La vera storia della spedizione di Sapri

Sono davvero esterefatto di fronte alla polemica che la nuova statua della Spigolatrice di Sapri ha suscitato. In particolare perché in questa polemica la poesia di Mercantini viene nuovamente passata come storia, mentre in realtà non è altro che un prodotto agiografico di “scarso valore artistico”, propagandato ad arte dagli ambienti governativi sabaudi per inoculare “nell’animo dei giovani valori e ideali che proprio il Risorgimento aveva tradito”.
Pertanto, mi sembra doveroso proporre la vera storia della Spedizione di Sapri, ricordando il regista Lorenzini che nel 1975 propose un film al di fuori di ogni retorica risorgimentale.

LA VERA STORIA DELLA SPEDIZIONE DI SAPRI

di Michele Eugenio Di Carlo
Anche Ennio Lorenzini con il film “Quanto è bello lu murire acciso” del 1975, come Florestano Vancini tre anni prima con Bronte, mette in scena un Risorgimento moderno, dove la realtà prende il posto delle illusioni agiografiche e collega direttamente il fallimento degli ideali e dei valori risorgimentali con la crisi sociale e politica degli anni Settanta del Novecento.
Il periodo in cui il film di Lorenzini è girato è quello violento del terrorismo che renderà necessario la costituzione di un governo di unità nazionale. Un periodo in cui, in analogia a quello seguente il Risorgimento, si spengono le tante illusioni nate dalla stagione del Sessantotto in cui come scrive Renato Ventura, Assistant Professor presso l’Università di Dayton negli Stati Uniti, studioso della letteratura italiana contemporanea, «… i protagonisti della vita politica e sociale sono gli studenti, i lavoratori, le donne, che sulle piazze italiane ripropongono diversi modelli interpretativi del Risorgimento, ovviamente in controtendenza con la narrativa classica dei patrioti risorgimentali quali eroi che si immolano per un ideale di patria e unità della nazione» .
Lorenzini mette in scena la spedizione di Pisacane del 1857, in netta contrapposizione con la storiografia ufficiale e con una letteratura che Ventura elenca e giudica di «scarso valore artistico» .
Alla costruzione dell’identità nazionale aveva contribuito non poco il poeta marchigiano Luigi Mercantini, diventato noto scrivendo i versi de La spigolatrice di Sapri, dedicati alla drammatica spedizione di Carlo Pisacane , graditi dagli ambienti governativi per la forte valenza patriottica e nazionalistica, divulgati attraverso la scuola per il notevole valore didattico-pedagogico fino ai nostri giorni. Qualsiasi studente di elementari e medie era costretto ad imparare a memoria almeno il celebre ritornello della poesia di Mercantini: «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!», al fine di perpetuare nella memoria storica popolare miti falsificati e di incidere intimamente nell’animo dei giovani valori e ideali che proprio il Risorgimento aveva tradito.
Utile a questo punto riproporre un breve excursus storico che si riferisce alla spedizione di Sapri, al di fuori della retorica risorgimentale. Appare significativo, innanzitutto, che secondo lo scrittore di fine Ottocento Raffaele De Cesare, la spedizione di Sapri, organizzata da Carlo Pisacane, non avrebbe turbato i sonni di Ferdinando II quanto l’opuscolo di Antonio Scialoja, l’esule napoletano che aveva criticato le finanze del Regno delle due Sicilie.
