L’impresa divenuta leggenda: così gli uomini della Decima colpirono Alessandria
La notte del 18 dicembre 1941, sei italiani su tre siluri entrarono nella leggenda. E colpirono al cuore la flotta inglese ad Alessandria d’Egitto
Lorenzo Vita – Ven, 18/12/2020
La notte del 18 dicembre 1941, Alessandria d’Egitto dormiva placida insieme alle navi dell’Impero britannico ormeggiate nel suo porto. Il mare era calmo, il vento completamente scomparso. La Luna illuminava con la sua tiepida luce le acque del Mediterraneo, mentre le onde si infrangevano sulle pietre e il cemento del porto di più importante dell’Egitto.
Una notte perfetta, che presto si sarebbe trasformata nell’incubo della marina britannica e in uno dei maggiori trionfi per la Regia Marina.
Tutto ebbe inizio la notte del 3 dicembre a La Spezia. Dopo settimane di addestramento durissimo con l’obiettivo di lavare l’onta dell’attacco a Taranto di un anno prima, il sommergibile Scirè, comandato dal tenente di vascello Junio Valerio Borghese, prese il largo.
L’ordine prevedeva di simulare un’esercitazione per eludere le reti di spionaggio Alleate nel Mediterraneo. Una questione di importanza fondamentale, dal momento che le capacità di intelligence e le differenze tra i vari schieramenti potevano significare la stessa vittoria in guerra.
Mentre la notte calava sulle coste liguri, Borghese diede l’ordine di imbarcare, senza farsi vedere da alcun occhio indiscreto, tre “maiali”, i siluri a lenta corsa che sarebbero diventati il marchio di fabbrica della Decima Mas. I tre siluri vennero posizionati all’interno dei cilindri a tenuta stagna nella pancia del sottomarino. Una volta presi i maiali, l’ordine era quello di recarsi a Porto Lago, nell’isola di Lero, dove lo Scirè avrebbe imbarcato i sei assaltatori pronti a unirsi alla missione. Un viaggio non privo di pericoli: navi e aerei da ricognizione britannici solcavano costantemente cieli e mari sulla rotta del sommergibile italiano, rendendo particolarmente complesso il passare inosservato. Un rischio che l’equipaggio decise non soltanto di accettare, ma anche di prendere di petto, addirittura sfidando un aereo inglese, che venne “salutato” dal sottomarino italiano rilanciando un codice che i servizi segreti erano riusciti a intercettare nelle settimane precedenti l’operazione.
Sulla piccola isola del Dodecaneso italiano, Borghese e gli uomini della Mas attendevano il loro destino e le notizie che arrivavano da Alessandria. Le ricognizioni aeree sul porto egiziano avevano dato alcune indicazioni, ma l’ordine tardava ad arrivare. Troppi i dubbi per una missione così complessa come quella che si stava per compiere. Dopo giorni di attesa nella piccola isola immersa nell’Egeo, l’quipaggio dello Scirè e gli assaltatori che erano giunti nell’isola passano per Rodi, ricevettero l’ordine di partenza. Il sommergibile di Borghese avrebbe preso il mare alle ore 7:00 del 14 dicembre: iniziava la penultima fase dell’operazione G.A.3. Quella che sarebbe diventata l’impresa di Alessandria.
Il viaggio non fu affatto semplice. Il Mediterraneo orientale, in questo periodo dell’anno, rischia di essere particolarmente tormentato e quel tratto di mare non è protetto da alcuna barriera naturale. Da Lero a Alessandria la rotta era libera da ogni tipo di “scudo” e le condizioni meteorologiche furono considerate anche un funesto presagio dovuto alla scelta del 17 come data per completare la missione. Quella sera, l’ultimo aereo da ricognizione aveva confermato la presenza di due navi da guerra inglesi nel porto di Alessandria. Ed era giunto l’ordine supremo: “DA SUPERMARINA: accertata presenza in porto due navi da battaglia. Probabile portaerei: ATTACCATE”.
L’equipaggio di Borghese non aspettava altro. Il 18 dicembre il mare si era improvvisamente calmato e il Sole calava coprendo di oscurità le onde del Mediterraneo. Lo Scirè si caricò di energia e di ossigeno e partì alla volta del porto egiziano. Scopo della missione era quello di evitare mine e reti di sroveglianza britannici ed emergere a 1.3 miglia nautiche da Alessandria, mantenendo una profondità al di sotto dei 60 metri. Alle ore 20.47, lo Scirè iniziò ad affiorare e a rilsciare i “maiali”. Una volta abbandonati i siluri a lenta corsa, il sommergibile aveva l’ordine di percorrere la rotta dell’andata per tornare a La Spezia. I sei uomini della Decima Mas ora si trovavano soli al cospetto della Royal Navy.
