LA VALOROSA STORIA DI ANTONIO COZZOLINO DETTO “PILONE”
Purtroppo per un secolo e mezzo, si è sempre parlato di brigantaggio violento e sanguinario di sola matrice banditesca criminale, ma è stata stesa una cappa di silenzio sulle vessazioni e sulle vendette politiche che si consumarono da parte di chi aveva fiancheggiato e spalleggiato con il tradimento i conquistatori del Regno duosiciliano.
Una conquista, che fu sostenuta da soprusi, violenze, angherie e brutalità che accesero gli animi meridionali e li disposero alla rivolta. Anche perché, spesso, il brigantaggio, all’indomani dell’arrivo dei nuovi padroni, fu l’ultima scelta che tantissimi meridionali si videro obbligati a fare per evitare di morire di fame.
Come accadde per Antonio Cozzolino, Pilone, perseguitato e costretto alla macchia dal sindaco del suo paese, per la sua fede borbonica professata. Sappiamo bene che in tutta la storia del brigantaggio gli ex soldati borbonici che rientravano ai loro paesi venivano vessati da i detentori del nuovo potere regio. Non dobbiamo dimenticare che Cozzolino combatté nell’armata del Regno delle Due Sicilie, dove raggiunse i gradi di sergente dei Cacciatori. A Calatafimi riuscì eroicamente a strappare il drappo alle truppe garibaldine, prima di essere costretto a battere in ritirata con il resto della truppa per l’atteggiamento troppo arrendevole assunto dai suoi superiori. Questo l’identikit di Antonio Cozzolino «Pilone» tracciato nel 1862 dal delegato di Pubblica Sicurezza Di Matteo, che assieme al delegato di «seconda classe» Giuseppe Petrillo, braccò il brigante legittimista lungo l’intero territorio vesuviano, e oltre, senza riuscire a mettergli le mani addosso se non dopo un decennio di guerriglia e scontri: «Età oltre la quarantina; statura alta; corporatura giusta; capelli neri, corti e ricci; viso bruno, tendente originalmente al pallido; occhi piccoli e neri un poco sbarrati da qualche tempo forse per continua concitazione d’animo; naso un poco lungo e alquanto ricurvo; bocca giusta; barba lunga, scinta, spezzata in mezzo, con mustacchio, qualche pelo grigio; testa alquanto inclinata; collo incassato».
“Pilone”, quindi era così soprannominato per via della sua folta barba. Ma fu soprattutto uno degli ultimi briganti ad arrendersi alle truppe piemontesi che gli diedero la caccia per oltre dieci anni, tentando di stanarlo sui pendii del vulcano più famoso del mondo, luogo in cui l’ex sottufficiale di re Francesco aveva stabilito il suo quartier generale. Alla fine, tradito da un compagno e abbandonato dalla camorra, cadde in un tranello che gli fu teso in via Foria, a Napoli, e lì cadde, trafito a colpi di pugnale a pochi passi dall’Orto Botanico. Una vera e propria guerra che si consumò all’ombra del Vesuvio nell’ambito della guerriglia ingaggiata tra i fedelissimi dei Borbone e le truppe di “occupazione” piemontesi. Che per certi versi fù simile a quella combattuta in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, tra i partigiani della Resistenza ed i tedeschi.
Un conflitto sanguinoso e violento esploso all’indomani dell’unità d’Italia nei territori dell’ex Regno delle Due Sicilie tra i “resistenti” borbonici e i sostenitori di casa Savoia. Verità scomode sul Risorgimento che a 152 anni dalla fatidica occupazione del sud ancora non ci è dato di conoscere! «Non si può non rimanere affascinati da una figura così forte come quella di Antonio Cozzolino, brigante legittimista e abile guerrigliero, capace di mettere più volte nel sacco bersaglieri, fanti e carabinieri. “Pilone” fu un fuorilegge e non sempre le sue imprese furono nobili. Come tanti altri capibanda del tempo, l’ex scalpellino del Vesuvio si macchiò di delitti e non fu certo uno stinco di santo nei metodi di lotta impiegati contro i piemontesi, che includevano sequestri di persona, assalti a treni e carovane, richieste di pizzo. Ma non è che sull’altro versante le cose andassero meglio. Paesi rasi al suolo, donne stuprate, fucilazioni di massa e deportazioni furono la triste regola seguita dagli invasori per piegare la resistenza opposta dalle popolazioni del sud ai nuovi regnanti venuti dal nord.
Gli eccidi di Casalduni, Auletta e Pondelandolfo invocano ancora giustizia. Gli stermini commessi nel campo di prigionia di Fenestrelle ai danni dei soldati napoletani che non vollero giurare fedeltà al nuovo re di casa Savoia sono equiparabili a quelli commessi dai nazisti nei lager dell’ultimo conflitto. Una pagina purtroppo tutta da scoprire, quella del cosiddetto Risorgimento. Se è con questi fatti che si è realizzata l’unità d’Italia è giusto, per amore di verità, riferirli nella loro interezza». Bisogna ristabilire la verità storica sui fatti del Risorgimento e, al tempo stesso, riscoprire le proprie radici, rafforzando il proprio senso di appartenenza al territorio, per aiutarci ad affrontare meglio il futuro. Radici, appartenenza, orgoglio, valori che mancano alle classi dirigenti del Mezzogiorno, sono le doti che dobbiamo offrire ai nostri giovani. Perchè questi valori non li abbiamo trovati nella cultura ufficiale, la quale si è rifugiata nella retorica e nella cancellazione delle verità storiche. Da qui, invece, dobbiamo ripartire per trovare la strada del futuro del sud.
Pasquale Peluso