L’eruzione del Vesuvio del 1631

L’ERUZIONE DEL VESUVIO DEL 1631 DESCRITTA DALL’ABATE BRACCINI di Angelo D’Ambra

L’eruzione del Vesuvio del 1631 fu ben descritta da un libro di particolare interesse dal lungo titolo Dell’incendio fattosi nel Vesuvio a XVI di dicembre MDCXXXI e delle sue cause ed effetti con la narrazione di quanto è seguito in esso per tutto marzo 1632 e con la storia di tutti gli altri incendj nel medesimo Monte avvenuti, discorrendosi in fine delle acque, le quali in questa occasione hanno danneggiato le campagne e di molte altre cose curiose. L’opera fu partorita dalla vivace personalità dell’abate Giulio Cesare Braccini, nato a Gioviano di Lucca nel 1572, che soggiornò a Napoli tra il 1629 e il 1632 e poté assistere all’eruzione, annotarne i caratteri e dare alle stampe per Secondino Roncaglio, l’anno seguente, il prezioso trattatello, un vero e proprio diario degli eventi che proietta nel Seicento napoletano l’ombra di Plinio il Giovane, la cui narrazione dell’eruzione vesuviana del 79 d.C. assurge ad illustre modello descrittivo.
L’eruzione del Vesuvio del 1631 descritta dall’abate Braccini

L’eruzione del Vesuvio del 1631 fu ben descritta da un libro di particolare interesse dal lungo titolo Dell’incendio fattosi nel Vesuvio a XVI di dicembre MDCXXXI e delle sue cause ed effetti con la narrazione di quanto è seguito in esso per tutto marzo 1632 e con la storia di tutti gli altri incendj nel medesimo Monte avvenuti, discorrendosi in fine delle acque, le quali in questa occasione hanno danneggiato le campagne e di molte altre cose curiose. L’opera fu partorita dalla vivace personalità dell’abate Giulio Cesare Braccini, nato a Gioviano di Lucca nel 1572, che soggiornò a Napoli tra il 1629 e il 1632 e poté assistere all’eruzione, annotarne i caratteri e dare alle stampe per Secondino Roncaglio, l’anno seguente, il prezioso trattatello, un vero e proprio diario degli eventi che proietta nel Seicento napoletano l’ombra di Plinio il Giovane, la cui narrazione dell’eruzione vesuviana del 79 d.C. assurge ad illustre modello descrittivo.

Le descrizioni di Braccini si presentano cristallizzate entro gli schemi della tradizione umanistico-rinascimentale, dove il discorso si svolge sulla base delle capacità interpretative del lettore proprie di quell’epoca (A. Tortora, L’Abate Giulio Cesare Braccini e l’eruzione vesuviana del 1631).

Il fenomeno vulcanico diventa soprattutto un messaggio di castigo divino, una punizione fatta di morte e distruzione per i peccati terreni. Il Braccini afferma infatti “che (l’eruzione del vulcano) viene ugualmente preso e interpretato qui comunemente per segno manifesto dell’ira di Dio sdegnato contro di noi”. Ancora una volta, così, la Napoli seicentesca realizza una solida compenetrazione tra il divino ed il corso storico della natura.

L’eruzione pliniana fu segnata da forti scosse telluriche e deformazioni del suolo iniziati alle 7 del mattino del 16 dicembre nello stesso momento in cui sul fianco del Vesuvio si apriva una grande frattura da cui fuoriuscirono una colonna eruttiva di circa 19 km, che diede poi luogo alla caduta di cenere e lapilli, e i flussi piroclastici che seppellirono Pompei ed entrarono in mare nella zona compresa tra Torre del Greco e Torre Annunziata. Allo stesso modo, l’eruzione del 1631 nacque nel dicembre di quell’anno, con una fase iniziale di attività stromboliana, vibrò la terra e grandi quantità di materiali eruttati e detriti fangosi si spinsero fino alla riva. Il mare stesso venne ricacciato oltre la linea di battigia. Il Braccini scrive che “anco il mare ne sentì la sua parte e si ritirò per lungo spatio, e in alcuni luoghi dicono un miglio, e stette così ritirato quasi un ottavo di ora e fu tanto subito il ritiramento, che in questo modo restarono quasi in secco le navi”.

L’eruzione fu tremenda perché serbava in sé l’energia di un riposo lungo 130 anni e sebbene durò sole 48 ore, le fasi esplosive determinarono la parziale distruzione del cono del Vesuvio che si abbassò di oltre 450 metri.

