Mr don liborio romano

Mr don liborio romano – il BOIA delle Due Sicilie

 

La prima trattativa stato-Mafia avvenne per opera di alcuni salentini nel 1861. L’ultima Trattativa Stato-Monsanto con gli stessi che quasi quasi chiudono il cerchio. Il primo fu Liborio Romano (Patù, 27 ottobre 1794 – Patù, 17 luglio 1867) che ha determinato la prima trattativa stato-camorra della storia. E’ stato un politico italiano maestro di Doppiezza e Trasformismo che usò anche la camorra per aiutare Garibaldi, liberale e massone. Liborio Romano, fu l’ultimo ministro di polizia del Re Francesco II di Borbone nel governo costituzionale del 1860, ma agente di Cavour, e poi primo ministro degli Interni di Garibaldi, dopo il suo ingresso a Napoli.

Di nobile e antica famiglia, frequentò ambienti carbonari e abbracciò quindi gli ideali del Risorgimento italiano. Nel 1820 prese parte ai moti per cui venne destituito dall’insegnamento, imprigionato per un breve tempo e poi inviato prima al confino e poi in esilio all’estero.

Aveva sette fratelli. Uno dei quali aveva sposato una donna imparentata con il Ministro inglese a Napoli il Temple, fratello di Lord Palmerston. Non a caso il Liborio Romano nel 1836 difenderà gli inglesi per la questione degli zolfi contro i Borbone, vincendo la causa. Nel 1820 fu condannato al confino a Patù dove risiede per due anni. Per intercessione del suo maestro Felice Parrilli, ottenne il permesso di recarsi a Lecce per esercitare la propria professione di avvocato. Dopo altre peripezie il  1826  venne arrestato a Trani e tradotto nel carcere di Napoli per sette mesi. Scarcerato nel 1826, nello stesso anno a Lecce, venne arrestato anche il fratello Gaetano e il cugino Eugenio Romano e molti altri che erano ritenuti liberali. Erano accusati di appartenere alla società segreta degli “Ellenisti” o “Edennisti” o dei “Tre Colori”. Nel 1833 difende il fratello Giuseppe. Nel 1836 difende l’Inghilterra contro il reame borbonico, nella “Questione degli zolfi”, vincendo la causa. A fine anni trenta dell’800 lo studio a Napoli del Liborio Romano, era molto importante, e vi collaboravano altri quattordici avvocati, tra i quali, i fratelli Gaetano e Giuseppe, Libertini Giuseppe e Giuseppe Pisanelli di Tricase. Nel 1837, difende gratuitamente Geremia Mazza suo assistente, dall’accusa di cospirazione politica. Nel 1848, non viene eletto deputato per quattro voti. Tornò a Napoli nel 1848, per partecipare ai moti che costrinsero Ferdinando II di Borbone a concedere la Costituzione nel regno delle Due Sicilie. Per i moti del 1848, viene preso come caprio espiatorio. Il 1849 viene nuovamente imprigionato per altri due anni. Nel 1851 chiede la grazia al comm.Gaetano Peccheneda, che la concede dopo un’altro anno di carcere. Nel 1852 in esilio in Francia, dove rimane fino al 1854. Nel settembre del 1859, perseguitato dall’Aiossa capo della polizia, sfuggì all’arresto, protetto dal Conte d’Aquila, suo amico, che lo ospitò in casa sua.

