorino biologico, diventando punto di riferimento della pastorizia locale. Ventotto anni, viso aperto, occhio longobardo e barba rossiccia, Marco Scolastici ci accoglie in una yurta mongola, grazie alla quale ha superato l’inverno, per non abbandonare il lavoro dopo che il sisma gli ha lesionato l’abitazione. «Avevo cominciato a studiare economia — spiega — ma alla fine ho capito che questa era la mia vita. Anche col terremoto».
Scende una notte piena di stelle. Marco apparecchia una tavolata a chilometro zero — cose come il formaggio col timo serpillo e il ciauscolo, un insaccato da spalmare sul pane — e intanto dal buio sbucano altri commensali. Carlo Urbinati, esperto in silvicultura; Giorgio Iorio, tecnico forestale; Alessandro Rossetti, biologo del parco dei Sibillini, e Jacopo Angelini, specialista in ornitologia. L’ombra di Persefone e il vino nero, abissali entrambi, ci spingono verso il cuore del problema. La fragilità delle periferie senza più servizi, la perdita dei toponimi che viaggia in parallelo al rarefarsi della biodiversità, il rischio di un inselvatichimento della natura, il sisma che può diventare il sigillo finale dello spopolamento. E poi la paura che l’adrenalina finisca, che gli ultimi resistenti se ne vadano. La casa lesionata che ti diventa inospitale, ma non per le crepe: per le cose cadute per terra. Il sisma, equiparato a un’incursione di ladri.
Ma alla fine si torna sempre lì, alla Sibilla. La dea madre sibilante, padrona di questa terra di mezzo che, vissuta da una yurta, comincia a somigliare agli altopiani asiatici, quelli da cui scesero i pastori neolitici, portandosi dietro il grano, l’orzo, i semi del senape selvatico, dei papaveri, dei fiordalisi, e persino i cani pastori che oggi chiamiamo maremmani. Fuori dalla tenda par di udire l’ululato di lupi, doloroso come il grido di anime del purgatorio. Sotto la cintura di Orione, i monti innevati della maga diventano la montagna sacra del Kailash. Una fettina di Luna calante esce dal Monte Bove. Percezione nitida della rotazione terrestre tra le nebulose.
Difficile dormire in una notte simile. Rigirandomi nel sacco a pelo, sento che Roma, vista da qui, non è all’origine di questi luoghi, ma il contrario. Roma è figlia dei transumanti d’Appennino che nel Lazio — letteralmente la terra spaziosa — scendono tuttora a svernare. Roma, che fino al primo secolo avanti Cristo, non ha dato letteratura ma, in compenso, un corpus di leggi, cos’altro può essere se non il frutto di una cultura pastorale, dove il “rex” — Romolo — è colui che traccia la linea per dividere un pascolo dall’altro? Da dove, se non da posti simili, discende l’ossessione romana per la linea retta e gli spazi disboscati? Forse siamo tutti figli di quel mondo, penso, mentre fuori dalla yurta un branco di cinghiali al galoppo percuote la Terra come un tamburo.
Ripenso che da tutti, qui, è arrivato lo stesso ammonimento al Paese. Basta cemento, basta grandi alberghi, basta autostrade. Ripensare lo sviluppo. Tornare all’arcano dei luoghi, alla sapienza delle radici pastorali. Questa nostra yurta coperta di stelle, e i sentieri che abbiamo percorso, indicano la strada del ritorno.