Dopo più di un secolo di quiete, il Vesuvio si destò in tal modo dal torpore, la terra tremò, ceneri, fiamme e lapilli si abbatterono sui campi coltivati e sui centri abitati, terrore, rovina, morte minacciarono di distruggere anche Napoli. Al mattino del 16: ”s’aprì il Monte nell’Atrio. Non vi andò molto tempo, che da ogn’uno si conobbe da più di una banda uscire e fumo, e fuoco, e cenere, e pietre, e fiamme: e un certo Santolo di Simone, lontano dall’incendio meno di mezzo miglio, la mattina istessa vidde in quel piano uscire il fumo, et il fuoco da più bande, che di mano in mano si aprivano, gettando nell’aprirsi uno schioppo, come se fussero stati tanti mortaletti di quelli che si tirano nelle feste: e quelle bocche gli parevano prima grandi quanto è un fondo di grosso tino, ma nell’esalare si slargavano, e facevano sempre maggiori: le esalazioni poi, unite insieme in aria, formavano quella nuvola, che vidde calar saette, e grossissime pietre.E altri attestano aver veduto in più parti le aperture, donde sono usciti sassi, e materie bituminose, oltre la voragine grande”.

Il sole si levò sul Monte Somma, ma “verso le 18 ore crebbero tanto i vapori, e le esalationi che dalle voragini uscivano, che l’oscurò quasi affatto, e l’aria istessa si fé nera e caliginosa, con sentirsi una puzza di solfo, e di bitume abbruciato, tanto grave, che cagionava quasi soffocatione, e a me impediva il respirare”. Il tutto si accompagnò presto con “tremori per li quali crollavano talmente le case e ballavano i tetti spaventevole strepito per l’aria. Insomma fu qui per tre ore tanto grande questo rumore per l’aria, così continuo il conquassamento delle case, tanto spaventevoli i tuoni, talmente horribili i lampi”.

Il giorno dopo “fu così denso il fumo, che sebbene altrove era giorno, quivi pareva notte”, poi “alle ore 8 essendosi raddoppiato lo strepito nella montagna cominciò a versare dalla voragine una materia liquida, la quale allagò tutto l’atrio… i terremoti vie più si facevano sentire e ricominciarono a cadere nel pian di Nola le pietre, la arena e rapilli. E si ricoperse talmente tutto quel paese di sì densa oscurità che ne anco con le torce accese potevano gl’uomini vedersi l’un l’altro. Essendosi sentito un grandissimo terremoto, fece prima sopra Ottaviano un così grande e rapido torrente, che essendo diviso in tre profondissimi canali, sgorgarono tutti nel piano di Nola, allagando S. Elmo, Saviano, e tutti quei contorni, con affogarvi molte persone; e in alcuni luoghi si alzò 12 e 14 palmi, come in Marigliano, Cicciano, e Cisterna. Un altro ne calò verso S. Maria della Vetrara, che rovinò tutta Massa, e finì quasi ad atterrare quanto era rimasto in piedi nella terra di Trocchia, la metà di Pollena, e fece grandissimi danni in S. Sebastiano. Appresso calando li medesimi torrenti verso la marina, si divisero in tre rami, uno di questi prese verso Bosco, l’altro fra Torre della Annuntiata, e quella del Greco, e il terzo e minor di tutti sopra Resina; poco da poi ne calò un altro verso Somma. Da questi torrenti è nato il maggior danno”.

Si svilupparono quindi ampie colate di fango, quelle dette scientificamente lahars, dovute alla grande quantità di vapore acqueo immesso in atmosfera che incontrando le particelle di cenere scatenarono piogge torrenziali e conseguentemente le colate lungo le pendici del Vesuvio. I casali di San Giorgio a Cremano, quelli di Massa, di Pollena e di Trocchia, di San Sebastiano furono tutti distrutti. Duecento case di Sant’Anastasia furono logorate ed infine sfondate dalla cenere ed ancor più a Somma. Bosco fu completamente distrutta, a Torre Annunziata rimasero in piedi il Castello del Principe di Butero e poco più di dieci case. A Torre del Greco sopravvissero solo il Palazzo della Principessa, la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, il Convento dei padri Riformati dell’Osservanza e la Chiesa degli Incurabili. Anche per i casali di Nola e per altri luoghi dominati dai monti di Avella e di Lauro si registrarono tali disastri.