CARRIERA POLITICA

E’ stato un liberale moderato costituzionale antiborbonico, massone di alto profilo, per poco tempo filo garibaldino e filo annessionista. In seguito sarà leader naturale dei liberali. Coerente con la sua dedizione all’ala liberale oltranzista completamente votata alla causa piemontese. E’ stato sotto l’ala protettiva di Cavour. Il 25 giugno 1860il Re firma l’atto sovrano, che accorda l’amnistia generale per i perseguitati politici.
Mentre i Mille di Garibaldi avanzavano verso Napoli, il nuovo gabinetto, porta al potere uomini nuovi di tendenza liberale quali Spinelli, Manna, Federico del Re e Liborio Romano nella carica di prefetto di polizia e ministro dell’interno. Il 14 luglio 1860 Don Liborio sarà fatto ministro borbonico dal conte d’Aquila, Luigi di Borbone (fratello di Ferdinando II e zio di «Franceschiello»). Il conte d’Aquila è considerato a capo della corrente liberale presente fra i componenti della corte napoletana, insieme con il fratello Conte di Trapani. Quindi quasi a sorpresa, Francesco II decise di nominarlo ministro degli Interni, proprio  per schierare un oppositore dalla propria parte mentre il Regno di Napoli si avviava allo sfacelo. Infatti in quella data Garibaldi era già sbarcato a Marsala l’11 maggio, e conquistava molti territori del regno delle Due Sicilie.
Questa nomina era forse un segnale di riformazione che re Francesco II tentava di dare in extremis e nel tentativo di schierare dalla propria parte quel Liborio Romano, che anni prima nella sua attività forense aveva difeso interessi vicini alla corte britannica contro i Borbone. In quelle vicende il Liborio costrinse il sovrano Borbone alla risoluzione con un compromesso oneroso.

Con decreto del 27 giugno 1860 Francesco II lo nomina Prefetto di Polizia (A.S.N., Interni, f. 1160, n. 77). Il giorno precedente e in quelli successivi, sobillati da infinita schiera di agenti piemontesi e francesi travestiti da popolani, e da liberali e camorra, gruppi di facinorosi ed assassini assaltano i posti di polizia, uccidono e distruggono gli archivi, “…furono aggrediti i posti della polizia e col coltello e con le fiamme si fece crudo scempio degli oficiali di essa … E’ fama che questa turpe aggressione, fu macchinata dal Prefetto di polizia Liborio Romano e da essolui protetta” (Generale Giovanni Delli Franci, Cronica della campagna d’autunno del 1860).
Quindi in questa delicata fase Romano nei mesi successivi lo stesso giorno del 14 luglio 1860 iniziò a prendere contatti segreti con Camillo Benso conte di Cavour e con Giuseppe Garibaldi per favorire il passaggio del Mezzogiorno dai Borbone ai Savoia.

Da ministro borbonico, condusse infatti un gioco politico tutto suo, operando su tre fronti diversi. Mentre serviva Francesco II, si tenne in segreta corrispondenza con Cavour; al tempo stesso volle mettersi in rapporti anche con Garibaldi.

E fu pertanto Cavour, non Francesco II, a cooptare clientele e gruppi dominanti, e ad inserire personaggi estremi come il Liborio nelle strutture governative del regno delle Due Sicilie. Al Liborio quindi, nelle sue stesse terre natìe, il compito di trasformare la politica da borbonica in savoiarda.

Una delle prime mosse di Romano fu far installare nel proprio gabinetto la rivoluzionaria invenzione dell’apparecchiatura telegrafica senza fili, che fino a allora era a disposizione soltanto del re, come potentissimo strumento di comunicazione segreta, e proprio di questa don Liborio si servì per i suoi contatti segreti e che usò contro Francesco II.

  • Dalla Civiltà Cattolica (Serie IV, vol. VI, pag. 610) apprendiamo : “Una legge del 15 Febbraio ultimo ordina l’esecuzione del trattato soscritto a Costantinopoli il 19 Aprile 1859 e ratificato colà stesso il 14 Gennaio di quest’anno, per la congiunzione delle linee telegrafiche dei due Stati, mercé lo stabilimento di un filo elettrico sottomarino da Otranto a traverso l’Adriatico a Vallona, da cui il Sultano s’impegna a stabilire una linea telegrafica fino a Costantinopoli ed a Scutari d’Albania e Cattaro, dove si uniscono le linee telegrafiche dell’Austria; con una terza linea da Costantinopoli stessa alla frontiera di Russia presso Ismail. Intanto in Aquila, Colonnella ed Isernia sono state inaugurate con gran pompa nuove stazioni del telegrafo elettrico“.

