Paolo Rumiz – Le mie cartoline dal Risorgimento

 

Le mie cartoline dal Risorgimento

Dall’Elba all’Aspromonte, da Scilla a Caprera, un Grand Tour nei luoghi che un secolo e mezzo fa hanno fatto l’Unità del Paese
Paolo Rumiz

ca. 490-480 B.C., Castelvetrano, Sicily, Italy --- Tourists at Selinunte Ruins, Temple E --- Image by © Atlantide Phototravel/Corbis
ca. 490-480 B.C., Castelvetrano, Sicily, Italy — Tourists at Selinunte Ruins, Temple E — Image by © Atlantide Phototravel/Corbis

Le mie cartoline dal Risorgimento
Posti che nessuno celebra, come la farmacia Guerrini di Sant´Alberto, nelle lagune del Ravennate. Un fortino della solidarietà, fondato nel 1866 con i risparmi di un gruppo di camicie rosse, e che tuttora devolve i suoi profitti in attività culturali, di beneficenza o sostegno alla scuola. Il tutto secondo le ferree leggi delle società di mutuo soccorso, nate in tutta Italia sull´onda dell´impresa dei Mille.
Posti scomodi, come il liceo Pantaleo a Castelvetrano, Sicilia, ex monastero di bellezza incomparabile dove vennero curati i feriti di Calatafimi, e oggi – con i suoi programmi d´avanguardia e nel nome del frate indomito che si unì a Garibaldi – è un caposaldo della cultura dell´antimafia. Una roccaforte che resiste alle intimidazioni e alle trappole tese dai complici del concittadino latitante Matteo Messina, boss di Cosa Nostra.

Posti veraci anche; di porchetta e tricolori al vento. Come Mugnano, presso Perugia, e la sua banda risorgimentale, quaranta elementi su una popolazione di cinquecento abitanti. Li ho visti marciare in camicia rossa suonando Addio mia bella addio, che non è composta per i partigiani, ma sgorgò nel 1848 dal cuore degli studenti pisani in partenza per Curtatone e Montanara, battaglie gemelle dove morirono a centinaia nelle file piemontesi.

Italia minore, Italia vera del Centro, del Nord e del Sud, capace di legare con un filo rosso l´ardore libertario di centocinquant´anni fa con la resistenza di oggi, quella contro la squalifica di eroi e valori, dilagante nel Paese opportunista che detesta Garibaldi e, per automatismo, Saviano. Una bella Italia che non si riconosce né nelle retorica di queste celebrazioni tardivamente pensate né nei separatismi degli stolti che deridono gli ideali dei padri.
Non solo monumenti, ma atmosfere, spazi, luoghi, persone. È così che sceglierei il mio itinerario italiano nell´anno delle celebrazioni, approfondendo quello – per me indimenticabile – compiuto l´anno scorso in camicia rossa, dietro le strade dell´eroe dei due mondi; includendo nell´itinerario anche i luoghi dove la libertà fu sconfitta dal centralismo e dove i perdenti scomparvero dalla storia trionfante dei libri di scuola.

In principio è il Piemonte, con gli intatti velluti del caffè Fiorio a Torino, sui quali Cavour andava pensare la sua Italia sorseggiando Barbaresco. Poi Genova, col monumento a re Vittorio, dove solo due anni fa s´è fatta giustizia con una lapide aggiuntiva a memoria del bombardamento e del sacco della città mazziniana nel 1849 da parte dei piemontesi. E l´altro monumento, di ben altra forza, poco più a Ovest: Garibaldi sul lungomare di Nizza, sua città natale oggi non più italiana.
Poi via, per mare aperto, fin nelle fauci di Bonifacio, nell´irsuta e ventosa Caprera dove il soldato-marinaio-operaio-liberatore, deluso da un´unificazione costruita senza libertà e distribuzione di terre ai contadini, diventa contadino a sua volta e scrive le memorie in una casa semplice, arroccata a una terra libera e senza leggi. Una lezione di frugalità mai così attuale, di fronte agli sprechi miliardari della Maddalena.