Così, l’abate Braccini commentò poi l’evolversi del fenomeno sino a sabato 20: “In Napoli non habbiamo avuto altro di nuovo, salvo un rumore straordinario, che si udì alli 29, circa alle 8 ore di notte (3 del mattino), parendo che fusse caduta una Montagna: alcuni marinari viddero partirsi di sopra il Vesuvio un grande splendore a guisa di un grosso trave infuocato, e andare a cadere a Marano, e un altro in mare; e la mattina apparve tutto il Monte ricoperto di neve: il che si è veduto anco da poi più volte, cioé a li 20 di gennaio, alli 21 di febbraio. In Napoli non s’è mai patito freddo uguale a quello, che si è havuto quest’anno quasi continuamente insino alli 26 di marzo”.

Da tutti i paesi vesuviani, i fedeli trovarono rifugio e salvezza nel Santuario della Madonna Dell’Arco e l’intercessione della Vergine Maria fu invocata a piè sospinto. Il Cardinale Buoncompagni, che si trova a Torre del Greco, resa impraticabile la via di terra, raggiunse la città via mare e, una volta nel Duomo, invocò l’intervento taumaturgico del santo patrono. Nel trattato dell’abate Braccini leggiamo: “giunto dall’Arcevescovato, dopo aver quivi fatto esporre il santissimo Sacramento, e dato ordine, che nell’altre Chiese tutte si facesse l’istesso, e che si intimasse per il giorno medesimo una general Processione, salì al Tesoro, che così chiamano qui il luogo dove le Reliquie de’ santi si conservano, per quindi trarne la Testa, e il Sangue del Glorioso Protettore san Gennaro, per beneficio del quale confessano i napoletani essere stati altre volte liberati da simil pericolo”.

Ed allora il soccorso soprannaturale inizia a registrarsi ovunque: “Ma miracoloso s’è riputato da tutti quello, che è seguito ad alcune Chiese: le quali con essere in luogo più al pericolo esposte, hà paruto, che e le fiamme, e i torrenti, e le ceneri abbian loro portato rispetto. Tra queste la prima è stata Santa Maria a Pugliano con tutto il suo territorio contiguo: perche scendendo uno di que’ torrenti infocati dal Monte, giunto a confini di detta Chiesa, per non le toccare si divise in due rami, e circondandolo d’ogn’intorno, lo lasciò tutto intatto, abbruciando quant’era ne gl’altri sotto, e sopra”. Eguale evento miracoloso ebbe come protagonista la Chiesa della Madonna dell’Arco: “con maggior dimostrazione è avvenuto alla Chiesa, o masserie della Madonna dell’Arco, le quali non solo non hanno patito danno alcuno, ma in riguardo anco di questa S. Chiesa, come si crede, essendosi abbruciato per tutta la Montagna ogni cosa, e rovinato, o spiantato almento quanto vi era; quella parte sola, che è dirimpetto alla facciata di lei, da alto a basso di detta Montagna è rimasta illesa”. L’elenco continua: “Ne solamente da’ torrenti e dalla grandine delle pietre, e dal fuoco difese questa misericordiosa Vergine la sua Casa, e Convento con quanto a le atteneva; ma dalle saette ancora: delle quali essendovene il Martedì date quattro l’una dopo l’altra, co entrare anco per tutto il Convento, dove erano concorse più di 10 persone dalle Terre convicine, avvampò solo la Cupola, e por si estinsero tutte, come suol fare il ferro infuocato nell’acqua, avanti alla Cappella della pietosa Madre, senza offender nessuno”.

Poi il prodigio toccò Napoli: “Nella Processione princiaple, che si fece questo giorno dalla Chiesa Matrice fin’fuori della Porta Capuana, avanti che il Sangue di S. Gennaro uscisse di detta Chiesa, il Cielo, che era più tosto nero, che oscuro, si rischiarò subito, e al comparire della Reliquia verso la porta, viddesi all’improviso un raggio di Sole, che diede al popolo occasione di gridare, Miracolo, Miracolo: Nè voglio lasciar di dire, che molte persone degne di fede, dicono essere apparecchiate à deporre con giuramento, di aver veduto in mezzo a quella luce il Glorioso Santo Pontificalmente vestito in atto di benedire il popolo. Altri hanno scritto, che essendo il Sig. Cardinale uscito fuori di Capuana, e facenso col Sangue liquefatto in mano la Croce verso il Monte, il vapore, ò fumo, di cui era tutto ricoperto, mostrò quasi di ritirarsi indietro, e scostarsi dalla Città. Questo è verto, che dove non solo le Terre, convicine sono state rouvinate, e conquassate dal fuoco, dalle pietre, e dall’acqua, ò almeno ricoperte dalle cenere, ma le lontane ancora; questa sola Città è infin, ad ora rimasta illesa, e intatta, e tutti l’attribuiscono a continuato miracolo di questo gran Protettore”.

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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Fonte foto: dalla rete