Pandemia 1836, Gigi Di Fiore

Pandemia 1836, Gigi Di Fiore: “Le Pandemie ci mettono sempre di fronte all’ignoto”
05/10/2020

Il giorno 3 ottobre presso il Teatro Diana di Napoli si è svolta la presentazione dell’ultimo titolo del giornalista e saggista italiano Luigi Di Fiore: “Pandemia 1836. La guerra dei Borbone contro il Colera” pubblicato da Utet il 29 settembre scorso. Un incontro all’insegna dell’informazione, della divulgazione scientifica, ma anche storica, tesa ad intersecare il passato e il presente per stillare gocce di prezioso sapere, nella speranza di ampliare gli orizzonti delle coscienze, delle conoscenze e delle consapevolezze in un intervallo temporale talmente sensibile, quale l’emergenza sanitaria da Covid-19 che su scala planetaria stiamo affrontando.

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A conferma dell’assetto scientifico e medico di tale evento, ha preso la parola anche il Dottor Paolo Ascierto, oncologo e ricercatore, che ha contribuito assiduamente ed egregiamente alle innumerevoli scoperte riguardo un virus letteralmente sconosciuto, quale il covid-19. Insieme a lui sono intervenuti il celebre scrittore de “I bastardi di Pizzofalcone” Maurizio De Giovanni ed il Direttore del Corriere del Mezzogiorno Enzo d’Errico

Due sono le costanti a testimonianza di un anello di congiunzione tra il 1836 e il 2020: l’ignoto e l’impreparazione. Ignoto è il nemico invisibile, oscuro, che la scienza ha dovuto abilmente studiare per carpirne i meccanismi, le reazioni, le sintomatologie nella popolazione e svilupparne così vaccini adatti a quel tipo di virus. Analogia incredibile se pensiamo alla critica situazione in cui versava l’Italia e il mondo agli inizi di questa pandemia e se la confrontiamo con l’impreparazione, con errori di mancata previsione, con il ritardo di capire il momento esatto in cui chiudere le frontiere ed evitare così circuiti di spostamenti internazionali ed intercontinentali. Ci accorgiamo allora che gli aspetti demografici riguardanti lo scoppio del colera nel Regno delle Due Sicilie del 1836, tema cruciale dell’opera, non sono poi diversi da ció che l’attualità denuncia ogni giorno.

A tal proposito, l’autore del libro si è prestato ad una breve intervista, tesa a capirne di più in senso diacronico e sincronico, facendo luce su tematiche estremamente attuali e interessanti, cogliendo anche la sua vera essenza di giornalista e studioso, certamente esempio di ineccepibile professionalità e diligenza.

-Il Suo ultimo libro, “Pandemia 1836”, pubblicata da Utet, fiore all’occhiello di una lista già nota, tripudio di storia, politica, valori e attualità, ci fa pensare ad una connessione intrinseca tra ieri ed oggi: tra il 1836 e il 2020. Innumerevoli sono le dinamiche evolutesi e mutate nel corso di quasi due secoli di storia, ma in cosa si evince una continuità? Perchènonostante il progresso della scienza e gli studi circa la globalizzazione, l’interazione spaziale, secondo il suo parere, siamo stati colti impreparati e si è giunti non ad una epidemia, bensì ad una pandemia?

Anche riferendosi a quello che accadde due secoli fa, che cerco di raccontare nel dettaglio nel mio recente “Pandemia 1836” edito da Utet, l’esperienza dei mesi recenti fa capire quanto la scienza si trovi disarmata rispetto all’ignoto di patologie e virus sconosciuti. E’ la natura e le sue alterazioni che ci mettono di fronte, allora come oggi, a epidemie drammatiche e mortali, su cui non subito si trovano rimedi scientifici. Il bacillo del colera, ad esempio, fu isolato solo 50 anni dopo quella prima pandemia degli anni Trenta dell’Ottocento. E anche oggi si combatte l’ignoto alla ricerca di un vaccino. Un ignoto contro cui, però, fortuna gli strumenti sono molto più in avanti di due secoli fa.

-Un celebre aforisma di Gabriele D’Annunzio recita “O rinnovarsi o morire”. Secondo lei, in cosa dovremmo rinnovarci come Stato durante e dopo l’emergenza covid, affinchè non avvenga un collasso del sistema?

