«In guerra con il passato» di Paolo Mieli
Titolo libro: In guerra con il passato
Autore del libro: Paolo Mieli
Genere: Romanzi e saggi storici
Categoria: Saggistica
Casa editrice: Rizzoli
Anno di pubblicazione: 2016
Recensione del libro
Libro presentato da Alessandra Stoppini
Recensione pubblicata il 31 gennaio 2017
“Le falsificazioni della storia” è il sottotitolo del saggio “In guerra con il passato” (Rizzoli, 2016) nel quale il giornalista e storico Paolo Mieli, presidente di Rcs Libri, denuncia e demolisce le maggiori banalizzazioni, contraffazioni e manipolazioni operate attraverso i secoli nei confronti della Storia.
Paolo Mieli, nato a Milano nel 1949, direttore de la Stampa dal 1990 al 1992, poi del Corriere della Sera dal 1992 al 1997 e dal 2004 al 2009, nell’introduzione al testo sostiene che
“la guerra contro il passato è la più praticata ma anche la più stupida di tutte le guerre”.
Una forma di belligeranza mai dichiarata che si propone di frantumare la storia, semplificarla, smontarne la complessità, così
“da rendere gli accadimenti dei tempi remoti adattabili alle categorie e alle esigenze del presente”.
Un’operazione ideata per offrire forza, retroterra e dignità alle contese di oggi. Operazione che produce danni incalcolabili, primo tra tutti quello di disarmare le giovani generazioni che dovrebbero essere pronte ad affrontare le guerre, purtroppo non metaforiche, di oggi e di domani. Mieli considera il libro come un antidoto contro tutte quelle torsioni, manipolazioni, e contraffazioni alle quali la storia viene sottoposta. L’appassionato excursus diviso in quattro capitoli che attraversano più di due millenni di storia, non solo offre spunti di riflessione che favoriscono un processo di pacificazione con la storia, ma si rivela fondamentale per capire il nostro tempo.
“Per vincere le guerre del presente e del futuro dobbiamo prima regolare un conto bellico con il passato. Occorre quindi fare chiarezza, eliminare molte menzogne. Nel libro faccio l’esempio di alcune delle zone in cui fare chiarezza. E altre ce ne sono ancora”
ha precisato l’autore in una recente intervista. Il nodo centrale della questione è che “a ogni stagione la politica cerca di tirare la storia dalla sua parte”. Paolo Mieli nel testo parte da lontano, dal 70 a. C. cioè dal processo di Marco Tullio Cicerone contro Gaio Licinio Verre, propretore di Roma in Sicilia, accusato di essere un politico corrotto. Il processo è passato alla storia come una grande opera di pulizia tanto è vero che da duemila anni è stato quasi automatico che chi si accingeva a fare insinuazioni circa la moralità di qualche uomo politico iniziasse con il definirlo “novello Verre”. Ma elevando Verre a “paradigma del male”, Cicerone era riuscito a porre le fondamenta della propria carriera politica, facendosi grande sul nemico soccombente.
“Non senza qualche punta di cinismo”.
Esattamente come accade adesso. L’autore in queste pagine delinea un quadro originale di Iosif Stalin, il padre dell’Unione Sovietica, al quale venne impartita un’educazione religiosa dai preti del seminario di Tiflis negli ultimi anni dell’Ottocento (dal 1894 al 1899).
“Sono diventato socialista al seminario perché il tipo di disciplina che vi regnava mi faceva uscire dai gangheri”
rivelò lo stesso Stalin nel 1931 in un’intervista allo scrittore tedesco Emil Ludwig, accennando a come e quanto lo avessero cambiato gli anni giovanili trascorsi a scuola dai preti. L’educazione religiosa di quello che è passato alla storia come il campione ateo del Novecento fu la chiave nel momento decisivo della II Guerra Mondiale per mobilitare il popolo russo anche grazie a un’alleanza con i religiosi. Passando dalla Russia agli Stati Uniti, Mieli ci svela che esiste una falsa mitologia su Abramo Lincoln e la schiavitù. Il campione dell’abolizionismo, il vincitore della Guerra di secessione americana (1861-1865) uno dei più importanti e popolari presidenti degli Stati Uniti che pose fine alla schiavitù, ribadiva in ogni circostanza di considerare gli afroamericani “esseri inferiori”.
“Si ha la prova, scrive Tiziano Bonazzi nella biografia “Abraham Lincoln” di un suo razzismo o al massimo di un suo paternalismo pervaso di razzismo che la lotta allo schiavismo non annullò e che allungò la sua ombra ben al di là della Guerra Civile”.
Forse è anche per questo che il Grande Paese
“ha poi impiegato oltre un secolo prima di riuscire ad affrontare con decisione la questione razziale”.
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