Napoli capitale – Quell’estate del 1860

Napoli capitale

s martinoL’addio dei Borbone è il primo di una serie di racconti legati a una particolare estate nella storia partenopea
Si inizia con intrighi, aneddoti e guerre per l’Unità d’Italia che segnano la fine del Regno delle Due Sicilie

Quell’estate del 1860   Un viaggio tra gli eventi storici della città

 

 

IL RE PROTAGONISTI Francesco II di Borbone con Maria Sofia
Francesco II e Maria Sofia l’ultimo giro in carrozza

Gigi Di Fiore

Il giorno degli addii fu il 6 settembre del 1860. Un giovedì di 160 anni fa. Era l’epilogo di un’estate rovente, non solo per il caldo opprimente, ma anche per la successione drammatica di avvenimenti che stavano portando il re Francesco II di Borbone a lasciare Napoli. La sua capitale, la città più grande del regno delle Due Sicilie che la dinastia borbonica, tra vicende alterne, aveva guidato per 126 anni. Un’estate rimasta nella storia.

I MESI FATALI
Garibaldi era sbarcato in Sicilia a maggio. La battaglia dell’addio definitivo della dinastia Borbone all’isola venne combattuta a metà luglio a Milazzo. Poi, in agosto, la marcia inesorabile dei garibaldini in Calabria, dove l’esercito napoletano si sfaldò.
Quell’estate, Francesco II aveva solo 24 anni compiuti a gennaio. Un giovane di poca esperienza, sul trono da appena 17 mesi. La moglie, Maria Sofia di Wittelsbach, sorella di Sissi imperatrice d’Austria, aveva 18 anni. Energica, battagliera, aveva cercato in quei mesi di spronare di continuo il marito a guidare una vera guerra contro i «filibustieri» che, sbarcati in 1089 a Marsala, in pochi giorni, con arrivi successivi dal Nord e gli innesti delle bande armate al soldo dai baroni siciliani, erano diventati oltre 20mila.
Il re e la regina non avevano mai lasciato Napoli. Al massimo, si erano trasferiti nella loro residenza di Portici per qualche giorno.
Nell’estate rovente del 1860, l’uomo più potente della capitale si chiamava LiborioRomano.
Era il ministro dell’Interno nell’ultimo governo napoletano dei Borbone. Già liberale, aveva patteggiato il rientro in patria dall’esilio ed era stato recuperato nel governo costituzionale affidato ad Antonio Spinelli. E il ministro non aveva perso tempo, giocando su più tavoli. Mentre professava fedeltà al re e alla dinastia, era già in contatto con Garibaldi e il governo piemontese a Torino.Mentre faceva il ministro responsabile anche della Polizia, nel giugno di quell’estate si era accordato con la camorra guidata dal capintesta Salvatore De Crescenzo per evitare disordini e incidenti nel passaggio di poteri.
Un abbraccio fatale, che avrebbe giustificato nelle sue memorie come «stato di necessità»: voi camorristi tenete a freno la plebee la gentebassa, io vi assicuro impunità e anche ingresso nella guardia nazionale di qualcuno dei vostri.

STATEVE ACCUORTO
Il re era inesperto e aveva sempre mostrato carattere poco deciso, Si era affidato agli uomini che riteneva più fedeli, era stato abbandonato dal generale Carlo Filangieri che avrebbe voluto subito dichiarare lo «stato di guerra», aveva ascoltato i consigli dell’imperatore dei francesi, Napoleone III, che gli aveva suggerito di concedere la Costituzione, anzi di riportare in vita quella mai abrogata del 1848, per tentare di recuperare almeno le regioni continentali del regno. Alla fine, da giugno, le Due Sicilie erano diventate un regno costituzionale senza avere avuto il tempo di metabolizzarlo.
In più, vizio trasformistico tutto italico, a Napoli molti si preparavano già ad accogliere Garibaldi.
In molte botteghe, si sostituivano i ritratti di Francesco II e Maria Sofia con quelli di Garibaldi. Anche i gigli borbonici venivano fatti scomparire dalle insegne. Il governo Spinelli era nato il 27 giugno.
In porto, erano ancorate sette navi francesi edue inglesi, chissà perché. Erano le immagini di un regno prestigioso che andava a fondo, anche se sarebbero seguiti i sei mesi di resistenza dell’esercito fedele ai Borbone culminate con l’assedio di Gaeta, che anche Benedetto Croce avrebbe giudicato esperienza di coraggio e dignità.

Il 26giugno,l’ultimo giro in carrozza del re e della regina a Napoli fu triste e senza acclamazioni.
Il re era pallido, volle che il 28 si tenesse un gran gala. Era l’ultima estate a Napoli, la sua capitale, la città dove era nato e che non avrebbe più rivisto. Decise di partire per Gaeta, sollecitato da Liborio Romano, per evitare lutti e distruzioni alla città, sicuro che nella fortezza, da migliore posizione strategica, avrebbe potuto riconquistare Napoli e il regno con l’esercito rimasto fedele. Salutò i ministri nella reggia, nel pomeriggio del 6 settembre.
A don Liborio fece una raccomandazione: «Stateve accuorto ‘o collo».
Lo seguirono poche navi, la Marina era già passata con i garibaldini.
Nel proclama d’addio, che gli era stato preparato dal prefetto Giuseppe Bardari e aveva riguardato con cura, scriveva: «Io sononapoletano… quello che imploro da ora è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici». Sarebbe morto
in esilio, ad Arco di Trento nel 1894. Lontano per sempre da Napoli, dove nel 1860 visse l’ultima e tragica estate. La moglie Maria Sofia morì a Monaco nel 1925.

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Il Mattino del 29 luglio 2020