𝐌𝐚 𝐢 𝐕𝐢𝐧𝐭𝐢 𝐝𝐢 𝐕𝐞𝐫𝐠𝐚 𝐧𝐨𝐧 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐬𝐨𝐥𝐨 𝐢 𝐩𝐨𝐯𝐞𝐫𝐢
Se non fosse per la traccia agli esami di maturità, il centenario di Giovanni Verga sarebbe trascorso in sordina.
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Ma i Vinti di Verga non sono solo i poveri
Se non fosse per la traccia agli esami di maturità, il centenario di Giovanni Verga sarebbe trascorso in sordina. Poche rievocazioni, pochissime analisi, cerimoniosi silenzi. E la traccia scolastica suggerisce l’idea che i vinti di Verga siano i poveri e oppressi, senza diritti, lasciando l’impressione di un impegno sociale e socialista di Verga che, come vedremo, non era nella sue corde.
A differenza di altri autori importanti della nostra letteratura, a partire dal suo conterraneo e contemporaneo Luigi Pirandello che fa ancora parlare di sé e primeggia a teatro, la fama di Verga è in massima parte circoscritta proprio ai ricordi scolastici, esaurita nelle letture tra i banchi e nelle classificazioni di maniera ad uso dei manuali. Il suo sguardo sulla vita era definito solitamente pessimista ed era un modo eufemistico per non dire che Verga, a differenza di Manzoni, non credeva nella Provvidenza cristiana ma nel Fato, il cieco e terribile destino rispetto a cui tutti siamo succubi e vinti. Provvidenza era il nome dell’imbarcazione dei Malavoglia, e non è un caso che s’infranga tra i marosi e i faraglioni di Aci Trezza. Il naufragio della Provvidenza sullo scoglio del Fato è la sintesi simbolica della concezione verghiana della vita. La visione del mondo di Verga si potrebbe sintetizzare parafrasando Vico: il Vero e il Fato, ovvero la realtà cruda della vita e della natura e i decreti inesorabili del destino, che lasciano poco spazio alla libertà umana e alla possibilità di modificare il futuro. E’ una filosofia di vita, antica e profonda, che occhieggia nel Mediterraneo, tra Grecia e Magna Grecia, sfiora il “fatalismo turco” di cui scriveva Nietzsche e si ritrova sulle sponde del mondo islamico e arabo.
Verga attingeva i suoi umori profondi dalla Sicilia precristiana, dalla Trinacria della Tragedia greca, dal fondo arcaico di una Terra fatalista che teme il sole e corteggia la morte. Il pessimismo siciliano si esprime con Verga, Federico De Roberto e Luigi Capuana (la triade catanese), costeggia Luigi Pirandello, riprende con Giuseppe Tomasi di Lampedusa e arriva fino a Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino e Manlio Sgalambro, la cui opera prima in età matura s’intitola La morte del sole.
Per Verga non era solo il fato ad accanirsi sull’umanità, magari attraverso la forza impietosa della natura; anche la storia per Verga non era un radioso cammino verso “le magnifiche sorti e progressive”, su cui ironizzava Giacomo Leopardi. Rispetto a Manzoni il Risorgimentale, Verga osservò con disincanto l’Italia uscita dal processo unitario. Intravide i segni di lacerazione dell’Italia già nella fase nascente; in questo sguardo amaro sull’Italia unita, Verga è in buona compagnia con la grande letteratura siciliana, tra I Vicerè di de Roberto a Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Per altri versi anche Pirandello riflette le inquietudini e le turbolenze della Sicilia post-unitaria.
Erano meridionali i Vinti di Verga, poveri cristi ma anche neo-borghesi agiati o nobili decaduti; gente del sud profondo, siciliani, pescatori in cerca di fortuna in alto mare o al nord, donne vestite di nero che aspettavano i loro mariti perduti nell’ignoto e nella tempesta, vecchi e giovani sconfitti, gli uni dal tempo che avanza e gli altri dal luogo che non avanza; ma anche nuovi benestanti mai riusciti a compensare con la ricchezza e “la roba” la loro “rustica progenie”. Sconfitti dalla modernità, dal processo unitario, dalla malasorte, dal cambiamento. Nel ciclo dei Vinti si riconobbe il destino dei siciliani e dei meridionali, sia coloro che rimasero attaccati alla loro terra e alle loro famiglie, sia coloro che cercarono fortuna allontanandosi, ma con la terra nel cuore. Di Verga lessi a scuola i Malavoglia, e li lessi di malavoglia, come accade alle letture coatte; gustai invece Mastro don Gesualdo e le Novelle, che lessi per scelta mia, da privatista.
Nella sua demolizione della letteratura italiana, salvo poche indulgenze, Antonio Gramsci stroncò pure Verga e il verismo perché a suo dire si limitava “a descrivere la bestialità” della così detta natura umana (un verismo in senso gretto) e non offrì “apprezzabili rappresentazioni del lavoro umano e della fatica”. In altri termini Gramsci, al contrario di quanto suggerisce la traccia del tema, rimproverava a Verga di non essere socialista e di non essere dalla parte degli umili e degli oppressi, dei lavoratori e delle loro organizzazioni. Critica ideologica, non letteraria. In effetti Verga socialista non fu mai e apprezzò perfino le sanguinose repressioni di Bava Beccaris. Dopo una giovanile militanza garibaldina e una simpatia nei confronti del suo conterraneo Francesco Crispi, di cui sostenne anche la politica autoritaria e la repressione dei fasci siciliani, Verga passò alla destra storica. D’indole conservatrice, Verga fu interventista, colonialista e nazionalista, anzi aderì all’associazione nazionalista italiana e simpatizzò col nascente movimento fascista e con Mussolini. Non fece in tempo a vedere la marcia su Roma, perché morì nell’inverno del 1922. Acuta fu la distinzione che fece Pirandello quando pronunciò a Catania nel 1920, alla presenza del ministro della pubblica istruzione Benedetto Croce, il discorso celebrativo in onore dell’ottuagenario Verga e lo definì “scrittore di cose” opposto a D’Annunzio “scrittore di parole”. La parola alata del Vate e la natura in prosa del Verista.
Pur essendo radicato nella sua Sicilia, Verga non restò recluso nello spazio angusto della provincia; visse a Firenze, a Milano, viaggiò tra Parigi, Londra e Roma, dove infine fu senatore per nomina regia. Ma Verga, come Pirandello, dimostrò che si è veramente universali e veraci quando si racconta il microcosmo della provincia, miniatura del mondo. In un lembo di Sicilia vide l’intera umanità e il suo inesorabile destino.
La Verità (24 giugno 2022)