Si legge dai documenti che mentre Garibaldi avanzava, Cavour in una lettera dava atto al ministro borbonico «del suo illuminato e forte patriottismo» e della sua «devozione alla causa» nazionale italiana.

Cavour in segreto inviò clandestinamente al Liborio un carico di fucili, per conquistare Napoli; armi che saranno prese da quei camorristi che il ministro aveva assunto.

Chiaramente per sbarcare quelle armi furono usati gli stessi camorristi che il ministro aveva assunto. Il progetto di Cavour era di distribuire armi ai camorristi perché si sollevino contro i Borbone prima che sia Garibaldi a liberare la capitale del regno delle Due Sicilie. Cavour infatti non voleva che Garibaldi avesse un ruolo importante nella realizzazione dell’Unità: il piano, scrive il primo ministro piemontese all’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, è fare trionfare a Napoli il principio nazionale senza l’intervento di Garibaldi; a questo scopo si può contare su Liborio Romano, perché vecchio liberale unitario, provato ed onesto. L’ammiraglio Persano, a bordo della sua nave ancorata nel porto di Napoli dispone di una cassa di circa un milione di ducati, distribuì denaro a piene mani e riuscì a corrompere quasi tutta l’ufficialità della marina duosiciliana: “possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell’officialità della regia marina napoletana” cosí scriveva al Cavour. E ancora: “Gli Ufficiali Napoletani son pure devoti alla politica di V.E. ed a me. Conservo corrispondenza con quelli di Napoli, non compromettente, ma tale però che ce li assicura senza fallo. Mi scrivono che se si tratta di venire sotto il mio comando son pronti quando che sia” (lett. n. 436, vol. 1°, Carteggio di Camillo Cavour, La Liberazione del Mezzogiorno) e nella lettera 553 del vol. II: “Gli Stati Maggiori di questa marina si possono dire tutti nostri, pochissime essendo le eccezioni“.

Dalla lett. 1022 del 1° agosto, Carteggio fra il Cavour e il Nigra, apprendiamo che il Cavour segnalava che Liborio, Nunziante e Persano organizzeranno ciò che è da fare perché abbia luogo un sommovimento, a cui parteciperebbero il popolo, l’armata e la marina.

Il 5 agosto Romano incontra il Nisco, che gli parla delle armi nascoste sulle navi del Persano, ferme nella rada di Napoli, da usare per un sommovimento sovversivo in favore del Piemonte.

Con la motivazione della necessità di mantenere l’ordine pubblico Don Liborio chiede ripetutamente a Francesco II l’aumento dell’organico della guardia nazionale di Napoli, recentemente istituita, che diventa, rinforzata dai camorristi, il corpo pretoriano del ministro (da 6.000 col Del Re, con decreto del 19 luglio a 9.600, e a 12.000 dal 27 agosto). Chiede inoltre 12.000 fucili per la stessa (14 agosto): “Il 14 agosto il ministero, esponendo al Re l’opportunità ed i vantaggi d’armare la guardia nazionale, mi fece dare 12.000 fucili… intorno al quale aumento ebbi a sostenere la piú viva contraddizione da parte del Re, che, cedendo al fine alle mie rimostranze, mi disse sorridendo: “Si accordi pur questo al tribuno Romano” (L. Romano, Memorie politiche).

Il 20 agosto 1860 il Romano, dopo essersi dichiarato profondamente devoto alla dinastia e al paese, dipinge al Re una situazione catastrofica circa la tenuta dell’Esercito e della Marina e fa intravedere una lunghissima e sanguinosa guerra civile – e intanto la notte va a prender ordini dal Persano e sta in intelligenza col Cavour.

Il Re decise la partenza per Gaeta. Ma a don Liborio, rivolse le ultime parole “don Libò , guardateve ‘o cuollo“, cioè se torno, ti faccio la festa. Il Re rivolto a tutti esclamò : “Voi sognate l’Italia e Vittorio Emanuele, ma sarete infelici“. E cosí è stato ed è.