Bouganvillee a Calatafimi. Sicilia, altri lampi d´immagini. La salita di Calatafimi profumata di stoppie bruciate e bouganvillee. Il ponte dell´ammiraglio, antico e dimenticato, dove le furie rosse sfondano su Palermo con l´aiuto dei picciotti armati di coltello. A Centùripe una lapide – una delle diecimila sparse in Italia – grida contro il «mancato parricidio d´Aspromonte», che «marchiò d´infamia il nuovo regno». Bronte, il collegio Capizzi, nel quale Nino Bixio impianta il processo contro i rivoltosi, mandando a morte degli innocenti.

La dorsale calabra, dove nel 1862 l´Eroe in marcia su Roma viene abbattuto dalla fucileria sabauda: e lì, a Sant´Eufemia, nell´ultima foresta d´Appennino, l´albero ai cui piedi viene adagiato con due pallottole in corpo. Posto lasciato alle ortiche fino a ieri, e ora ripulito per le celebrazioni. Un altro fotogramma: Torre Bollita, maniero sulla costa del Metaponto. In questo posto non segnato sulle guide, un garibaldino di cognome Battifarano costruisce un´azienda agricola che ancora funziona e poi si fa seppellire accanto a una lapide col motto: «Lontano dal dominio dei preti, di fronte allo jonio mare».
Puglia, la caverna del Sergente Romano, raggiungibile solo a piedi in uno squarcio da capre nel Tavoliere, a Gioia del Colle. Un esercito intero ci vuole per stanare il brigante e mandarlo al Creatore. E poi i meandri del Volturno, gonfi di fertile limo, dove Garibaldi vince a fatica i Napoletani e ha più parole più lusinghiere per il nemico che per le truppe piemontesi scese da Nord a esautorarlo dal ruolo di “Libertador”.

Gaeta nella pioggia del Tirreno, fortezza che fu teatro dell´ultima resistenza di re Francesco di Borbone, bombardata, falcidiata dalle epidemie e dalla fame. Luogo doloroso, raccontato in un bel libro di Gigi di Fiore. Le gole tra Isernia e Pettorano, in Molise, dove un plotone garibaldino fu fatto a pezzi dai “cafoni” al grido di “Viva Maria”. E poi Roma, il Gianicolo, con Garibaldi a cavallo che domina la città nel tramonto e ricorda una sconfitta – quella della repubblica romana – che rifulge di gloria di fronte a ben altre sconfitte, quelle infamanti di Custoza, Lissa o Adua.
E poi una notte di luna a Cala Martina, solitaria e boscosa davanti all´Elba, dove l´Eroe s´imbarcò nel ´49, in fuga dopo la morte di Anita. E Livorno, terra di rossi e di rosse camicie, nella quale la leggenda si respira persino nelle osterie. La chiesa di Santa Croce a Firenze, con la tomba dell´Alfieri: lì il Canova scolpisce un´Italia afflitta per la sua sottomissione allo straniero. E via, oltre il crinale d´Appennino: Modigliana, col monumento a don Giovanni Verità che diede rifugio a Garibaldi nella sua fuga da austriaci e papalini. E il museo della musica meccanica di Cesena, dove l´anima ardente del Risorgimento si è acquattata nei fonografi e nei piani a cilindro.

La torre di Solferino. Ora è il Po, la pianura e le Alpi. Qui i luoghi della memoria – il campo di battaglia di Bezzecca, il castello di Brescia, il monumento ai Cacciatori delle Alpi di Varese o il museo del Risorgimento di Milano e tanti altri – hanno un unico, terribile baricentro: l´ossario dei Caduti di Solferino e San Martino, che furono trentamila, più che a Waterloo. Un luogo dove la morte non è dissimulata o trasfigurata in martirio. La torre di Solferino dice semplicemente, e senza retorica, quanto è costato il sogno dell´Unità.