L’epidemia di colera nel Regno delle Due Sicilie del 1836
Notizie allarmanti sulla diffusione del colera giunsero a Napoli dall’Europa Orientale al principio degli anni Trenta dell’Ottocento. Nel gennaio del 1831 la facoltà di medicina dell’Università di Napoli dettarono una serie di linee guida igienico-sanitarie agli Intendenti e già nel mese di agosto, lungo le coste del Regno venne organizzato un cordone sanitario. Senza contagiati, il cordone sanitario fu abolito a giugno del 1832 tra le polemiche delle popolazioni che mal tolleravano l’isolamento dei centri e la cessazione dei commerci. Nel luglio del 1835 però il morbo toccò il Regno di Sardegna ed allora i Borbone mobilitarono l’esercito creando un nuovo cordone sanitario, stavolta ai confini dello Stato Pontificio.
Una serie di istruzioni e regolamenti dettarono norme di comportamento e precauzioni, ma fu tutto vano: il colera si segnalò a Venezia, in Lombardia, ad Ancona ed infine giunse nel Regno delle Due Sicilie.
L’11 settembre del 1836 a Rodi Garganico si registrò il primo caso. L’epidemia rimase circoscritta in un primo tempo a Carpino, Manfredonia, Monte Sant’Angelo e alle Isole Tremiti, provocando 550 ammalati e 216 morti. Il mese successivo fece la sua comparsa a Napoli.
Il colera si diffuse principalmente tra i settori più poveri della popolazione, falcidiando intere famiglie, soprattutto donne. Ovunque si cercò di limitare gli assembramenti civili e religiosi ma la popolazione visse tutto con paura e frustrazione. Chi provò a rifugiarsi altrove, dove ci riuscì, spesso portò con se il colera.
Si provvide alla pulizia quotidiana delle strade, all’imbiancatura con calce interna ed esterna delle abitazioni, ad ispezioni su cibi e vini. In che cosa consistessero quei controlli, in mancanza di analisi di laboratorio che in quei tempi non esistevano, è facile immaginare: si dava uno sguardo alla merce ed “a sensazione” si stabiliva se fosse infetta o meno. Ci furono medici che prescrissero misure per ridurre diarrea e disidratazione, altri incoraggiavano ad espellere ipotetici veleni somministrando ipecacuana e purgativi. Molti ricorsero a salassi e bagni freddi, ma nessun rimedio si mostrò valido. Non mancarono coloro che sospettarono l’intervento di agenti che avessero appositamente diffuso il contagio.
Come se non bastasse un duro terremoto si verifiò in Basilicata, il 20 novembre del 1836, danneggiando Lagonero, Casalbuono, Castelsaraceno, Lauria, Montesano sulla Marcellana, Nemoli, Rivello, Trecchina e Carbone.
L’indice di mortalità a Foggia fu del 22,99 per mille, a Parigi del 21,8 per mille, a Roma del 29 per mille, a Napoli del 39 per mille, a Palermo del 135 per mille. Una mortalità abbastanza contenuta, che si può spiegare con l’esistenza di condizioni igienico-urbanistiche soddisfacenti, un po’ meno in Sicilia.
Sull’isola fu colpita prima Siracusa, poi Catania ed infiene Palermo.
La ricerca di una causa plausibile dell’epidemia che portava alcuni a pensare ad una punizione divina, altri ad untori che diffondevano per malvagità il contagio, sull’isola indusse ad identificare gli untori con agenti governativi. Accadde quindi che il 16 luglio 1837 a Siracusa il popolo insorse contro l’Intendente, considerato un untore per conto di Ferdinando II. Furono uccisi il commissario Vico, altri quattro cittadini forse presi a caso, l’intendente Vaccaro e l’ispettore Greci con suo figlio. La sollevazione popolare venne stroncata quasi subito con la Commissione Militare del Vallo di Noto che riconobbe Pasquale Argento, Pasquale Campisi, Felice Liberto ed Emmanuele Miceli colpevoli di voci sedizione, ribellioni, di omicidi e stragi e li condannò alla fucilazione. Altre sommosse scoppiarono a Catania, Capaci, Termini, Prizzi, Marineo, Corleone, Bagheria, Misilmeri e l’epilogo fu identico. Per breve tempo una giunta di governo tenne in mano anche le redini amministrative di Palermo. Nell’agosto del 1837, il maresciallo Francesco Saverio Del Carretto, Ministro di Polizia, vi riportò l’ordine con oltre settecento arresti e condanne a morte.
Quando la pestilenza scomparve la società ne restò duramente colpita. Si fecerò i conti con le morti dolorose, ma anche con l’aumento dei prezzi e la mancanza di commercio. Il Cimitero delle Fontanelle a Napoli affiancò alle spoglie dei morti per peste nel 1656, quelle di 5669 morti di colera.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Fonte foto: dalla rete
Bibliografia:
R. Letterio, Aspetti demografici della prima epidemia di colera in Capitanata
A. Forti Messina, Società ed epidemia. Il colera a Napoli nel 1836
G. Marchese, L’epidemia di colera del 1837
historiaregni