LA VOCE DEI “BRIGANTI” NEL NUOVO LIBRO DI GIGI DI FIORE

untitledLA VOCE DEI “BRIGANTI” NEL NUOVO LIBRO DI GIGI DI FIORE

Ninco Nanco, Pelorosso, Nenna Nenna, Pizzichicchio, Coppolone Ciucciariello, Pigliuchiello… Nelle pagine del nuovo libro di Gigi Di Fiore (“Briganti”, Utet) sembra di sentire le voci (per troppo tempo dimenticate) di alcuni dei  protagonisti della storia dell’unificazione italiana. Le voci e anche le paure, le speranze, i sogni, le illusioni e anche le disillusioni dei cosiddetti “briganti” che combatterono e morirono nella nostra terra dalle Puglie alla Basilicata, dalla Campania alla Calabria, in oltre dieci anni di una guerra “cafona” che vide contrapposti piemontesi e meridionali, contadini e galantuomini, con sfumature e implicazioni complesse che, nonostante un secolo e mezzo di tentativi, sono ancora tutte da studiare e interpretare. Quello che prevale, però, nelle oltre 300 pagine di questo libro appassionato e appassionante non è l’analisi politica o sociale ma il racconto. Un racconto diviso in tre sezioni che sarebbe più giusto definire (cinematograficamente) “tempi”. Crocco, Cosimo Giordano, il sergente Romano: Di Fiore fa parlare gli atti dei processi, le cronache e i documenti del tempo e dà voce ai tanti che quella voce spesso non l’hanno mai avuta e così, come con dei link, si aprono le altre storie “parallele”. Quelle delle stragi (tema già approfondito nei dettagli negli altri saggi di Di Fiore) come quelle di Pontelandolfo e Casalduni (interessantissimo il racconto della visita di Carlo Alianello circa mezzo secolo fa), di San Giorgio la Molara o di Gioia del Colle. In evidenza, poi, quelle lacerazioni sociali che insieme ai massacri e ai saccheggi furono una delle conseguenze più tragiche dell’unificazione, una lacerazione mai così tragica nella nostra terra. Una lacerazione mai così tragica nella nostra plurisecolare storia e che (non abbiamo dubbi) fu portata da queste parti da quegli oltre 120.000 soldati piemontesi che non erano né passanti né turisti e neanche vigili urbani accorsi a dirimere le liti di litigiosi meridionali. Diretta, inoltre, l’accusa di Di Fiore alle nuove classi dirigenti meridionali (diversi gli eredi genetici o culturali ancora attuali, aggiungiamo noi). In evidenza in tutto il libro un’altra tesi: quella del grande successo che il tema del brigantaggio sta ottenendo in questi ultimi anni. Così il brigantaggio è diventato “un momento storico e simbolico di riferimento ideale nel Sud che rivendica con orgoglio la sua identità”: un successo che è frutto del lavoro di tanti autori che dal 1860 in poi hanno testimoniato l’esistenza di una storia “altra” rispetto a quello ufficiale, frutto delle nuove e più recenti ricerche (accademiche e non) accompagnate da una incessante opera di divulgazione (neoborbonica e non) e pensiamo al successo dei precedenti saggi di Di Fiore o a quello di libri come “Terroni” di Pino Aprile. Tutto questo ha contribuito a rafforzare se non a creare questo “patrimonio identitario”: “pietre smosse della memoria”, nella bella ed efficace immagine utilizzata da Di Fiore. Ma quel mondo di abitini con i santi, di rosari, di portafortuna o di brigantesse baciate dei briganti prima di morire o delle medaglie al valore militare ottenute nell’esercito dei Borbone e fissate sui petti davanti al plotone di esecuzione, era destinato a finire. Lo stesso mondo, però, può diventare, anche grazie a libri come questo, una memoria nuova. Una memoria ancora utile. Forse preziosa per il Sud di domani.

Gennaro De Crescenzo

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