Lo storico Giacinto De’ Sivo ha raccontato i particolari dell’organizzazione dell’impresa che avrebbe dovuto sollevare le popolazioni rurali contro i Borbone, sin da quando, in maggio, la giovane letterata inglese Jessie White proveniente da Londra aveva raggiunto il Regno di Sardegna. Non da sola, visto che «con lei anco era giunto, e travestito s’appiattava in Genova, il Mazzini stesso, che moveva tutto». Pisacane, esule napoletano, aveva combattuto a Brescia e a Roma e nello scontro di Velletri del 1849 era stato «capo dello stato maggiore» di Garibaldi. Di idee socialiste e rivoluzionarie, era convinto che il regime costituzionale piemontese nuocesse all’Italia più di quello del «Ferdinando tiranno». È lo stesso de’ Sivo a ricordare che Pisacane, «a mostrar coscienza di libertà», prima di partire per la sua impresa aveva scritto un Testamento politico del tutto indipendente dalle idee mazziniane, che proponeva una vera rivoluzione anche nei riguardi del regime costituzionale piemontese, che Pisacane vedeva, non solo come un rimedio del tutto insufficiente a far risorgere l’Italia, ma addirittura teso a ritardarlo . La storia avrebbe dato ragione a Pisacane per come l’Unità d’Italia sarebbe stata più tardi realizzata, lasciando da parte le istanze popolari e piegandole agli interessi di aristocratici e borghesi.
Già dopo il 1849, il gruppo facente capo a Pisacane si era staccato da Mazzini per percorrere la strada del socialismo rivoluzionario. La critica di Pisacane a Mazzini, poco o affatto analizzata dalla letteratura, è feroce; Francesco Valentini ne ha evidenziato esattamente gli aspetti salienti: «A Mazzini Pisacane rimprovera di non aver visto l’ascesa della plebe e il suo irriducibile contrasto con la borghesia, cioè di non aver inteso la rivoluzione come rivoluzione del povero, e, quanto all’ideologia mazziniana, la considera come suscettibile di involuzioni aristocratiche-pedagogiche» . Vista la distanza da Pisacane, la presenza clandestina a Genova di Mazzini richiamata da de’ Sivo non deve essere collegata direttamente alla spedizione di Sapri, ma solo al fine di eventualmente approfittarne per provocare tumulti in alcune città del nord. Ma Pisacane per la storiografia ufficiale e per la letteratura filo-sabauda doveva assumere solo le vesti di eroe, martire e patriota, persino ignorandone le profonde differenziazioni da Mazzini e da Garibaldi, in merito al suo essere credibile intellettuale e autentico socialista.
Nella prefazione del Saggio sulla rivoluzione di Pisacane, pubblicata a Bologna nel 1894, Napoleone Colajanni scrive testualmente: «Carlo Pisacane, come possono farlo oggi i più avanzati socialisti, combatte Giuseppe Mazzini; ma se egli si mostra severo contro la sua dottrina (specialmente nella parte che rispecchia il misticismo cristiano e la vana speranza di farne una leva per la rigenerazione sociale) e contro il suo metodo (e non sempre le sue accuse sono giuste), è sempre pieno di affetto e di rispetto per la persona», inoltre «nel propugnare la formola libertà e associazione da sostituirsi a quella mazziniana Dio e popolo e all’altra francese libertà, uguaglianza e fratellanza, che ai tempi di Pisacane erano in onore tra i repubblicani italiani» .
Il 25 giugno 1857 il piroscafo Cagliari, appartenente alla compagnia genovese Rubattino, salpava da Genova al comando del capitano Antonio Sitria con trentadue uomini, tra i quali due macchinisti inglesi convinti nel partecipare all’impresa da una lettera della White: «Nostro scopo è liberare i nostri fratelli dalle prigioni di re bomba; però aiutandoci farete una buona azione, approvata dall’Italia e dall’Inghilterra». I “fratelli” della White erano carcerati nell’Isola di Ponza per reati comuni, per motivi di sicurezza e per aver infranto il codice militare da soldati. Sbarcati a sorpresa il 27 giugno a Ponza, assaltarono le postazioni militari, bruciarono le caserme, gli archivi del Comune, del giudice e della Capitaneria, liberarono i detenuti.