Il 6 settembre 1860 gli ufficiali della flotta duosiciliana, illusi dall’idealismo suicida (e dal denaro), tradiranno in massa la loro Patria e il loro Re rendendo cosí il loro paese oggetto dell’altrui volontà. il generale Nunziante, lo zio del Re il conte di Siracusa plagiato dalla moglie savoiarda, l’altro zio il conte d’Aquila, entrambi fratelli di Ferdinando II, e poi intendenti, magistrati, tutti ad arraffare i luridi trenta denari che il Persano faceva scivolare nelle loro tasche, addirittura al conte di Siracusa era stata fatta baluginare la luogotenenza della Toscana.

Ma per conquistare Napoli, il Liborio non volle però utilizzare i fucili di Cavour, bensì scelse un’occupazione pacifica e l’ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli (7 settembre 1860) con la camorra in funzione di ordine pubblico. Questa operazione fu poi descritta dallo stesso Romano nelle sue memorie.

Risale anche a questo periodo il suo coinvolgimento con la camorra napoletana, «in virtù della sua organizzazione e del suo potere di controllo territoriale» [P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli, Milano 1993, pag. 40.]. Il Romano, infatti, nonostante il suo ruolo, assegnò al capo indiscusso della camorra di allora, tal Salvatore De Crescenzo [G. Di Fiore, “Controstoria dell’Unità d’Italia”, BUR saggi, Milano 2007, pag. 126.] detto “Tore ‘e Crescienzo” e ai suoi affiliati, il compito del mantenimento dell’ordine pubblico nella capitale e di favorire l’ingresso in città di Garibaldi [G. Di Fiore, op. cit., p. 127], invitandoli ad entrare nella “Guardia cittadina”, in cambio dell’amnistia incondizionata, di uno stipendio governativo e un “ruolo” pubblicamente riconosciuto [G. Di Fiore, op. cit., pp. 126, 127, 129, 130, 406]. Eventi che portarono il De Crescenzo ad essere considerato come “il più potente dei camorristi” [Università degli Studi di Napoli, Biblioteca digitale sulla Camorra].

Così scriveva lo storico anti-risorgimentale Giacinto De Sivo (1814-1867),: «La rivoltura del ’60 si dirà de’ Camorristi, perché da questi goduta. […] Il Comitato d’Ordine comandò s’abbattessero i Commissariati di polizia; e die’ anzi prescritte le ore da durare il disordine. Camorristi e baldracche con coltelli, stochi, pistole e fucili correan le vie gridando Italia, Vittorio e Garibaldi […]. Seguitavanli monelli e paltonieri, per buscar qualcosa, gridando: Mora la polizia! Assalgono i Commissariati» [G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Berisio, Napoli 1964, vol. II, pp. 98-101].

Secondo la testimonianza di Giuseppe Buttà, cappellano militare dell’esercito borbonico, «Dopo il Plebiscito, le violenze de’ camorristi e dei garibaldini non ebbero più limiti: la gente onesta e pacifica non era più sicura né delle sue sostanze, né della vita, né dell’ordine […]. I camorristi padroni di ogni cosa viaggiavano gratis sulle ferrovie allora dello Stato, recando la corruzione e lo spavento nei paesi vicini.» [G. Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, G. De Angelis e figlio, Napoli 1882, pp. 327-328].

Infatti il 6 settembre 1860 il Re Francesco Borbone si ritirava a Gaeta, aprendo la strada a Garibaldi. La notte del 6 settembre 1860 venne inviato a Giuseppe Garibaldi un messaggio telegrafico con il quale lo si informava che nella mattinata del 7 il Sindaco (Principe di Alessandria) e il Comandante della Guardia Nazionale di Napoli (De Sauget) sarebbero andati a trovarlo a Salerno. Garibaldi, appresa la notizia, faceva spedire un telegramma al Ministro dell’Interno e della Polizia, cioè a Liborio Romano, raccomandandogli l’ordine e la tranquillità della città in quel momento solenne. Quindi, Garibaldi dopo aver ricevuto le dovute assicurazioni da Liborio Romano, entra a Napoli, disarmato ed osannato dalla folla. Ad accoglierlo ci sarà Liborio Romano, Antonietta De Pace ed il popolo napoletano in festa.

