La sposa invisibile

𝗘𝗺𝗶𝗹𝘆 𝘀𝗶 𝗿𝗲𝘀𝗲 𝗶𝗻𝘃𝗶𝘀𝗶𝗯𝗶𝗹𝗲
Un giorno di maggio scomparve Emily Dickinson, ma lei era scomparsa molto prima di morire.
“La mia veste di leggera garza. E la mia sciarpa di leggero tulle”. Di bianco vestiva Emily Dickinson, per indossare – a Dio piacendo – “il puro mistero della luce”. Lei che soffriva di fotofobia e amava restare nascosta. Scrisse di lei la pianista che frequentava la casa: “Vestiva unicamente di bianco, dicono che abbia un cervello come un diamante. Scrive molto bene ma non si lascia vedere da nessuno, mai”. Aspirò a una vita in bianco, ignota e reclusa, in attesa dell’altrove che incontrava nei versi attraverso i silenzi della poesia. Ma pubblicare, diceva, è mettere all’incanto la mente. Così non vide mai la luce la sua opera; soffriva anch’essa di fotofobia. Restarono entrambe invisibili per cogliere il lato segreto e ulteriore della vita.
“Nella mia stanza c’è un’amica invisibile – non lo provano gesti – non lo rivelano parole- Non occorre che io le faccia posto- Più conveniente cortesia è l’ospitale intuizione della sua compagnia”. Presentimento d’immortalità, come pensava Emily Dickinson, o fuoco fatuo di un’anima sola al buio? (Poi apro a caso i suoi versi, trovo la sua risposta e mi sorprende l’uso della stessa metafora: “Meglio un fuoco fatuo che l’assenza totale di luce”. L’illusione preferibile al nulla). Quel giorno di maggio Emily raggiunse finalmente la sua amica invisibile.

MV, La sposa invisibile (2006)