Il giorno dopo, il 28 giugno, in quattrocentocinquanta sbarcarono alla marina di Oliveto, ad un miglio da Sapri, e durante la notte entrarono nella città e «da padroni disarmarono il posto doganale, ne presero il denaro della cassa, arsero gli stemmi regi, sforzarono molte case private col pretesto d’arme, e vi rubarono quanto veniva a mano», mentre gran parte della popolazione si rifugiava nei boschi montani.
La mattina del ventinove, saliti nel borgo di Torraca dove si svolgeva la festa padronale di San Pietro, si lasciarono nuovamente andare ad abusi vari. Il giorno dopo, diretti verso Sala Consilina, si riposarono a Casalnuovo (dal 1863 Casalbuono), dove si ripeterono in «arsioni di giglio e rapine di vettovaglie, arme e denari». Passando per Montesano scambiarono mietitori di grano per nemici uccidendo Rosa Ferretti e cercarono inutilmente di sollevare la popolazione; di sera giunsero stanchissimi alla Certosa di San Lorenzo nei pressi di Padula, accolti dal congiurato Federigo Romano. Nel frattempo l’Intendente Aiossa comunicava al sotto-Intendente di Sala Consilina, Calvosa, già da due mesi al corrente del piano insurrezionale, la notizia dello sbarco. Aiossa e Calvosa mobilitarono diverse centinaia di guardie urbane, gendarmi e il 7° Battaglione di Cacciatori al comando del tenente colonnello Ghio. Insieme affrontarono le camicie rosse il 1° luglio a Padula in uno scontro impari, tanto da spingere de’ Sivo a scrivere che fu «piuttosto macello che pugna».
Gli scampati si diressero la mattina del 2 luglio verso il bosco di Sanza, dove furono sorpresi da guardie urbane che uccisero nello scontro a fuoco il Pisacane, mentre i superstiti furono aggrediti dalla popolazione accorsa al suono delle campane. Singolare destino per «quei liberatori di popolo cacciati dal popolo come belve» .
Il 4 luglio il Conte di Groppello, ambasciatore piemontese a Napoli, comunicava al Conte di Cavour la sorprendente resistenza della popolazione: «La banda dovunque passò […] trovava avversione grandissima nella popolazione»; circostanza che per de’ Sivo costituiva una testimonianza storica manifesta «che i Borboni sì tiranni gridati fuori, eran nel regno amati, e difesi dai tiranneggianti» .
Nel suo film Lorenzini valuta attentamente il mancato coinvolgimento delle masse rurali e lo relaziona alla mancata funzione degli intellettuali, oltre che ad un Partito d’Azione non maturo e carente nell’elaborazione politica. Antonio Gramsci ne darà conferma annotando che «Il Partito d’Azione era imbevuto della tradizione retorica della letteratura italiana: confondeva l’unità culturale esistente nella penisola ˗ limitata però a uno strato molto sottile della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano ˗ con l’unità politica e territoriale delle grandi masse popolari che erano estranee a quella tradizione culturale e se ne infischiavano dato che non conoscessero l’esistenza stessa» . Una disattenzione nei riguardi delle masse contadine del Sud che non sarà colmata, nonostante Gaetano Salvemini, dal ceto dirigente e intellettuale del Partito Socialista, poco propenso ad occuparsi fondatamente della questione demaniale irrisolta della quotizzazione dei terreni alla piccola proprietà contadina che continuerà a mantenere le plebi rurali del Mezzogiorno in condizioni di vita gravosissime. La critica di Gramsci a questo proposito sarà dura e definitiva:

Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale […] La società meridionale è un grande blocco agrario costituito di tre strati sociali: la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in perpetuo fermento, ma come massa essi sono incapaci di dare una espressione centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le impulsioni per la sua attività politica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi, tutto questo complesso di manifestazioni. Come è naturale, è nel campo ideologico che la centralizzazione si verifica con maggiore efficacia e precisione. Giustino fortunato e Benedetto Croce rappresentano perciò le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure della reazione italiana .

Nella valutazione delle basi ideologiche socialiste Lorenzini sempre passare anche oltre le critiche di Gramsci fino a giungere alla società della prima metà degli anni Settanta del secolo scorso, cogliendo delle analogie tra le tante difficoltà che Pisacane aveva incontrato nel rapportarsi con gli esponenti della borghesia agraria napoletana, con gli intellettuali, con le masse contadine e le delusioni che le masse operaie e studentesche stavano già amaramente assaporando dopo il Sessantotto in termini di emancipazione economica e politica, soprattutto nel Mezzogiorno dove continuava ininterrotto il flusso emigratorio di massa verso le fabbriche del Nord, a sancire in maniera sempre più evidente la non ancora raggiunta unità dello Stato italiano. In questo contesto Lorenzini sembra voler sostenere che i buoni propositi del Pisacane idealista e le buone idee del Pisacane ideologo socialista non si erano neppure affermate nella società degli anni Settanta, quando le proposte rivoluzionarie delle Brigate Rosse saranno ampiamente respinte dai movimenti popolari.

Dopo il fallito moto rivoluzionario, il processo ai circa trenta prigionieri iniziò a Salerno nel gennaio 1858 e si tenne nei locali del convento di San Domenico alla presenza dei rappresentanti di Austria, Francia, Piemonte e Gran Bretagna. Si concluse con sette condanne a morte non eseguite e nove condanne all’ergastolo, i particolari vennero alla luce otto anni più tardi grazie all’opera dello storico Giacomo Racioppi. Sulle condanne a morte non eseguite, De Cesare riferiva, oltre un trentennio più tardi, che «la storia, severa con Ferdinando II» avrebbe dovuto correttamente registrare una questione di tale influenza. Non lo fece, essendo in piena azione la poderosa propaganda denigratoria nei riguardi del re delle Due Sicilie da parte di inglesi, francesi e piemontesi .
Il 29 giugno, a Genova e Livorno, pervenute le notizie dell’esito felice dello sbarco a Ponza, i mazziniani cercarono invano di creare disordini. Il 3 luglio, giunta la notizia della disastrosa conclusione della spedizione di Sapri, il Governo piemontese fece arrestare Jessie White e una cinquantina di rivoluzionari, mentre ˗ secondo il parere di de’ Sivo del tutto svincolato dalla storiografia ufficiale sabauda e dalla letteratura agiografica risorgimentale ˗ Mazzini fu messo nelle condizioni di sfuggire all’arresto. Il relativo processo ebbe inizio il 4 febbraio 1858, mentre la White era già stata liberata il 13 novembre. Nel dibattimento processuale emersero le responsabilità del governo di Torino quando gli avvocati della difesa dimostrarono che «quell’arme e quelli attentati essersi permessi per appoggiare la rivoltura nel Napoletano, e fare l’Italia». Le esplicite accuse di complicità a Cavour e a Rattazzi produssero, il 14 febbraio, le dimissioni da ministro di quest’ultimo. Il processo si concluse con la condanna a morte di sei imputati, «tutti contumaci, che se la ridevano a Londra», tra i quali lo stesso Mazzini. Ancora una volta erano state dimostrate le responsabilità dell’Inghilterra e del Piemonte, ma anche la decisa volontà del popolo delle Due Sicilie di sostenere il proprio sovrano contro la rivoluzione definita mazziniana, anche se Pisacane ne aveva prese nettamente le distanze .