Gli uomini della Regia Marina cominciarono ad avvicinarsi al porto di Alessandria. La squadra si divise in questo modo: il tenente di vascello Luigi Durand de la Penne con il capo palombaro Emilio Bianchi, il capitano del Genio Navale Antonio Marceglia era in coppia con il sottocapo palombaro Spartaco Schergat, mentre il capitano delle Armi Navali Vincenzo Martellotta era insieme al capo palombaro Mario Marino. Sei nomi che dopo quella notte diventarono immortali.
La svolta arrivò quella stessa notte grazie a un clamoroso colpo di fortuna. I sei assaltatori avevano un unico problema: quello di superare la rete di sbarramento. Un problema non insormontabile, certo, ma che avrebbe potuto ostacolare anche in maniera definitiva la buona riuscita dell’operaizone Per fortuna per loro, le cose quella sera erano destinate ad andare diversamente. La Marina inglese, in attesa del rientro di alcuni cacciatorpediniere, avevano aperto la rete per dare loro modo di rientrare alla base. Una breccia che gli uomini della Decima sfruttarono immediatamente, dando il via all’ultima fase delle operazioni: avvicinarsi alle unità nemiche e affondarle.
Durand de la Penne e Emilio Bianchi avevano come bersaglio la Valiant. Alle 2 di notte del 19 dicembre, il maiale venne immerso per colpire lo scafo della nave britannica, ma il siluro a lenta corsa iniziò a imbarcare acqua adagiandosi sul fondale. De la Penne provò insieme a Bianchi a far ripartire le eliche, ma il secondo ebbe un malore per un guasto al respiratore, perdendo i sensi. Tuttavia, il tenente di vascello non si diede per vinto: trascinò il siluro da solo, per 40 minuti, fino a raggiungere lo scafo della Valiant e lì piazzò la sua carica esplosiva. Una volta tornato in superficie, De la Penne si ritrovò su una boa insieme a Bianchi, ma furono individuati dagli inglesi che prima li portarono a terra per interrogarli, poi, visto il loro silenzio, vennero condotti a bordo della nave in attesa che svelassero i loro piano. Mezz’ora prima dell’orario dell’esplosione, De la Penne chiese di parlare col comandante della Valiant per dirgli di far abbandonare la nave e salvare l’equipaggio. Ma alle 6:15 la mina esplose squarciando lo scafo della nave.
Non troppo diversa fu la missione dell’altro “maiale”, il n. 222, con a bordo Vincenzo Martellotta e Mario Marino, sul maiale nº 222. Il primo venne colto anch’esso da malore, costringendo il siluro a navigare in superficie. Una scelta tanto coraggiosa quanto pericolosa, dal momento che sarebbero stati più facilmente individuati dai nemici. I due avevamo come obiettivo la petroliera Sagona. La scelta cadde su quell’imbarcazione perché secondo gli ordini di Borghese, in assenza di portaerei qualcuno avrebbe dovuto colpire il carico di petrolio di Alessandria. Ma era una missione delicatissima, dal momento che far esplodere una petroliera poteva avere conseguenze devastanti per la deflagrazione. I due riuscirono a piazzare la carica esplosiva e una volta raggiunta terra furono catturati dalla vigilanza del porto. Come per la Valiant, anche per la Sagona l’esplosione avvenne verso l’alba, con un incendio così ampio da coinvolgere altre quattro navi.
L’ultimo maiale, il 223, aveva invece come obiettivo la Queen Elizabeth. L’operazione di Antonio Marceglia e Spartaco Schergat fu da manuale: i due marinai riuscirono ad agganciare la carica esplosiva alla nave britannica e a raggiungere terra senza essere visti. Furono però catturati il giorno dopo per un tragico errore del Servizio segreto militare: tra gli oggetti utili per la fuga, i funzionari del Sim diedero alla Decima banconote che non avevano più corso legale in Egitto, facendo così smascherare i due palombari. Ma l’operazione era comunque andata a buon fine: alle 06.25 la carica esplose devastando il locale caldaie. La Queen Elizabeth stava affondando.
La Mediterranean Fleet britannica aveva subito un colpo che avrebbe potuto essere letale. Dopo l’impresa di Alessandria, gli inglesi sembravano aver perso completamente il controllo del Mediterraneo e le parole di Winston Churchill ci aiutano a capire, ancora oggi, il valore della missione: “Sei italiani equipaggiati con materiali di costo irrisorio hanno fatto vacillare l’equilibrio militare in Mediterraneo a vantaggio dell’Asse”. La Storia poi avrebbe dato ragione a Londra: ma la gloria di quell’azione non è stata mai dimenticata nel Regno Unito, tanto che lo stesso Times, quando morì Marceglia, dedicò al valoroso nemico una pagina di necrologio. L’onore delle armi per un uomo che insieme a suoi cinque compagni di viaggio segnò per sempre la Storia della Marina e dell’Italia nella Seconda guerra mondiale.