L’Italia dei cammini nasce nel Medioevo

L’Italia dei cammini nasce nel Medioevo

Di Antonio Musarra 19 Maggio 2023

Le comunicazioni politiche e militari hanno sfruttato le vie dei barbari

Nel resoconto del proprio viaggio di ritorno da Roma a Canterbury, redatto attorno nel 990, l’abate Sigerico enumerava le numerose stazioni (submansiones) presso cui s’era fermato lungo la penisola. Avvicinandosi al Passo della Cisa, identificato genericamente come Mons Bardonis o Mons Langobardorum, dopo aver ricordato Pontremoli (Puntremele) e San Benedetto in Val di Magra (Sancte Benedicte), egli menziona la località di San Moderanno (Sancte Moderanne), cui fa seguire, dopo la non più identificabile Philemangenur, altre stazioni che dall’alta Val Baganza, attraverso la pieve di Bardone, recavano verso Borgo San Donnino e, di qui, a Piacenza. Ci troviamo nel cuore della cosiddetta via Francigena: non tanto nel suo centro geografico bensì in quello ch’era – e ch’è tutt’oggi – uno dei suoi snodi fondamentali, capace di mettere in comunicazione la “Langobardia”, l’area di maggior espansione della gens Langobardorum, e quella tosco-laziale. Un itinerario che inizia a delinearsi – attraverso l’aggregazione di sentieri diversi, alcuni in uso da tempo – appunto in età longobarda, e, cioè, tra VII e VIII secolo, per facilitare i contatti con i domini del centro e del sud della Penisola: il ducato di Spoleto e quello di Benevento, oltre che, naturalmente con il “ducato di Roma”, allora parte, almeno formalmente, dell’Impero romano che aveva sede a Costantinopoli. Fu con la stabilizzazione del confine tra Longobardi e Bizantini, dopo le conquiste di Rotari degli anni Quaranta del VII secolo, che il percorso iniziò a configurarsi quale principale direttrice di collegamento tra la pianura padana e il resto della Penisola, favorendo le comunicazioni e la costruzione d’un’identità comune sulla base della diffusione e la sostituzione del cristianesimo romano sull’arianesimo longobardo.

Prendeva forma, così, la strada “del Monte Bardone”, più tardi definita Romea o Francigena. Va detto che la via marittima verso la Gallia era ancora molto praticata, contrariamente a quanto si pensi. O, almeno, questo è quanto emerge dalle poche relazioni di viaggio superstiti così come da una fonte d’eccezione: le lettere inviate dai papi verso il settentrione d’Europa – in particolare verso le terre franche –, che forniscono dati utili sulla stagionalità del viaggio e sui percorsi più battuti.

Nel VII secolo, le comunicazioni papali raggiungevano il picco nei mesi estivi, nella stagione più favorevole alla navigazione: dal litorale laziale, le navi guadagnavano le foci del Rodano, facendo scalo in Sardegna o sulle coste liguri, aggirando in tal modo l’occupazione longobarda della valle padana. Dopo il 700, le spedizioni si distribuiscono, invece, lungo l’intero arco dell’anno, raggiungendo il picco tra la primavera e l’autunno, benché si registri un calo nella stagione estiva; forse per effetto delle cosiddette “febbri italiche”, allora piuttosto diffuse. Le comunicazioni, a ogni modo, proseguono nel corso dell’inverno; ciò che ha portato diversi studiosi a postulare una sorta di mutamento nelle forme e nei modi del viaggio. Nonostante l’esiguità dei dati, si può ritenere, infatti, che, nel corso del VII secolo, il sistema delle comunicazioni papali verso settentrione fosse ancora prevalentemente marittimo.

Nel secolo successivo si assiste, invece, al graduale passaggio a un sistema misto; quindi, a un sistema prevalentemente terrestre, cui si associa un incremento nell’utilizzo dei passi alpini. Lo spostamento viario conobbe, tuttavia, molte variabili. Paolo Diacono ricorda, ad esempio, come l’aumento delle piogge, alla fine del VI secolo, provocasse gravi dissesti idro-geologici, che avrebbero portato all’impaludamento di vaste zone, essendo scomparsa la manutenzione dei drenaggi di epoca romana. In effetti, i percorsi preferiti erano quelli di crinale o di mezza costa, al sicuro dall’acqua. Sarà solo a partire dal XIII secolo, al termine d’una lunga fase di bonifica e di disboscamento – da attribuire essenzialmente alle fondazioni monastiche –, che si tornerà a percorrere i fondovalle. La struttura viaria della penisola, a ogni modo, ricalcava ancora in grande parte quella romana.

Per attraversare i corsi d’acqua ci si serviva generalmente dei ponti sopravvissuti dai tempi antichi. Si pensi, ad esempio, ai ponti sulla Flaminia o sulla Salaria. Alcuni di essi, come il ponte di Bobbio – il cosiddetto Ponte Gobbo – erano ritenuti, per l’alto livello tecnologico, opere miracolose e inspiegabili: opere del Diavolo. La manutenzione dei percorsi era molto diversa da quella praticata nell’antichità, non potendosi giovare della mano d’opera schiavile o militare, in grado di costruire speditamente strade lastricate in pietra; divenendo, invece, appannaggio dei poteri locali, soliti mantenere il selciato solo in limitati casi. Ciò che avrebbe favorito il progressivo abbandono dell’uso del carro in favore del bestiame da soma, più adatto a un manto stradale erboso e sconnesso. La conseguenza non sarebbe stata altro che il ritorno all’antica pratica della transumanza, attraverso i tratturi (“tractoria»“), tutelati da apposite norme. Nel 1155, ad esempio, Guglielmo I, re di Sicilia, avrebbe emanato alcuni provvedimenti volti al mantenimento dei percorsi pastorali nell’area del Tavoliere delle Puglie. L’attenzione per la viabilità, dunque, non venne meno, favorendo gli spostamenti di uomini e beni. È quanto mostra, del resto, la pletora di pellegrini che, a partire dall’VIII secolo, e poi, soprattutto, nei secoli centrali del Medioevo, sappiamo percorrere le strade della penisola, raggiungendo Roma e di qui, attraverso i porti pugliesi, Gerusalemme: meta ultima del proprio viaggio.

 

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