Appena partito il Re per Gaeta, 6 settembre, il nizzardo, avvisato dai soliti compari, cosí telegrafò da Salerno a don Liborio: “Sig. Ministro dell’Interno e della Polizia – Napoli – Appena qui giunge il Sindaco (il principe di Alessandria, ndr) e il Comandante della Guardia Nazionale di Napoli (De Sauget, ndr) che attendo, io verrò tra voi. In questo solenne momento vi raccomando l’ordine e la tranquillità, che si addicono alla dignità di un popolo, il quale rientra deciso nella padronanza dei suoi diritti. Il Dittatore delle Due Sicilie – Giuseppe Garibaldi” Ecco la risposta del Romano: “All’invittissimo General Garibaldi Dittatore delle Due Sicilie. Con la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo per salutarla il redentore d’Italia e deporre nelle sue mani il potere dello Stato e i propri destini. In questa aspettativa, io starò saldo a tutela dell’ordine e della tranquilllità pubblica. La sua voce, già da me resa nota al popolo, è il piú grande pegno del successo di tali assunti. Mi attendo ulteriori ordini suoi e sono con illimitato rispetto, di lei, Dittatore invittissimo, Liborio Romano.

Il 7 settembre 1860 Garibaldi entrò a Napoli protetto dai camorristi armati. In testa al corteo Liborio Romano, Ministro di Polizia e Salvatore De Crescenzo, capo della camorra. Questa data segnò la fine del Regno delle due Sicilie e l’inizio del patto tra Stato e Camorra a Napoli.

Il Romano, assegnò al capo della camorra, Salvatore De Crescenzo detto “Tore ‘e Crescienzo” e ai suoi affiliati, il mantenimento dell’ordine pubblico nella capitale e di favorire l’ingresso in città di Garibaldi, invitandoli ad entrare nella “Guardia cittadina”, in cambio dell’amnistia incondizionata, di uno stipendio governativo e un “ruolo” pubblicamente riconosciuto. Il De Crescenzo sarà “il più potente dei camorristi”.

Il 26 ottobre 1860 Garibaldi pagò una pensione vitalizia di 12 ducati mensili a nome di Antonietta Pace, Carmela Faucitano, Costanza Leipnecher, Pasquarella Proto e Marianna De Crescenzo, le principali esponenti femminili della Camorra napoletana. Quest’ultima era sorella proprio di quel De Crescenzo che aveva camminato accanto a Garibaldi al suo ingresso a Napoli. (…) Ma Romano non reclutò solo “Tore”, già nel luglio 1860 altri camorristi furono nominati funzionari di polizia.

Liborio Romano aiutò la nascita lo sviluppo e l’esistenza della camorra, la usò e arruolò nella polizia inserendola nella pubblica amministrazione. La trasformò da organizzazione criminale ai margini della società (già storicamente perseguita dalla polizia borbonica) in una classe dirigente atta a governare la politica e l’economia dell’ormai decaduto Regno delle due Sicilie.

«Ogni qualunque casa dové sventolare bandiera a tre colori: comprava la paura, chi più realista più n’aveva. (….) camorristi maschi e femmine con coltelli luccicanti gridanti a piena gola sforzavano ogni persona a gridar con essi Italia una: né si contentavano d’un viva solo, con gli stili ai volti volevano le repliche: e Una, e Una, e Una ripetevano con gli indici in alto!» [Voll. Berisio Editore, Napoli 1964, libro XXI, pp. 99-100. 2 Ivi, libro XXV, p.199].
Paolo Macry, docente di Storia Contemporanea all’Università Federico II, ne “Unità a Mezzogiorno” sostiene che : «[Liborio Romano] decide di affidarsi ai gruppi violenti della camorra. (…) La conseguenza del patto scandaloso è che Napoli eviterà i temuti saccheggi plebei, ma soprattutto che i poliziotti con la coccarda tricolore e il cuore camorrista verranno orientati in senso liberale e antiborbonico [p. 64]. (…) La città è nelle mani di Michele ‘o Chiazziere, dello Schiavetto, di Tore ‘e Crescenzo e degli altri capi della criminalità. Ma, paradosso dopo paradosso, la nuova polizia non è soltanto camorrista, è anche patriottica, amica dei liberali e dei democratici e nemica dei borbonici» [Paolo Macry, Unità a Mezzogiorno. Come l’ Italia ha messo insieme i pezzi, Il Mulino, Bologna 2012.] [p. 70].