E’ emerso in tutta evidenza quanto ci sia davvero da mettere mano a un riassestamento dei rapporti tra centro e periferia, tra potere del governo nazionale e prerogative e poteri delle Regioni. La sanità è materia delegata alle competenze delle Regioni, ma è stato necessario dichiarare lo stato di emergenza nazionale per fissare regole valide per tutti e evitare distorsioni. Credo che, su questo punto, dopo l’esperienza Covid siano necessari ripensamenti che aggiustino i criteri delle autonomie regionali.

-Nei primi tempi del lockdown il famigerato astio da Nord e Sud Italia sembrava essersi capovolto. Il Sud dava cenni di voler rivendicare la propria posizione avvantaggiata in termini di contagi, decessi ed epicentri di diffusione covid, ma nell’arco di due settimane tutta la penisola divenne zona rossa a testimonianza di un’uguaglianza sia nel bene che nel male, perchè eravamo in pericolo, tutti indistintamente dovevamo collaborare, anche le stesse zone con il minor indice di contagio. Ció mi fa pensare alla “social catena” leopardiana, alla collaborazione di ciascuno per fuoriuscire dal dolore. Lei pensa che questa unione per una volta, almeno durante la pandemia, ci sia stata in Italia? Come reputa la reattività dei cittadini italiani in questo pericoloso e delicato frangente?

Si è ripetuto in questi mesi che da quest’esperienza ne usciremo migliori. Molte polemiche hanno dimostrato che non è così, certi risentimenti, certe invidie, certe rivendicazioni al nord come al sud hanno offerto lo spettacolo di un Paese diviso da pregiudizi e rivalità, nonostante l’emergenza comune. E’ la dimostrazione che siamo un Paese che ha poco senso unitario, che non si conosce.

-Lei, in una delle sue note opere, ha trattato con diligenza e criticità il problema della criminalitáorganizzata. Qual è il suo pensiero in merito al dibattito scaturito da alcune decisioni della magistratura di sorveglianza per la concessione degli arresti domiciliari di detenuti al 41bis?

Ancora una volta sono riemersi i ricorrenti contrasti tra autonomia giudiziaria nelle decisioni sui singoli casi e direttive politiche sulla repressione della criminalità organizzata. Credo non sia possibile, e sia contrario anche al nostro ordinamento, dettare un criterio valido di decisione per tutti i singoli casi, interferendo sull’autonomia riconosciuta all’attività della magistratura. Credo sempre nel buon senso dei magistrati e penso che a loro, ai tribunali di sorveglianza da potenziare negli organici, spettino le decisioni senza polemiche.

-Lei, grande giornalista, scrittore, critico, studioso e appassionato del suo lavoro come pochi ai tempi odierni, puó dare un consiglio a noi ragazzi, mossi dall’amore per la verità, per il giornalismo, per crescere personalmente e professionalmente sempre di più, ma che siamo ancora ai primi passi di un percorso che al di là dei successi, comporta inevitabilmente privazioni e costante dedizione? Cosa ci suggerisce fare per migliorare nel nostro settore?

Lungi da me scoraggiare entusiasmi e passioni. Quando quasi 40 anni fa muovevo i primi passi in quest’attività, ero consapevole delle difficoltà e vedevo dinanzi a me, pure nell’entusiasmo e nella voglia di fare, tanti ostacoli da affrontare. Ora il contesto è ancora più difficile, con una crisi strutturale dell’informazione e dell’editoria che costringe a ripensamenti del sistema e anche a una nuova visione della professione giornalistica. Credo che la Rete, come le numerose figure nella comunicazione legate ai nuovi strumenti tecnologici,offrano i veri sbocchi professionali proiettati nel futuro. Necessario quindi il continuo aggiornamento, la flessibilità nell’approccio lavorativo, la consapevolezza che, anche se si hanno davanti modelli e figure professionali di riferimento, i tempi sono molto cambiati da quando queste figure iniziarono, quando insomma erano i giornali di carte e la televisione in soli sbocchi lavorativi e le uniche palestre per imparare deontologie e metodi del mestiere.

Manuela Botticelli

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La fotografia di Gigi Di Fiore è tratta da lavocedinewyork.com