A Londra cadeva il governo whig guidato da Palmerston e il 20 febbraio 1858 lo sostituiva un Gabinetto tory presieduto da Lord Derby (Edward Smith-Stanley) con al Ministero degli Esteri Lord Malmesbury (James Howard Harris). Il nuovo quadro politico inglese faceva ben sperare in una soluzione diplomatica che togliesse il Regno delle Due Sicilie dall’isolamento. Difatti, Di Rienzo ha rilevato nelle memorie di Malmesbury che il ministro era convinto della necessità di prendere nette distanze dalla «sistematica ostilità dei Gladstone, dei Palmerston, dei Clarendon verso Ferdinando II», frutto di una politica aggressiva e opportunistica velata abilmente da falsi ideali e valori .
Ma la vicenda del piroscafo Cagliari della compagnia Rubattino di Genova dimostrerà il contrario. Il Cagliari era stato catturato dalle fregate della Marina borbonica Tancredi ed Ettore Fieramosca, a mezza strada tra Sapri e Ponza, con prove evidenti della sua partecipazione a quelli che il magistrato competente aveva considerato atti di pirateria e di incitamento alla guerra civile, tanto che in attesa del processo il piroscafo era stato posto sotto sequestro. L’arresto dei due macchinisti inglesi, Carlo Park e Enrico Witt, trovati con addosso la camicia rossa dei mazziniani e il biglietto di Jessie White, apriva un nuovo contenzioso con l’Inghilterra. Il console inglese lamentava di non poter visitare i due connazionali, in quanto le leggi napoletane vietavano agli imputati le visite prima dell’interrogatorio. Ammalatisi i due macchinisti, o fintisi pazzi come scrisse il de’ Sivo, Ferdinando II ritenne di concedere la grazia ai due inglesi.
D’altro canto, il Conte di Cavour, subito dopo la fallita impresa di Pisacane, tramite il Conte Groppello, ambasciatore a Napoli, si era affrettato ipocritamente a far pervenire la sua disapprovazione per un atto che fingeva di ritenere criminoso, mentre si accingeva a chiedere la restituzione del piroscafo con l’aiuto dell’ambasciatore inglese Hudson a Torino. Un atto sfrontato che non sfuggiva all’attento de’ Sivo, il quale avrebbe poi scritto che «chi facea professione di cacciar d’Italia ogni mano straniera, chiamava or Francesi or Inglesi negli italici piati».
Il Ministro degli Esteri del nuovo Gabinetto inglese sottopose nuovamente ai propri esperti di diritto la questione della cattura del piroscafo della Compagnia Rubattino, ottenendo un parere che, diversamente da quello precedente richiesto dal Governo Palmerston, attestava, ma solo da parte di uno dei tre giureconsulti, le buone ragioni del Governo di Torino nel chiedere la restituzione del Cagliari. Malmesbury, a questo punto, con due lettere datate 25 maggio, intimava il risarcimento con tremila lire sterline ai due macchinisti inglesi per ingiusta detenzione e, ritenuta illegittima la cattura del piroscafo genovese, prendeva inaspettatamente le difese del Regno di Sardegna chiedendone la restituzione tramite la mediazione del Governo svedese. L’8 giugno 1858, Ferdinando II, in maniera del tutto divergente dalla sua condotta precedente nei rapporti con la Gran Bretagna, poneva fine alla contesa facendo sapere di «non aver mai pensato d’aver forze da opporre ad Inghilterra», rimettendosi alla sua «volontà assoluta». Evidente come il diverso atteggiamento del sovrano napoletano era condizionato dalla circostanza che il “nemico” Palmerston non era più il Primo Ministro alla guida del Governo inglese.

L’atto di prepotenza perpetrato dalla Gran Bretagna e dal Regno di Sardegna era stato talmente palese al mondo intero che al rientro del Cagliari battente bandiera inglese nel porto di Genova, il 22 giugno, nonostante i giornali di Torino avessero usato toni trionfalistici, non ci furono festeggiamenti. Era del tutto chiaro all’intera Europa che «l’italianissimo Piemonte» si faceva forte della forza straniera per opprimere uno Stato italiano .
A distanza di un secolo e mezzo, uno degli storici accademici più accreditati sui rapporti tra il Regno delle Due Sicilie e le Potenze Europee tra il 1830 e il 1861, Eugenio Di Rienzo, ha scritto sulla vicenda che la diplomazia napoletana si era rivelata incapace «di fronteggiare le manovre di Cavour che, contra legem, aveva preteso e ottenuto, il 22 giugno 1858, la restituzione del Cagliari » .
Il cedimento di Ferdinando II, in relazione a vicende sulle quali la magistratura ordinaria avrebbe in seguito avallato la correttezza e la legittimità dell’azione del Governo napoletano, è comprensibile, oltre che giustificabile, solo se si considera che il passaggio dal Governo Palmerston a quello di Lord Derby aveva comunque instaurato un clima di disgelo reale tra Londra e Napoli.

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