Fu lo stesso Liborio Romano a spingere il re Francesco II di Borbone a lasciare Napoli alla volta di Gaeta senza opporre resistenza, per evitare sommosse e perdite di vite umane. E il giorno dopo, il 7 settembre 1860, andò lui stesso a ricevere Giuseppe Garibaldi, che giungeva a Napoli quasi senza scorta, direttamente in treno, senza che vi fosse alcun tipo di contrasto e accolto da festeggiamenti di piazza [G. Di Fiore, op. cit., p. 405, nota 160].

il 7 settembre 1860, Liborio Romano ha il suo unico momento di gloria, entrando a Napoli, seduto in carrozza alla destra di Garibaldi che entrava trionfalmente nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Egli stesso, nelle sue memorie, così dirà per le cronache dell’epoca: «E Garibaldi, spettacolo sublime ed indescrivibile, entrava in Napoli, solo inerme e senza alcun sospetto; tranquillo come se tornasse a casa sua, modesto come se nulla avesse fatto per giungervi!».

  • Liborio Romano aiutò la nascita lo sviluppo e l’esistenza della camorra, la usò e arruolò nella polizia inserendola nella pubblica amministrazione. La trasformò da organizzazione criminale ai margini della società (già storicamente perseguita dalla polizia borbonica) in una classe dirigente atta a governare la politica e l’economia dell’ormai decaduto Regno delle due Sicilie.

Giacinto de’ Sivo così descriveva la camorra e gli eventi dal 1847 al 1861 : «Uscita la Costituzione il ministero la prima cosa pose Camorristi in uffizio. Lo stesso dì 27 giugno fece prefetto di polizia D. Liborio Romano (….) tenuto patrono e cima di Cammorristi …» [Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861].

Gilberto Oneto altro storico, afferma che Garibaldi pagò i camorristi napoletani con somme ingenti di denaro ed assegnazione di pensioni : «Nei giorni immediatamente successivi [all’entrata a Napoli, n.d.r.] il generale assegna alla camorra un contribuito di 75 mila ducati (circa 17 milioni di euro) che preleva dalle casse del Regno delle Due Sicilie (…) subito dopo Garibaldi attribuisce una pensione vitalizia di 12 ducati mensili (2.700 euro) a Marianna De Crescenzo (…), Antonietta Pace, Carmela Faucitano, Costanza Leipnecher, e Pasqualina Proto, e cioè l’intero vertice femminile della camorra”» (Libero, 24.11.2010).

“Si condanni ora il mezzo da me operato: mi si accusi di avere introdotto nelle forze di polizia pochi uomini, rotti ad ogni maniera di vizi e di arbitri. Io dirò a codesti puritani, i quali misurano con la stregua dei tempi normali, i momenti di supremo pericolo, che il mio compito era quello di salvare l’ordine: e lo salvai col plauso di tutto il paese”. (L.R. Memorie politiche p.52).

  • Rocco Chinnici magistrato italiano e una delle vittime di Cosa Nostra, nella sua relazione sulla mafia tenuta nell’incontro di studio per magistrati organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Grottaferrata il 3 luglio 1978 così si era espresso: “Riprendendo il filo del nostro discorso, prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione, non era mai esistita in Sicilia”, e più oltre aggiunge: “La mafia … nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”.»

L’ex ministro borbonico, fu isolato anche nel Parlamento italiano, vista la sua scarsa abilità politica e diplomatica. Fu incapace di architettare anche i suoi stessi gloriosi piani di grandezza.

fonte

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Posted by altaterradilavoro